You are here
Home ›Le rivolte arabe parlano al proletariato del mondo intero
Introduzione
Spesso, il movimento di rivolta che ha percorso e sta ancora percorrendo il mondo arabo, dal Nord Africa allo Yemen, fino a lambire i confini occidentali dell'Iran, è stato definito “primavera dei popoli”, il che richiama un'altra “primavera”, quella che sbocciò in quasi tutta Europa nel 1848. Naturalmente, il parallelismo storico può dare solo lo spunto, forse, per eventuali approfondimenti analitici, tenendo ben presente, va da sé, le differenze, non unicamente temporali. In ogni caso, è banale dirlo, l'esito dello scontro dipende dai rapporti di forza tra le classi in lotta. Inutile aggiungere che tra i punti di forza del proletariato va considerata, e non secondariamente, la presenza del partito rivoluzionario sufficientemente radicato nella classe e da essa riconosciuto come dirigente politico. Ciò è tanto più vero ora, rispetto a oltre un secolo e mezzo fa, quando solo a Parigi la classe operaia si trovò a combattere non i nemici dei propri nemici (la vecchia società nobiliare), come a Milano o a Berlino: oggi, e da un bel pezzo, non ci sono più residui feudali da spazzare via, rivoluzioni democratico-borghesi da portare a compimento nonostante le esitazioni, o la viltà, della borghesia, ma lo scontro è ovunque diretto, frontale contro il capitalismo e i regimi politici con cui di volta in volta si presenta.
Dunque, proseguendo nel gioco delle analogie, si può trovare che il 1848 fu preparato da una crisi agraria che innescò un forte aumento dei prezzi delle materie prime agricole, a sua volta potenziato dalla speculazione finanziaria. Crisi agraria e crisi industriale si saldarono (1847), così che la fame venne resa ancor più drammatica dalla disoccupazione che si abbatté sulla classe operaia e sui larghi settori delle classi lavoratrici semi-proletarie. Nel vortice dell'instabilità economica furono risucchiati borghesi e piccolo-borghesi, già insofferenti verso un sistema politico dispotico e antistorico. Operai, ceti popolari, gioventù borghese, in gran parte intellettuale, eressero le barricate e combatterono contro il vecchio regime per un nuovo mondo, che, tranne nella capitale francese, significava il mondo borghese. Il proletariato, nel resto d'Europa, aveva versato il sangue per un'altra causa; solo a Parigi, dopo la sbornia interclassista di febbraio, la classe operaia, nel giugno, fu costretta a combattere eroicamente per se stessa. Le belle parole con cui la borghesia riveste il suo pugno di ferro - democrazia, libertà, giustizia... - si mostrarono per quello che erano: puro inganno, allora e per sempre (1).
“Sviluppo” economico e miseria crescente
Dissolviamo sul passato e “zoommiamo” sul presente: ancora una volta, la crisi economica, la disoccupazione e la fame sono all'origine del grande movimento di rivolta del mondo arabo. Stavolta, però - lo si 'è appena detto - non sono i dolori del parto di una nuova formazione sociale che sta per venire al mondo, ma i gravi disturbi di un organismo vecchio e malato, che, come in altre occasioni, cerca di ritrovare la giovinezza perduta in parte eludendo, in parte intensificando le proprie caratteristiche costitutive. Quale sarebbe questa presunta fonte dell'eterna giovinezza del capitale? Quella che impropriamente è stato chiamato “neoliberismo”. Quando, all'inizio degli anni settanta del Novecento, terminò il boom post-bellico, in quanto aveva cominciato a manifestarsi la tara genetica del capitale - la caduta del saggio medio del profitto - gli Stati Uniti, prima, e poi, in rapida successione, la borghesia internazionale, intrapresero con decisione la strada della speculazione finanziaria, della predazione e dell'intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro, riportando in auge, per così dire, metodi di estorsione del plusvalore - mai completamente abbandonati, sia chiaro - di tipo “manchesteriano”. Secondo gli ideologi della borghesia, la combinazione di quei tre elementi avrebbe ricreato le condizioni per un rilancio globale dell'economia, con l'inevitabile seguito di pane, pace, libertà per tutti. Dunque, liberalizzazione dei movimenti di capitale, messi al guinzaglio con leggi apposite dopo il 1929, privatizzazione, ossia predazione, dei cosiddetti beni comuni (altra espressione impropria), ossia ciò che è o era gestito dalle amministrazioni variamente statali (acqua, beni demaniali, salario indiretto e differito, ecc.). Infine, ma non da ultimo, smantellamento di interi settori industriali e loro ricollocazione nei “paesi emergenti”, dove la forza-lavoro - non esclusa quella ad altissima qualificazione - costava e costa molto meno. Com'è noto, la scomparsa o il forte ridimensionamento delle grandi concentrazioni operaie (in “Occidente”) ha enormemente indebolito tutto il mondo del lavoro salariato e dipendente, una debolezza di cui la precarietà, assieme alla caduta progressiva dei salari, è l'emblema.
