A tre anni dalla crisi

Più volte annunciata dagli stregoni borghesi dell’economia, l’uscita ufficiale dal tunnel della crisi (nell’agosto 2007 esplose l’insolvenza dei mutui subprime in Usa) si presenta ancora lontana. La “crescita” - indispensabile per una concreta sopravvivenza del capitalismo - non dà affidabili segnali di una ripresa duratura; si mantiene a livelli minimi, del tutto insufficienti per annullare la notevole inutilizzazione delle capacità industriali presenti in tutti i Paesi. Dati di fatto che vanno ad incrementare la disoccupazione e a diminuire i consumi, diminuzione che per il capitalismo significa difficoltà a realizzare il plusvalore contenuto nelle merci e quindi un freno alla loro produzione. Si tratta di una serie di elementi negativi per il movimento delle leggi del modo di produzione capitalistico, tali da mettere la borghesia in una condizione di perenne allarme, evidenziando che la crisi non è affatto finita bensì si è addirittura stabilizzata manifestando anche continui sussulti di assestamento verso il… basso. Con l’aggiunta di un altro incubo, quello di una inarrestabile crescita dei debiti statali (già vicini all’esplosione) e di obbligate politiche monetarie che annaspano fra tassi ridotti ormai ai minimi, tutti sotto l’1% (fino allo 0,25% negli Stati Uniti (1) 0,10% in Giappone, 0,5% nel Regno Unito).

Il terreno, sia a livello nazionale che internazionale, si presenta cosparso di cumuli di macerie provocate dalle esigenze di violente ristrutturazioni di settori obsoleti oltre che paradossalmente afflitti da eccessi di capacità produttiva. (2) Questo mentre si sta sgretolando l’intero sistema fin qui messo a fatica in piedi per una minima sicurezza sociale, assistenziale e previdenziale. Quel welfare state che i servi sciocchi del capitale incensavano fino a ieri - specie nel vecchio continente - per meglio “addomesticare” il proletariato.

Il quadro delle economie nazionali mantiene le fosche tinte di un paesaggio oscurato da strati nuvolosi caratterizzati dalla presenza soffocante della rendita finanziaria (e fondiaria-immobiliare) (3); dal persistere di bassi investimenti produttivi; dallo sviluppo di forme di intermediazione parassitarie e senza valore, agevolate dalla crescita dell’evasione fiscale; da condizioni sociali in netto peggioramento che vanno a colpire anche strati della piccola borghesia, fino a ieri parassitariamente sostenuti dal capitale.

Le “sregolatezze” finanziarie, nel frattempo, hanno ripreso vigore lanciando persino una nuova categoria di prodotti “finanziari sintetici”, gli Etf. Ha fatto seguito un boom di “Asset backed securities” (Abs) con “cartolarizzazioni garantite dai flussi di cassa di una categoria di debito a rischio di mora molto alto” (queste le definizioni degli “esperti”). Anche se le cartolarizzazioni di mutui tossici si sono bloccate, tuttavia non è affatto entrata in vigore la riforma del sistema finanziario (legge Dodd-Frank siglata da Barack Obama nel luglio scorso). Quindi di nuovo soffia il vento nelle tre vele principali della finanza: la liquidità, i prodotti o le operazioni borderline, e la propensione a correre rischi sempre più forti. Al prossimo crack! Dati della seconda metà d’aprile segnalano a più di 2mila miliardi di dollari il denaro complessivamente amministrato dagli hedge fund (oltre 72 miliardi più del giugno 2008). La liquidità abbonda e visto che i saggi di profitto nelle industrie sono “in sofferenza”, inevitabilmente si rischia in altri “settori” alla caccia di plusvalore… fittizio. I “prodotti” più ricercati sono veicoli finanziari strutturati ad alto rischio come i sopra menzionati “Asset Backed Securities”, obbligazioni di finanziamento per l’acquisto di auto che hanno già raggiunto i 18 miliardi di dollari.

