Lezioni dalla crisi nel Caucaso

Instabilità e guerra permanente ecco il futuro

Il quadro generale dei rapporti interimperialistici che si sta delineando a seguito della recente guerra fra Russia e Georgia e di cui specificatamente si parla nell’articolo Ossezia del Sud, Georgia e dintorni offre non pochi spunti utili per una più puntuale comprensione del fenomeno dell’Imperialismo in questa fase storica.

Innanzitutto, va rilevato che avendo per oggetto del contendere il petrolio e le sue vie, essa si ascrive a pieno titolo in quella più generale guerra imperialista divenuta ormai permanente e destinata a sconvolgere radicalmente gli attuali equilibri interimperialistici come accadde con le due prime guerre mondiali. Viene così ancora una volta smentita la tesi secondo cui con il crollo del muro di Berlino e l’implosione dell’Orso sovietico non avremmo più avuto guerre ma solo, ma solo “scontri di civiltà”. Ed è smentita sul campo anche la tesi che fu dei teorici della Seconda Internazionale secondo cui la tendenza alla concentrazione e alla centralizzazione dei capitali a un certo grado di sviluppo avrebbe dato luogo a un sorta di Superimperialismo che, eliminando la concorrenza, avrebbe rimosso anche la causa delle guerre. Il riaccendersi dello scontro interimperialistico conferma invece la validità dell’approccio metodologico di Lenin al fenomeno dell’Imperialismo come fase suprema del capitalismo e perciò destinata non a sopprimere le contraddizioni immanenti al processo di accumulazione dei capitali, ma ad approfondirle dilatandole nello spazio e nel tempo.

Se, come sembra, la partita caucasica si chiuderà a favore della tuttora ammaccata Russia, lo si deve sì al forte rialzo dei prezzi del petrolio e del gas che ne ha favorito la rinascita, ma anche al sempre più evidente declino degli Usa, determinato proprio dall’operare di quelle contraddizioni ritenute troppo frettolosamente superate definitivamente. La crisi georgiana, inoltre, ha inequivocabilmente confermato la giustezza della nostra tesi secondo cui l’epoca delle cosiddette guerre di liberazione nazionale si è chiusa già da tempo per il venir meno delle stessa loro ragion d’essere; infatti Saakashvili non ha compiuto un solo passo autonomamente, ma in tutte le circostanze si è mosso come il rappresentante locale della frazione borghese georgiana nell’ambito del fronte statunitense.

Altresì è ora del tutto evidente che l’equazione per cui l’antimperialismo e l’antiamericanismo siano la stessa cosa è del tutto infondata, a meno di voler credere a Putin quando afferma che l’intervento russo in Ossezia è stato dettato da ragioni umanitarie. Nondimeno non dubitiamo che tutti coloro che per il nostro rifiuto di appoggiare uno o l’altro dei fronti imperialisti in campo ci accusano di indifferentismo non perderanno neppure questa occasione per disertare la pratica del disfattismo rivoluzionario e schierarsi con l’Ossezia e la Russia di Putin, probabilmente rispolverando la vecchia distinzione fra imperialismo numero uno (gli Usa) e imperialismo numero due (Russia).

Ma torniamo alla crisi georgiana e alle sue lezioni. Nel risorgere della Russia dalle sue ceneri non pochi analisti vi hanno visto un ritorno all’epoca della guerra fredda. Ma il quadro dei rapporti interimperialistici che si va delineando appare però molto più complesso di quello uscito dalla seconda guerra mondiale. L’intreccio di interessi che nel corso del tempo e in particolar modo dopo il crollo del muro di Berlino è andato tessendosi fra le diverse aree del mondo è tale per cui è divenuta praticamente impossibile la costituzione di due blocchi omogenei al loro interno e contrapposti fra loro come si ebbero a seguito della seconda guerra mondiale. Rispetto ad allora, tutte le relazioni interborghesi sono divenute molto più fluide e complesse tanto che spesso si sviluppano in modo trasversale all’interno di una medesima area. Immaginare in un simile contesto il riproporsi di una periodo di stabilità basato sull’equilibrio delle forze in campo ci appare del tutto irrealistico. E per prima sembra esserne consapevole proprio la Russia di Putin. Tutte le mosse che ha compiuto sin dall’inizio della partita georgiana sono state infatti accuratamente studiate per evitare di rimanere rinchiusa nell’angolo del muro contro muro entro cui gli Usa avrebbero voluto spingerla nel tentativo di compattare contro di essa l’intero fronte Occidentale e in modo particolare l’Ue. Forte della sua ricchezza di idrocarburi e della sua posizione geografica, si è invece posta come una terra di mezzo, una sorta di moderna Bisanzio reinterpretata come tramite e baluardo fra due mondi, l’Oriente e Occidente; ruolo peraltro confacente sia agli interessi di quei paesi che costituiscono il nucleo storico della Ue come Francia, Germania e Italia, sia alla Cina e all’India che temendo il crollo dell’economia statunitense sono alla ricerca di sbocchi alternativi per le loro esportazioni. In tal senso è stata emblematica la linea di condotta seguita dal governo Berlusconi.

Quello fra i governi europei che era ritenuto il più filo americano, è stato prima uno dei più cauti nell’accogliere le pressanti richieste della Georgia di entrare nella Nato e poi, quando si doveva decidere se imporre sanzioni economiche contro la Russia, fra i più decisi ad opporsi. La crisi georgiana, in realtà, ha mostrato che esistono almeno due Europe: una costituita dai paesi facenti parte dell’ex Unione sovietica pronta ad accucciarsi sotto l’ala protettrice della potenza militare statunitense e l’altra, quella che più conta, con in testa Germania, Francia e Italia, che avendo intessuto già da tempo una fitta ragnatela di interessi non solo energetici con la Russia non può consentirsi di ritrovarsela su un fronte inconciliabilmente opposto senza mettere in conto una spaventosa crisi economica. Infine, ma più defilate, l’Ucraina e la Gran Bretagna, quest’ultima sempre più in bilico fra l’euro e il dollaro.

In questo contesto è evidente che l’unificazione politica dell’Europa, almeno così come è stata concepita finora, è altamente improbabile e una selezione al suo interno appare inevitabile. Molti degli esiti di questo processo dipenderanno dalla velocità del declino statunitense. Più esso sarà celere più forti si faranno le pressioni americane su quei paesi che maggiormente temono il ritorno della Russia nel novero delle grandi potenze. Quanto poi queste pressioni potranno avere successo è tutto da verificare poiché, se è vero che senza i missili americani questi paesi potrebbero finire in ogni momento fra le fauci dell’Orso russo, è vero anche che senza i quattrini di Bruxelles difficilmente potrebbero sopravvivere dato che i missili americani non sono commestibili.

Due Europe, ma anche due Afriche, due Americhe, due Asie e molte zone in ogni continente tuttora in chiaro-oscuro e sullo sfondo lo spettro di una crisi economica mondiale che se per molti versi richiama alla memoria il 1929, per il contesto in cui è maturata e le strette interconnessioni che legano fra loro le diverse aree economiche del mondo potrebbe sfociare in una catastrofe economica senza precedenti. In uno scenario del genere a farla da padrone sarà il continuo rimescolamento delle alleanze e dei fronti, l’instabilità e la guerra permanente che solo una forte ripresa della lotta di classe potrebbe contrastare ma di cui al momento si intravedono solo rare e flebili tracce.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.