Se trenta e passa anni di “neoliberismo” hanno prodotto solo macerie sociali per il proletariato e parte della piccola borghesia, nei suddetti “paesi emergenti” sono stati all'origine di uno sviluppo economico dalle basi fragili, ovviamente connesso all'economia mondiale (2), e che, in più, non ha prodotto meno devastazione sociale. Infatti, da molti dati in circolazione, risulta che le “performances” economiche del Nord Africa hanno causato un netto peggioramento delle condizioni di esistenza di gran parte della popolazione. A titolo d'esempio,
Negli ultimi anni il tenore di vita della maggioranza degli egiziani si è abbassato, anche se le élites si arricchiscono e gli indicatori economici sono buoni [...] in Egitto e in Tunisia è aumentato il pil ma c'è stato un netto calo degli standard di vita in tutte le fasce di reddito, escluso il 20 per cento più ricco. All'inizio del 2008, inoltre, il 40 per cento degli egiziani viveva con meno di due dollari al giorno (3).
In Egitto, Tunisia, Algeria e via dicendo, la “crescita” economica ha avuto come sfondo le privatizzazioni di gran parte dell'economia statalizzata - a capitalismo di stato - dell'epoca post-coloniale, regimi fiscali di tipo off-shore, cioè estremamente favorevoli alle società straniere (per esempio, esenzioni delle imposte sulle imprese per dieci anni, ecc.), mentre sono state istituite zone economiche speciali come le QIZ egiziane (zone industriali qualificate), che godono di particolari privilegi doganali con gli Stati Uniti, purché le merci in partenza contengano almeno il 12% di valore prodotto in Israele (4).
Le privatizzazioni, in Egitto, sono cominciate con Sadat, e dopo la sua dipartita, a opera del fondamentalismo islamico, sono andate avanti con maggiore intensità sotto Mubarak, il quale non s'è fatto mancare nemmeno i famigerati piani di aggiustamento strutturale del FMI, fatti, come sempre, di tagli ai salari, a quel po' di stato sociale esistente, di liberalizzazione dei prezzi agricoli - in particolare, dei canoni d'affitto della terra, che in pochi anni sono triplicati - il che ha ridotto in miseria milioni di piccoli contadini, ai quali non è rimasto altro che ingrossare le bidonvilles del Cairo o di Alessandria. Nel 2005, su 314 imprese un volta “pubbliche”, 209 erano state cedute ai privati, con il conseguente licenziamento di gran parte della forza-lavoro; infatti, tra il 1994 e il 2001 gli occupati si erano dimezzati (5) e quelli rimasti hanno dovuto subire un netto peggioramento delle condizioni di lavoro. Giusto per avere un'idea di cosa significhi, per i lavoratori, la privatizzazione, basterebbe vedere come sono andate le cose all'Alitalia... La crescita dei senza lavoro è stata in parte frenata dagli investimenti esteri che sono piovuti sull'Egitto (russi e cinesi compresi), attratti dalle condizioni favorevoli, ma l'entità dei capitali in entrata e, con un apparente paradosso, il grado di estorsione del plusvalore non bastano ad assorbire la forte crescita demografica e la disoccupazione, che, per il 90%, riguarda i giovani, i quali, a loro volta, costituiscono i due terzi della popolazione (come in tutta l'area).