Quanto ai famigerati Cds (Credit Default Swap, contratti derivati su polizze di assicurazione) nel mercato mondiale si aggirano 30.000 miliardi di dollari di cui la metà sono Cds su titoli americani. Sono “manipolati” dalle grandi banche: quelli sui debiti sovrani (rischio fallimento dei singoli Stati) crescono a ritmo sostenuto. Nuove bolle speculative si gonfiano…

Vane manovre monetarie

L’intera e preoccupante situazione, maturata all’interno del fondamentale processo di produzione e da lì allargatasi a quello della circolazione, ha interessato tutto il sistema a livello internazionale aprendo evidenti e profonde crepe. Le quali testimoniano quanto intense siano state le scosse “telluriche” che improvvisamente e inaspettatamente (a detta di lor signori) hanno frenato la tanto conclamata marcia in avanti del modo di produzione e distribuzione globalmente imperante. Addirittura qualche scossone si va ancora ripetendo, fra l’altro proprio in quegli Usa che annaspano con un debito complessivo giunto a ben 14.194,78 miliardi di dollari (fino a sfiorare il 90% del Pil) e con il deficit del pubblico bilancio a più di 1500 mld di dollari (quasi l’11% del Pil), mentre i disoccupati ufficiali si avvicinano ai 10 milioni con un tasso di disoccupazione oltre il 9% (con cifre debitamente manipolate). (4)

Sullo scenario mondiale soffiano i venti mai placatisi di turbolenze monetarie che i principali Stati dei predoni imperialisti tentano di placare a proprio vantaggio con politiche monetarie che ripetono tentativi storici fallimentari, già praticati sul terreno del corso dei cambi e sull’interscambio. L’instabilità monetaria si trascina fra masse cartacee (moneta di credito) che, sganciatesi da ogni vincolo con l’oro (5), lo stesso “distacco” l’hanno sviluppato con la massa dei valori delle merci. Flussi valutari e cambi si presentano sganciati da quella che è l’economia reale, con tentativi di “competizioni valutarie” all’interno di un mercato che ufficialmente scambia 4mila miliardi di dollari al giorno (Il Sole 24 Ore, 30/9/10).

Fra le “contromisure” messe in campo, è un fatto certo che l’offerta di moneta portata avanti negli ultimi tempi dalla Banca centrale americana si è appoggiata su una base irreale, costituita dalla illusione di una crescita domanda-offerta che porterebbe in concreto ad un aumento del volume degli scambi. Un aumento al quale dovrebbero essere interessate famiglie, imprese e pubblica amministrazione, alzando di conseguenza e meccanicamente i livelli del prodotto interno lordo. Esattamente ciò che non avviene affatto né in America né in quasi tutte le altre parti del mondo. La stessa Cina, pur registrando ancora tassi di crescita di buon livello (per gli interessi del modo di produzione capitalistico), comincia a dare segnali di arretramento.

Dunque, l’offerta di moneta aumenta (il mercato finanziario americano è inondato dalla liquidità emessa dalla Federal Reserve) ma la domanda di merci quanto meno ristagna. I commentatori finanziari dello schieramento borghese, da qualche mese si spremono le meningi attorno al fatto che, nonostante questa tendenza in atto, i tassi di interesse corrispondenti di norma al prezzo della moneta anziché continuare a scendere col perdurare di condizioni di sproporzione tra offerta e domanda (così infatti è stato fino a poco tempo fa), ora stanno aumentando. A metà febbraio 2011 le continue immissioni di dollari da parte della Fed americana hanno portato improvvisamente ad un aumento del tasso sul TBond americano (quello a dieci anni) che dal 2,50% ha fatto un salto fino al 3,50%. Questo mentre i tassi di interesse a breve, stabiliti dalla Banca centrale, sono rimasti al palo con una forte differenza (il più alto differenziale degli ultimi 40 anni) rispetto ai tassi di interesse a lungo termine. Molto dipende dai timori inflazionistici che si sono diffusi rompendo uno di quei supposti meccanismi di tipo monetario che gli esperti-stregoni borghesi credono di poter controllare e dirigere a loro piacimento.

