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Home ›Sulle celebrazioni dei quarant’anni del ‘68
Ribelli, rinnegati e rivoluzionari tirano il bilancio di una stagione di proteste
Ben vengano gli anniversari, se questi non si risolvono in vuote rievocazioni, ma offrono l’opportunità per fare - o rifare - il punto su eventi che hanno lasciato un’orma nella storia. Solo così ha senso ritornare, dopo quarant’anni, sul ‘68, soprattutto per i più giovani che, in genere, ne hanno un’idea molto vaga, eco confusa di acritiche esaltazioni e rabbiose denigrazioni.
Nostalgici, pentiti e avversari di sempre, ognuno a modo loro, continuano ad offrire di quell’anno, per molti versi eccezionale, un quadro deformato e, quello che più conta, completamento sganciato da un’ottica di classe (proletaria).
Al contrario, la nostra piccola organizzazione, nel vivo stesso di quei giorni tumultuosi seppe inquadrare correttamente la natura degli eventi in corso e dei suoi protagonisti, tanto che oggi, col privilegio della prospettiva storica, abbiamo ben poco da aggiungere a quanto i nostri compagni (uomini e donne), tra un’assemblea e un corteo, tra un volantinaggio operaio e uno “scazzo” con gli avversari politici, dicevano e facevano. Per lo più, non abbiamo da fare altro che confermare quelle analisi, constatando, allo stesso tempo, come il “pentitismo” di tanti reduci di quegli anni “formidabili” non si sia fatto scrupolo di scendere i gradini più infimi e infami del rinnegamento di se stessi e degli ideali di un tempo.
O, messa in un’altra maniera, come il ritorno all’ovile borghese di molti ribelli sia stato tanto rapido quanto la cotta per la classe operaia e il mondo dei diseredati. Sì, perché il ’68 non fu un mancato assalto al cielo della borghesia, ma una ribellione generalizzata che, per molti aspetti, rimase dentro gli orizzonti della società borghese, nonostante in quel movimento confluissero genuini elementi di classe proletaria.
Da un certo punto di vista, fu un adattamento - non indolore, né pacifico - della sovrastruttura ideologica (cultura, modo di vivere, mentalità intesa in senso lato) ai sommovimenti intervenuti nella struttura economica dagli anni ’50 in avanti. O meglio, questo fu, in fin dei conti, il risultato, dopo che le spinte provenienti dalla classe operaia, dal proletariato, si infransero non tanto contro la repressione poliziesca, quanto contro il muro di gomma del sindacato, ormai parte integrante dello stato. Anzi, proprio il “Biennio rosso” ’68-’69 sancì definitivamente la trasformazione del sindacato in cinghia di trasmissione degli interessi borghesi dentro il mondo del lavoro salariato.
Ovunque, dalla Renault occupata all’Autunno caldo italiano, il sindacato, preso parzialmente alla sprovvista dall’effervescenza operaia, seppe contenere, recuperare e infine soffocare la rabbia operaia, comprese le frange più “incazzate” sfuggite, in un primo momento, al guinzaglio sindacale.
Ma il terreno era stato preparato dalla piccola borghesia studentesca, radicalizzatasi contro il mondo grigio e ammuffito dei propri padri. Solo per citare qualche esempio, la scuola di massa (rispondente ai bisogni del “neocapitalismo”), i nuovi consumi, i cambiamenti profondi negli stili di vita, rendevano sempre meno tollerabili scuole fatiscenti, aridi nozionismi, rigide gerarchie improntate a un ottuso autoritarismo e a un ipocrita perbenismo che facevano a cazzotti con le nuove libertà di cui si cominciava ad assaporare il gusto. Non solo, nel disprezzato mondo dei padri c’erano anche il razzismo, il colonialismo, l’imperialismo e la guerra.
Non per niente, il ’68 comincia nel 1966-67, quando, negli Stati Uniti, decine di migliaia di studenti universitari protestano contro la cartolina che li vorrebbe spedire nelle risaie del Viet Nam. Da lì, a valanga, il movimento si espande un po’ in tutto il mondo, facendo delle università le proprie roccaforti, alimentato da un “pensiero critico” che non salva niente della morale dominante: sesso, famiglia, religione, scuola (appunto). È un pensiero che cerca di contaminarsi col marxismo, ma, il più delle volte (a essere generosi) ciò che ne esce è una variante in chiave moderna della “grande” filosofia borghese (Kant, Hegel, Nietzsche...), in cui il soggettivismo volontaristico assume dimensioni enormi. Dall’immaginazione al potere alla controcultura, dalle comuni hippy fino al “comunismo qui e ora” del sedicente contropotere, c’è l’illusione di poter vivere una vita radicalmente diversa all’interno della società borghese o, il che cambia poco, di pervenire al comunismo sulla pura spinta soggettiva del proprio desiderio, ignorando e/o saltando gli aspri passaggi del cammino rivoluzionario. Forse, pochi altri slogan come “Preti, borghesi, ancora pochi mesi!” sintetizzano le illusioni di cui erano preda le masse di giovani e, in particolare, di studenti. È questo infantilismo estremista che, mentre generalizza la radicalizzazione, la “incazzatura”, la critica confusa ma dura al sindacato di certi settori operai, alimenta teoricamente e praticamente un’artificiosa separazione politica nel corpo del proletariato, esasperando le differenze tecniche (le qualifiche e le mansioni) evidentemente presenti nella classe operaia. L’argomento sarebbe troppo lungo da trattare, qui basti dire che la suicida teorizzazione del cosiddetto operaio-massa (l’operaio di linea, con bassa qualifica) come soggetto politico spontaneamente rivoluzionario, pardon, antagonista al capitale e giustamente refrattario alla forma-partito, è la trasposizione in chiave operaistica dell’altrettanto sbagliata teoria di Hebert Marcuse, vero padre spirituale del ’68, secondo cui la classe operaia occidentale era ormai persa per la rivoluzione, perché integrata nel capitalismo del benessere consumistico. Di fronte alla vita bestiale, allo sfruttamento bestiale cui erano (erano?) sottoposti milioni di operai, immigrati ma non solo, per la piccola borghesia intellettuale nostrana era un po’ difficile sostenere la teoria dell’integrazione operaia, quale spiegazione del basso livello della lotta di classe: ecco allora che appare l’operaiomassa quale soggetto politico pressoché unico... assieme agli studenti, alle “donne”, agli emarginati e ai marginali di ogni specie. Dall’idealismo all’interclassismo e viceversa.
Il volontarismo spinto, abbondantemente condito con i cascami ideologici dello stalinismo - per lo più in salsa maoista - depotenziò e poi disperse la carica detonante che, oggettivamente, sarebbe potuta essere la “contestazione generale”, se si fosse correttamente collegata con la classe. Ma questa saldatura poteva compierla solo il partito rivoluzionario, allora, come oggi, troppo debole per essere in grado di influire sul corso degli eventi. Allora, come oggi, questo era ed è il vuoto enorme che deve essere, dunque, riempito.
cbBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 2008
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