Dunque, le stesse ragioni che in “Occidente” hanno innescato un degrado costante delle condizioni di esistenza del proletariato e di strati piccolo-borghesi, in Nord Africa hanno dato vita a un “boom senza benessere” (Il Sole 24 ore, 27 gennaio 2001): i soggetti sociali che beneficiano, per così dire, tanto del declino quanto del boom economici sono esattamente gli stessi, solo che nella sponda meridionale del Mediterraneo mancano o agiscono con minor forza gli ammortizzatori sociali tipici dei paesi “avanzati”; non ultima, la famiglia. Bassi salari, stretto controllo sulla forza-lavoro, cui è vietata ogni espressione autonoma, stroncata anzi sul nascere dall'azione congiunta di polizia e sindacato, e tanta precarietà: il piatto è servito. In Tunisia, per limitarci a un paese, sono centinaia le aziende italiane - in primis dell'abbigliamento - che da vent'anni vi hanno delocalizzato la produzione. Ma anche le aziende di servizi vi si sono saldamente installate. La compagnia telefonica francese Téléperformance ha in questo paese cinque call center che lavorano all'ottanta per cento per il mercato francese (6). I dipendenti, bilingui, sono per lo più giovani, con un'elevata scolarizzazione, tanto che tra di loro ci sono laureati in filosofia, medicina, ingegneria, che, pur considerando la loro attuale occupazione una parentesi provvisoria, da anni sono inchiodati al ricevitore, perché di alternative non se ne vedono. D'altra parte, per gli operatori del call center, 1,5-2 euro all'ora rappresentano uno stipendio da “privilegiati”, rispetto alla media tunisina. Ma con queste paghe orarie, chi stappa davvero lo champagne - è il caso di dirlo - è l'azienda che, grazie al ricatto della disoccupazione e alla complicità sindacale impone un clima di pace sociale da far schiattare d'invidia Sacconi: mentre il paese era già in fiamme, a Ben Arus (zona industriale di Tunisi e sede del call center), il sindacato aveva proclamato uno sciopero... durante il quale i lavoratori, in segno di adesione alla lotta-farsa, avevano continuato a lavorare con una fascia la braccio. Se poi non dovesse bastare il sonnifero sindacale o la pressione dei disoccupati, c'è sempre la minaccia della delocalizzazione verso il Marocco o, meglio ancora, il Senegal.
Nella bufera della crisi
Ma anche i paradisi del capitale sono stati investiti dall'onda d'urto propagatasi dallo scoppio della bolla dei muti tossici, a sua volta espressione di difficoltà strutturali dell'accumulazione su scala mondiale.
Più indietro, s'è detto che il “neoliberismo” ha sconvolto l'agricoltura dei paesi percorsi dal vento di rivolta, orientando il settore primario verso le colture d'esportazione, con il solito ricorso a manodopera mal pagata, spesso minorile, esposta all'avvelenamento degli antiparassitari, usati in maniera abnorme. Il risultato è che paesi come l'Egitto, la Tunisia, l'Algeria sono diventati importatori netti di derrate alimentari, da esportatori quali erano. L'Egitto, con 8,8 milioni di tonnellate annue, è il primo importatore mondiale di grano, l'Algeria il quinto (5 mln), la Tunisia il settimo (3,5 mln) (7). Agli esborsi in valuta per le importazioni, si devono aggiungere i sussidi stanziati dai governi, in particolare dopo le periodiche sommosse popolari, per imporre un prezzo politico prezzo del pane, senza il quale una buona parte della popolazione non potrebbe campare (è il mercato nero della farina a prosperare). In Egitto, dove la metà del grano consumato è importato, la spesa per l'alimentazione incide per il 48,1% dei consumi, contro il 17,5 dell'Italia (8). Si capisce allora come un forte aumento dei prezzi agricoli - in particolare del grano - sui mercati internazionali significhi per milioni di persone la fame. Dopo la fiammata del 2008, i prezzi dei cereali hanno ricominciato a salire (fino del 62% tra gennaio 2010 e gennaio 2011, per il grano), sia per i drammatici andamenti climatici in alcune parti del mondo (Russia, Australia), sia soprattutto per la speculazione finanziaria, sempre in cerca di prede da azzannare. Se il quaranta per cento della popolazione egiziana vive sotto la soglia della povertà, è facile intuire come non ci siano sussidi che tengano, quando i prezzi dei cerali salgono in maniera tanto rapida: c'è solo la fame.