Ultimamente il rendimento dei TBond (offerti come “rifugio di sicurezza”…) è sceso però sotto il 3%, ricalcando uno scenario deflazionistico. (Da notare che nel mondo gli investimenti fissi lordi continuano a calare.) Una fra le maggiori società di gestione del segmento obbligazionario ha di conseguenza già ridotto drasticamente la sua esposizione ai bond emessi dal Governo Usa. Si teme che un basso rendimento possa far calare anche la domanda di titoli governativi quando la Federal Reserve ultimerà il suo programma (600 miliardi entro fine giugno) di riacquisto-sostegno; in presenza, inoltre, di una previsione di risalita dei tassi di interesse del denaro sia in Usa che in Europa. Meglio, quindi, una bassa esposizione ai titoli di Stato, le cui aste ultime si sono chiuse negli Usa con risultati non confortanti. (6) Di fatto, lo Stato emette titoli di debito e poi, attraverso la Banca centrale, li ricompera… Nelle casseforti della Fed giacciono già più di 2mila miliardi di titoli.

Salvataggi di banche e finanziarie, in particolare, e aiuti e stimoli ai settori industriali praticati dalla Casa Bianca e dalla Fed, sono già costati almeno 14 trilioni di dollari. Hanno finito col dare ossigeno a gigantesche operazioni di carry trade, speculazioni al ribasso sulle monete giocando sulle differenze dei tassi di interesse secondo le politiche monetarie dei vari paesi, e concentrate ultimamente sullo yen ma anche sul dollaro. Vedi poi le avventure dell’euro, più volte nello scorso anno ai minimi sul biglietto verde americano ed ora in ripresa.

L’abbassamento dei tassi di interesse ha seguito le manovre americane che si sono dedicate ad una inondazione di liquidità volta anche a svalutare in parte il dollaro per ridare fiato alla sofferente economia Usa. Nel complesso le prospettive sono piuttosto negative: si potrebbe azzardare addirittura “catastrofiche”, se non fosse per un perdurante condizione di passivo assoggettamento alle manovre borghesi da parte di un proletariato nel complesso ancora in uno stato confusionale, oltre che del tutto organizzativamente e politicamente disarmato. In agguato persino la eventualità - come ultima spiaggia borghese e visti i venti di guerra che si alzano qua e là - di un conflitto armato anche geograficamente allargato. Le spese statali per armamenti sono in costante ascesa per le maggiori potenze, Usa e Cina in particolare, e gli “interventi umanitari” in corso hanno costi elevati con tornaconti tutti ancora da verificare.

L’Europa arranca

Uno sguardo va agli scenari europei, dove i tassi ufficiali del costo del denaro sono stati pure qui mantenuti molto bassi, almeno fino a quando si è ampliato l’allarme di una inflazione in ripresa e si è cominciato a parlare di qualche ritocco dei tassi di interesse da parte della Bce, anche se questo potrebbe portare verso un ulteriore sbando il debito pubblico greco e quello (edilizio in particolare) di Spagna e Irlanda. Si aggiunga a questo quadro poco rassicurante gli aumenti in corso di petrolio e altre materie prime, con ripercussioni sui costi di produzione e di trasporto merci.

Le previsioni, temute, sono state confermate quando, 7 aprile, la Banca centrale europea ha alzato il tasso di riferimento del costo del denaro dall'1% all'1,25. È il primo aumento dal luglio 2008, quando i tassi aumentarono dal 4% al 4,25% (7); si avranno quindi riflessi a cascata sui costi del credito bancario a famiglie e imprese. Paradossalmente, il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, non ha perso l’occasione per dichiarare, compiaciuto, che si sta facendo

tutto quello che bisogna fare nell’interesse dei paesi dell’area euro [... Lo si farebbe con] la preoccupazione di garantire la stabilità dei prezzi in tutta l’area, per i cittadini e in particolare pensando ai paesi più poveri della zona euro, e preservando il clima di fiducia delle famiglie e delle aziende.

Letteralmente preso in giro, il proletariato dei vari paesi vede invece, e vive concretamente, un costante peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di esistenza. Quanto ai paesi periferici, a cui sopra accennavamo, come Grecia e Irlanda, la “stretta” si farà particolarmente sentire; lo stesso per il Portogallo costretto a chiedere il “soccorso” europeo per una cifra fra i 70 e i 90 mld di euro per tamponare la sua crisi finanziaria.

