CPE, senza confini le leggi del capitale

Dopo la rivolta della banlieu parigina, anche gli studenti, e non solo, lottano contro la precarietà del lavoro

Il 18 marzo scorso, a Parigi, si è tenuta una grande, immensa manifestazione contro il Cpe, il contratto di primo impiego per i giovani sotto i 26 anni, che consente il loro licenziamento, anche senza giusta causa, in qualunque momento, nei due anni previsti come limite temporale del contratto. La risposta è stata immediata e intensa per partecipazione : oltre un milione e mezzo di manifestanti. Negli ultimi anni, raramente si è vista una  partecipazione simile, ripetuta poi in altre città francesi, tra le quali Marsiglia e Nizza. Questo è certamente un dato positivo, nel deserto delle risposte ai feroci attacchi che da anni le borghesie europee hanno portato alla forza lavoro, un episodio simile non può che rallegrare coloro a cui stanno a cuore gli interessi dei lavoratori. Accanto agli studenti medi ed universitari, che sono stati l’anima organizzativa della manifestazione, sono scesi in piazza anche centinaia di migliaia di giovani e meno giovani proletari, impiegati, dipendenti pubblici e privati, tutti coloro cioè che già la vivono, o temono che la precarizzazione non sia una temporanea misura congiunturale ma la realtà futura per tutti i lavoratori. Per il momento la lotta ha avuto il merito di mettere in crisi il governo che ha dovuto prendere in considerazione l’eventualità di abbassare ad un anno il periodo di prova e di obbligare il datore di lavoro a emettere una giustificazione scritta al licenziamento, per poi annullare la legge in attesa di tempi migliori. Forte e  organizzata è stata anche la presenza delle forze politiche di sinistra, dei sindacati ufficiali e di base che però, come al solito, sono stati al traino dell’iniziativa e non i promotori, ben consapevoli del loro ruolo istituzionale in chiave politica di opposizione al governo di destra, ma pronti a gestire, in altre forme, i medesimi contenuti, una volta arrivati al potere politico. Quella di Parigi non è stata solo una grande manifestazione, è stato anche il segno che il capitalismo moderno sta tirando troppo la corda e che le manifestazioni di rifiuto alla pauperizzazione, all’insicurezza sociale e alla guerra si moltiplicano nei vari continenti, dall’America latina agli Usa e, recentemente, nel vecchio continente. Nulla di ancora rilevante ma i segni dell’insofferenza vanno moltiplicandosi.

Meno positivi, per quanto riguarda una più efficace strategia di lotta proletaria, i contenuti della protesta. Fatta l’ eccezione  della presenza di qualche sparuta minoranza rivoluzionaria con  parole d’ordine di contenuto classista, gli slogan contro il governo di de Villepin si sono limitati alla critica del Cpe, delle sue immediate e future conseguenze, senza prendere in considerazione il nesso che lega la precarietà del mondo del lavoro alla crisi del capitale. In Francia, come nel resto del mondo, il capitale soffre della mancanza di adeguati profitti che rende il sistema economico, nel suo complesso, più debole e ,proprio per questo, più cattivo e inumano. Ogni suo atto di aggressione al mondo della forza lavoro è un  tentativo di far pagare ai proletari le sue contraddizioni . Ogni suo sforzo è rivolto alla sopravvivenza di se stesso, del suo modo di produrre  e di distribuire ricchezza che, in una fase di decadenza, significa meno salari diretti e meno stato sociale, meno potere d’acquisto, più povertà e insicurezza, più precarietà sul posto di lavoro, allungamento dell’età pensionistica e disoccupazione generalizzata. Per i giovani proletari, poi, la pensione diventa un miraggio irraggiungibile, la sanità un lusso, la scuola statale una sorta di parcheggio in attesa o della disoccupazione o di un  lavoro precario, che è l’unica certezza che questo sistema economico è in grado di garantire.

Il Cpe altro non è che la versione francese della precarietà lavorativa che in Italia, ad esempio, ha già fatto passi da gigante. Con la riforma Treu prima, e con quella Biagi poi, si sono posti in essere 40 contratti di lavoro atipici, che hanno come comune obiettivo quello di dare al capitale quella quantità di forza lavoro necessaria, e non di più. Di averla a disposizione solo nel momento in cui è economicamente conveniente, quando i tassi di sfruttamento sono adeguati alle necessità di valorizzazione del capitale stresso, e quando il mercato lo richiede. In caso contrario, quando esiste la necessità di ridurre la produzione, ed è per questo che sono stati creati i vari contratti atipici, il capitale si può sbarazzare immediatamente dell’esubero di forza lavoro, senza vincoli di sorta, senza rimetterci un soldo, il tutto, ben inteso, in nome della competitività nazionale che deve stare al passo con la concorrenza internazionale degli altri capitali, che peraltro, vivono i medesimi problemi e  impongono al proletariato internazionale le stesse misure. Un altro limite dell’oceanica manifestazione di Parigi e delle successive lotte che si sono prodotte, è che non si è pensato, e tanto meno praticato, un tentativo di trasformare così tanta mobilitazione in un momento di sollecitazione, di generalizzazione e di coordinamento di altre lotte all’interno dei posti di lavoro. La precarietà proposta del Cpe, che oggi interessa I giovani studenti e proletari, domani sarà trasversale a tutte le categorie di lavoratori e di tutte le età. La grande manifestazione avrebbe dovuto  essere politicamente concepita non come il punto di approdo della mobilitazione ma come il punto di partenza delle lotte sui posti di lavoro, nei vari settori produttivi. Una lotta sì contro la precarietà, ma anche contro il capitalismo che l’impone, contro le sue crisi, la sua aggressività nei confronti  mondo del lavoro. Certo non è minimamente pensabile che un movimento di protesta appena nato, così socialmente composito e politicamente eterogeneo, possa immediatamente, e da solo, fare analisi coerenti e porsi chiari e conseguenti obiettivi. Occorre che in frangenti di lotta come questi(Parigi insegna, ma in quante altre situazioni si è presentato lo stesso problema), ci sia la presenza operante di una forza politica di classe che sappia esserci nelle lotte, crescere con esse, porsi come punto di riferimento tattico e strategico, per svolgere quel lavoro che può far alzare  il livello politico delle lotte stesse. In caso contrario ogni manifestazione, per grande e partecipata che sia, ogni lotta, anche la più determinata e forte che si possa immaginare, sono destinate alla sconfitta o a spegnersi sul campo per stanchezza, lasciandosi alle spalle solo scoramento e rassegnazione, se non sorrette e dirette dalle avanguardie rivoluzionarie, alle quali non spetta solo il compito di guidare le lotte nella fase montante, ma anche quello di saper amministrare politicamente la sconfitta. Ma tutto ciò, oggi, è quasi inesistente. Manca  sulla scena politica internazionale il partito della classe operaia, il partito rivoluzionario dei comunisti, manca la necessaria guida alle lotte che oggi si esprimono, e che domani l’aggravarsi della crisi del capitalismo renderà più numerose e intense. Allora non è il momento dell’angoscia e del rammarico per questa mancanza, è l’ora di lavorare per costruirlo.

fd

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.