Secondo la Bce, anche l’Italia, assieme a Spagna e Belgio, è al centro di tensioni sul proprio debito sovrano. Sempre a detta dell’Istituto di Francoforte, lo scenario generale di una possibile (ma non affatto scontata) ripresa europea, è dominato da “un livello di incertezza persistentemente elevato”. E non solo per l’Italia, ma in parte anche per la stessa Germania viene seguita con attenzione. Nel nostro Bel Paese c’è inoltre da tener presente che la Legge di Stabilità - di cui si afferma la validità triennale - in realtà e in base alla vigente Costituzione italiana è vincolante per un solo anno, il 2011. Significa che nel 2012 e 2013 potrebbero rendersi necessari riaggiustamenti e modifiche; questo con un debito pubblico ormai prossimo ai 2000 miliardi di euro e con il prezzo del credit default swap (assicurazione contro l’insolvenza per i titoli di Stato) che sta toccando il 2%. (8) La Germania è allo 0,05% mentre l’Italia si sta avvicinando alla Spagna: 2,61%. Gli speculatori finanziari sono naturalmente in agguato.

Restando in Europa, gli scricchiolii delle sue impalcature economiche e finanziarie non cessano di inquietare le notti insonni delle borghesie continentali più che mai avvinte al proprio portafoglio nazionale. In primis sempre la questione di un debito pubblico che sta sprofondando in un confuso quadro di debitori e creditori. Il rischio di un “fallimento” di questo o quel paese, che alla fine coinvolga l’intera Unione Europea, e non solo, caratterizza quella intricata matassa che sta soffocando il tanto agognato “sviluppo” industriale e commerciale nonché finanziario. Francia e Germania si presentano nel ruolo di creditori, ma di certo una insolvenza dei loro debitori sarebbe un disastro per tutti. Vedi appunto le ultime allarmanti situazioni di alcuni paesi, confermate dalle quotazioni delle polizze assicurative sul rischio di fallimento (credit default swaps - Cds), che sono volate in alto. Con la gioia di quanti speculano a piene mani, come le agenzie di rating creditizio le quali, dopo aver concesso generosi attestati di solvibilità, improvvisamente a fine 2009 dichiaravano che Grecia e Portogallo “rischiano una morte lenta”… Ricordiamo che queste istituzioni elitarie sono pagate dalle stesse società che emettono i titoli ai quali viene dato il voto di affidabilità! Un rating sul quale obbligatoriamente si basano molte società nel costruire i loro portafogli. E così è stato, a suo tempo, per quei mutui subprime ai quali fu dato il massimo (“tripla A”) di assicurazione creditizia!

Qualcuno lo aveva previsto…

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Dopo aver gonfiato il consumo con indebitamenti privati e pubblici, la inesorabile caduta del saggio di profitto manifestatasi durante gli ultimi decenni ha finito col bloccare lo “sviluppo” della produzione e dei mercati, portando i processi di finanziarizzazione, attorno ai quali la borghesia brindava, a limiti insopportabili. Un certo Marx lo “prevedeva” a chiare lettere un secolo e mezzo fa, scrivendo nel terzo libro del Capitale:

Nella misura in cui il saggio di profitto, il saggio di valorizzazione del capitale complessivo è il pungolo della produzione capitalistica, così come la valorizzazione del capitale è il suo unico scopo, la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico. (Questa stessa caduta favorisce sovrapproduzione, speculazione, crisi, capitale in eccesso accanto alla forza-lavoro in eccesso o sovrappopolazione relativa).

A questo punto, uno sguardo alle analisi critiche sviluppate da Marx sulle questioni sopra esposte diventa più che opportuno. In particolare proprio per quanto riguarda la funzione strumentale svolta dal credito affinché il capitale disponibile sia messo nella condizione di superare i suoi stessi limiti. In particolare oggi, in presenza di quella tendenziale caduta del saggio medio di profitto che “scoraggia” investimenti produttivi (sempre per il capitale) e spinge verso quelli improduttivi e speculativi, dietro il famoso mito del denaro che da sé si valorizza. Altro splendido brano di Marx:

Proprio perché la figura del valore è la sua forma fenomenica autonoma, tangibile, la forma della circolazione D…D’, il cui punto di partenza e punto di arrivo è denaro vero e proprio, esprime nella maniera più tangibile il far denaro, il motivo conduttore della produzione capitalistica. Il processo di produzione appare soltanto come termine medio inevitabile, come male necessario per far denaro.

Il Capitale, Terzo Libro

Un problema senza soluzione

Come ossigenare un consumo in evidente stato di sofferenza per una realizzazione del plusvalore in quantità sufficiente ad appagare gli investimenti in capitale costante (macchine, impianti, ricerche scientifiche e tecnologie avanzate) ed a incrementare una intensificazione del processo di accumulazione e riproduzione capitalistico? Se questo processo si ferma, il capitalismo morirebbe. Di conseguenza dovrebbe costantemente crescere il “reddito” dei cosiddetti cittadini (quello degli operai, come salario, si trova da tempo in… depressione) per “vivacizzare” quei mercati che si ingolfano di merci. Ed ecco che, forzando il processo di riproduzione e cercando di vendere a credito persino a masse di consumatori al momento non solvibili, non solo si è verificata una momentanea sovrapproduzione di merci, ma anche una «iperattività della sovraspeculazione nel commercio» (Marx, Il Capitale, libro terzo, cap. 36). E si ritorna alla questione cruciale:

Tutte le nazioni a produzione capitalistica vengono colte perciò periodicamente da una vertigine, nella quale vogliono fare denaro senza la mediazione del processo di produzione.

Marx, Il Capitale, Libro II

Processo che non sarà mai, per il capitale, quello di creare prodotti per soddisfare i bisogni dell’umanità, bensì per ottenere dall’uso della forza-lavoro degli operai salariati quanto più possibile plusprodotto, plusvalore. In queste “necessità” obbligate per la vita del capitalismo, rientrano i cambiamenti che si sono nel frattempo avuti nella divisione internazionale del lavoro, a seguito di una competizione che si è fatta a dir poco feroce in ogni settore, sia in quelli più tradizionali che in quelli a più elevato contenuto tecnologico.

Una produzione oltre i limiti del consumo (della domanda pagante) porta a una esasperazione delle contraddizioni immanenti nel sistema. La saturazione dei mercati (potere d’acquisto dei salariati in calo, con forti aumenti di produttività e quindi esuberi di manodopera nei settori industriali) aumenta la massa di capitale-merce, invendibile, e di capitale fisso, inattivo.

Il credito al consumo

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Sul credito si fondano le illusioni di un costante sviluppo; ma se esso si contrae e si fanno avanti le richieste, non più contenute, di pagamenti in contanti, comincia quella crisi che sembra appunto essere - per gli esperti della borghesia - solo di natura creditizia e monetaria. Ed oggi al pari del passato, come Marx ben scriveva, emergono

transazioni truffaldine, che ora sono scoppiate e vengono alla luce del sole; esse rappresentano speculazioni andate male e fatte con il denaro altrui.

Si manifesta a quel punto una spirale deflattiva: il ciclo di trasformazione della merce in denaro si interrompe, proprio per la mancanza di denaro il quale si trasforma così, da mezzo di circolazione del capitale, «in merce assoluta, in forma autonoma del valore».

Ancora Marx:

In periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valore.

Si verificano fenomeni di tesaurizzazione e il denaro non viene investito nella produzione materiale se essa non assicura la necessaria redditività. Quella redditività che la caduta tendenziale del saggio medio di profitto non gli garantisce. Con la diminuzione della produzione, anche il lavoro vivo viene ridotto

allo scopo di ristabilire la giusta proporzione tra lavoro necessario e pluslavoro, su cui in ultima istanza tutto si fonda.

Grundrisse

Il lavoro necessario è per il capitale quello retribuito con il salario, per mantenere in vita il proletario, mentre con il pluslavoro il capitalista estorce plusvalore dalla forza-lavoro, profitto per sé e interesse per le banche.

Il tutto avviene però - la parola sempre a Marx - soltanto con la presenza attiva, operante, di un capitale industriale il quale

è l’unico modo di essere del capitale in cui funzione del capitale non sia soltanto l’appropriazione di plusvalore ma contemporaneamente la sua creazione.

Il Capitale, Libro II

Venendo al fenomeno della distruzione di capitale, che si manifesta anch’esso nei periodi di crisi, Marx indica l’aspetto relativo al «valore di scambio del capitale esistente». Specificando che

la caduta di capitale semplicemente fittizio, titoli di Stato, azioni, eccetera, comporta un semplice trasferimento della ricchezza da una mano a un’altra; ma se esso porta alla bancarotta dello Stato e della società per azioni...

in tal caso si avrà una distruzione reale di capitale. Calano, a livello mondiale, Pil, commercio internazionale, tasso di utilizzo degli impianti industriali; crescono disoccupazione e fallimenti. Ed ecco che allora - come oggi è accaduto - si torna a sollecitare l’intervento pubblico per ripianare i passivi di banche e capitalisti privati: una socializzazione delle perdite che si rinnova ad ogni crisi del capitale. Quanto ai “propositi” di una legislazione bancaria che possa impedire altre crisi, così commentava Marx:

Nessuna legislazione può eliminare la crisi. (…) L’intero sistema artificiale di espansione violenta del processo di riproduzione non può ovviamente essere risanato per il fatto che ora una Banca (per esempio la Banca d’Inghilterra) fornisce in carta a tutti gli speculatori il capitale che manca loro e compra tutte le merci al loro vecchio valore nominale.

La crisi è reale

Concludendo, la crisi è rappresentata dal “movimento reale della produzione capitalista, concorrenza e credito” (Marx). Al semplice processo di produzione (immediato) segue quel processo di circolazione e di riproduzione del capitale che costituisce l’unità di due fasi (di due momenti) le quali - quando si fanno violentemente indipendenti e altrettanto violentemente ristabiliscono la loro unità - entrano in crisi.

Come detto sopra, lo sviluppo del denaro come mezzo di pagamento è collegato con lo sviluppo del credito che appare «come la leva principale della sovrapproduzione e della sovraspeculazione nel commercio». Si accelera lo sviluppo delle forze produttive e la creazione del mercato mondiale, ma al tempo stesso si sollecitano le crisi, le violente eruzioni delle contraddizioni capitalistiche. Oltre a sviluppare «il più puro e colossale sistema di imbroglio e di gioco d’azzardo». (Manoscritto del III libro del Capitale, cap. 5). I limiti del consumo vengono in un primo momento superati con l’estensione del credito e la massima utilizzazione del capitale industriale, fino a quando con la saturazione dei mercati subentra una

massa di capitale-merce invendibile; massa di capitale fisso in gran parte inattivo a causa del ristagno della riproduzione_. [Il credito allora si contrae...] _le fabbriche rimangono ferme, le materie prime si accumulano, i prodotti finiti saturano il mercato di merci.

E si ha una sovrabbondanza di capitale produttivo. Così, oltre un secolo fa, scriveva Marx.

La sovrapproduzione di merci (gran parte inutili o addirittura dannose) è condizionata dalla legge generale di produzione del capitale: produrre nella misura delle forze produttive (cioè della possibilità di sfruttare ed estorcere profitto, con una data massa di capitale, la maggiore quantità di lavoro possibile: forza-lavoro e non numero degli operai!), senza considerazione alcuna per i limiti - assurdi per quanto riguarda i prodotti necessari ai reali bisogni! - imposti dallo scambio mercantile. Questo, va sempre sottolineato, mentre sono del tutto ignorati i primari bisogni di miliardi di esseri umani lasciati in condizioni d’esistenza quasi bestiali.

La realizzazione della produzione di merci avviene per mezzo di un allargamento della riproduzione e dell’accumulazione, quindi una continua ritrasformazione di plusvalore in capitale. E Marx insiste nel sottolineare come il volume della massa di merci prodotte non venga affatto determinato da un predestinato circolo di domanda e offerta, di bisogni da soddisfare, ma unicamente in prospettiva della realizzazione di un profitto.

L’immediato compratore della produzione di massa è il grande commerciante. Dal punto di vista del produttore capitalista ciò che conta è che il prodotto venga venduto e che non si interrompa il ciclo del valore capitale. Finché il processo si allarga (sia nel consumo produttivo dei mezzi di produzione e sia nel consumo individuale delle merci), può crescere la produzione di plusvalore. Ma se solo in apparenza una parte delle merci entra nel consumo mentre in realtà rimane invenduta nei magazzini dei rivenditori, allora il flusso di merci comincia a intasarsi e viene meno la trasformazione della merce in denaro. Scoppia la crisi che si rende visibile nella diminuzione dello scambio di capitale con capitale e nella interruzione del processo di riproduzione del capitale. (Vedi: Marx, Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; Il Capitale, libro secondo, cap. 2)

Il denaro, che funziona come misura dei valori finché i pagamenti si bilanciano, quando si compiono pagamenti reali non si presenta più come mezzo di circolazione, forma mediatrice, bensì come esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta. Siamo qui di fronte ad una contraddizione che si manifesta quale fase particolare di ogni crisi generale di produzione e di commercio, quando cioè

si sono pienamente sviluppati il processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. (…) Da figura solo ideale della moneta di conto, eccolo denaro-contante.

La forma di valore della merce prende il sopravvento sul valore d’uso della merce: soltanto il denaro è merce! Qualunque sia la sua forma fenomenica, oro o banconote (Il Capitale, libro primo, cap. 3).

I capitalisti monetari, che vivono sull’interesse monetario, si arricchiscono a spese dei capitalisti industriali (e sempre, in definitiva, del proletariato!). E si hanno forti cadute di capitale fittizio, titoli di Stato, azioni, ecc., con possibilità di bancarotta.

Concludiamo trascrivendo un altro celebre passo dai Grundrisse, là dove Marx evidenzia come il rapporto del capitale diventi, ad un certo punto, un ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro.

Le condizioni materiali e spirituali della negazione del lavoro salariato e del capitale (…) sono esse stesse i risultati del processo di produzione del capitale. Nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostante esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale.

Si tenga sempre d’occhio la data degli scritti di Marx: 1857-59! Questo quando ancora oggi, un secolo e mezzo dopo, gli “stregoni” dell’economia borghese brancolano tra i loro polverosi e scheggiati alambicchi…

Davide Casartelli

(1) Quelli praticati dalla FED americana, al 3,5% nel gennaio 2008, precipitarono allo 0,25% nel gennaio 2009 rimanendo poi bloccati a quel livello.

(2) Aumentare la produttività per ora di lavoro (salariato) è un imperativo che domina pensiero e prassi del capitalismo: ridurre i costi e battere la concorrenza sui mercati internazionali è questione di vita o morte per ciascuna potenza economica che voglia mantenersi a galla. L’impiego di lavoro vivo (da cui si estrae plusvalore) si va così progressivamente riducendo mentre di pari passo cresce la quota di quel capitale costante (materie prime, impianti tecnologici) che di per sé non aggiunge alcun nuovo valore alle merci ma si limita a trasferire parte del proprio. Una palese, e insanabile, contraddizione con la necessità del capitale, che sarebbe invece quella di aumentare la massa di lavoratori per poter estrarre dall’uso della loro forza-lavoro una quantità sempre maggiore di plusvalore, vitale energia per la continuità del capitalismo. L’eccesso di capacità produttiva, col relativo intasamento dei mercati, è dovuto al fatto che le capacità di consumo delle grandi masse proletarie si restringono sempre più. I limiti dei loro consumi si abbassano proprio mentre il capitale insegue disperatamente la propria valorizzazione. La proprietà privata dei mezzi di produzione (sia essa individuale o statale nulla cambia poiché si tratta di “proprietà” del capitale, cioè della causa del tutto) e la divisione del lavoro (salariato) che lo stesso capitale impone per l’estorsione di plusvalore dalla forza-lavoro, impediscono la liberazione e l’affermazione delle enormi potenzialità sociali di rilievo universale. Il contrasto tra forze produttive e rapporti di produzione sta così raggiungendo il punto cruciale, quello che reclama la necessità della rivoluzione comunista come sola condizione per liberare l’umanità da una catena che la sta soffocando con gli anelli del denaro, del profitto, del mercato.

(3) Gli aumenti del capitale produttivo di interesse, attraverso rendite finanziarie e immobiliari, è stato anche in Italia impressionante. All’incirca, nel periodo 2000-2009, i dati confermano una crescita degli investimenti industriali in macchinari pari a poco più del 13% a fronte di un aumento in investimenti delle imprese per immobili pari a più del 100%. I primi investimenti risultano addirittura in forte diminuzione se confrontati con una inflazione che nel medesimo periodo è stata di +21,5%.

(4) Il debito lordo Usa, che nel 2010 era al 91% del Pil, dovrebbe arrivare al 99,5% nel 2011, al 102,9% nel 2012 e al 111,9% nel 2016 (stime del FMI). Al momento, comunque, siamo a un debito di ben quasi 15mila miliardi di dollari (15 trilioni). Sommando anche i debiti degli Stati Federali e quelli privati di famiglie, banche e imprese, si arriva a una cifra pari a quasi il 400% del Pil, circa 60mila miliardi di dollari cioè l’intero Pil mondiale! Washington può quindi “vantare” - fra le più avanzate economie mondiali - il maggior debito pubblico rapportato al Pil; addirittura come quello della Irlanda fallita. Segue l’Europa con un debito lordo che si aggira attorno all’85-88% di tutto il suo Pil. Chi alla fine pagherà questi colossali debiti? Le dominanti oligarchie finanziarie (su questo non vi sono dubbi) presenteranno il conto al proletariato, come in parte sta già accadendo. L’altra e unica soluzione sarebbe quella su cui da sempre puntiamo: una definitiva sepoltura del capitalismo. Ci confortano, verso questo obiettivo, i profondi scavi che la ormai famosa talpa sta portando avanti. Va anche detto che con quei conti ormai fuori ogni possibile controllo, altro non si poteva fare (visto che il rischio era, ed è tutt’ora, il crollo del sistema finanziario che domina il mondo intero) che iniettare all’ammalato iniezioni (da… cavallo) di liquidità monetaria. Contrariamente a quanto fino ad allora era stato ipocritamente “consigliato” ad altri paesi (minori) in crisi, i tassi di interesse del denaro furono drasticamente tagliati. Con esito inevitabilmente negativo: come ben scriveva Marx nel Capitale, III Libro, sez. V:

tutto questo sistema artificiale di ampliamento violento del processo di riproduzione, non può naturalmente essere risanato perché una banca, ad es. la banca d'Inghilterra, fornisce in carta a tutti gli speculatori il capitale che fa loro difetto.

(5) Sviluppatosi “globalmente” lo scambio delle merci, la moneta della maggior potenza imperialistica, gli Usa, ha assunto la funzione di moneta mondiale come mezzo di pagamento internazionale. Sganciarsi dall’oro era una impellente necessità per consentire al dollaro un movimento generale e condizionante nella circolazione internazionale, dopo che l’oro e l’argento avevano storicamente svolto la funzione di

creare il mercato mondiale anticipando nel loro concetto del denaro l’esistenza del denaro.

Marx, Per la critica dell’economia politica

E oggi, di fronte all’alta marea di una liquidità monetaria incontrollabile, l’oro (quotato a 1524 dollari) e l’argento (46 dollari) sono i beni rifugio preferiti.

(6) È interessante segnalare la quota di titoli americani detenuta dall’Italia: 23,7 miliardi di dollari. Così altri paesi della catena imperialista, che sono funzionali sostenitori del debito pubblico Usa, mentre non perdono occasione per spremere come limoni le tasche dei proletari, imponendo loro tagli e sacrifici di ogni genere. Persino l’Egitto - con le gesta della sua corrotta borghesia agli onori della cronaca, purtroppo sanguinosa soprattutto per il suo giovane proletariato - ha investito a sua volta in titoli del debito americano oltre 26 miliardi di dollari.

(7) Pochi mesi dopo, nell’ottobre 2008, si ebbe il crack di Lehman Brothers e di conseguenza sia la Bce che le maggiori Banche centrali mondiali furono costrette - di fronte alla crisi generale - a pesanti manovre di tagli sul costo del danaro nel tentativo di tamponare una situazione altamente pericolosa. Otto milioni di americani sono rimasti senza lavoro e a nove milioni è stata pignorata l'abitazione. Bernanke, a questo punto, dichiara: “Capisco l’impazienza degli americani…”.

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(8) In Italia, il debito pubblico è attorno ai 1.900 miliardi di euro, con un Pil a circa 1550 miliardi. Sono piuttosto misteriose alcune vere e reali cause, oltre quelle ben note, che scavano a fondo nella voragine dell’italico debito pubblico. Fra cui le condizioni economiche trattate sui tassi di interesse relativi ai prestiti finanziari nazionali e internazionali.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.