Poi, c'è la crisi industriale, anche se, è inutile ripeterlo, crisi industriale e speculazione sulle derrate alimentari sono due facce della stessa medaglia. Prima, s'è fatto cenno al processo di delocalizzazione che dall'Europa e dall'«Occidente» ha trasferito numerose attività manifatturiere in Nord Africa-Medio Oriente, le cui economie si sono trovate così strettamente dipendenti dalle esportazioni, visto che i salari interni non possono costituire un mercato di sbocco apprezzabile, né a questo ruolo devono assolvere. Ora,
I dati della Banca mondiale rivelano che il tasso di crescita annuale delle esportazioni di merci dall'Egitto verso l'Unione europea è caduto dal 33% nel 2008 a meno del 15% nel luglio 2009. Parallelamente, la Tunisia e il Marocco hanno visto il valore totale delle loro esportazioni nel mondo calare del 22% nel 2008 e del 31% nel 2009. Ciò ha indotto la Banca mondiale a sottolineare come qui paesi vivano le loro peggiori recessioni da 60 anni a questa parte. (9).
Caduta delle esportazioni, caduta dell'occupazione, a cui si aggiunge la contrazione marcata delle rimesse degli emigranti residenti in Europa o in alcune paesi della stessa zona geografica: nel caso dell'Egitto - dove le rimesse costituiscono o costituivano il 5% del PIL - il fenomeno è stato aggravato dalla guerra in Libia, visto che questo paese era uno dei principali poli di attrazione dell'emigrazione egiziana. Ma tutta l'area, dall'Atlantico al Golfo Persico è colpita duramente dal fenomeno:
per una regione in cui i soldi inviati_ [dagli emigrati, ndr] _rappresentano il meccanismo di sopravvivenza di milioni di persone, questo calo [delle rimesse] ha avuto conseguenze devastanti (10).
La corsa ai salari bassi, più bassi, avviatasi oltre trent'anni fa per contrastare gli effetti della crisi mondiale e rilanciare l'accumulazione, finora non pare aver dato risultati positivi in questo senso, ma, via via, ha aggravato i problemi. Com'è normale che sia, i capitalisti hanno puntato sull'esportazione, comprimendo i costi, a cominciare, appunto, dagli stipendi. Dall'Egitto alla Germania, dagli USA alla Cina, la quota del salario sul reddito nazionale si è progressivamente rimpicciolita - come abbiamo osservato più volte - anche se, ovviamente, una diminuzione del 10% - mettiamo - dello stipendio di un tranviere tedesco non ha le stesse conseguenze, per quanto riguarda il tenore di vita e la rabbia sociale, di un'analoga contrazione subita da un tranviere del Cairo, che non arriva ai cento euro mensili, coi quali riesce a malapena a sopravvivere (11). Senza scadere nel meccanicismo, forse non è caso se, per esempio, in Germania, dove la borghesia - appoggiata dal sindacato - da vent'anni circa alimenta la “locomotiva” economica con una politica di “moderazione salariale”, di precarizzazione spinta della forza-lavoro, non è successo molto, dal punto di vista della lotta di classe proletaria, mentre nel Maghreb e in Medio Oriente continuano a bruciare la fiamme della protesta di massa.
Marchionne sul Nilo
C'è chi ha sostenuto che le masse diseredate, impegnate a combattere con la fame quotidiana, abbiano avuto un ruolo marginale nelle sollevazioni popolari, soprattutto in Egitto, e che il reale protagonista del terremoto politico siano i giovani della classe media, acculturati, abituati a padroneggiare i “social network” (12), vero organizzatore collettivo delle proteste di piazze, dirette a conseguire più obiettivi democratici che non sociali. Si tratta di una mezza verità, che, al solito, confonde il quadro.
È indubbio che la rivolta abbia una connotazione interclassista, ma le determinazioni materiali che l'hanno accesa affondano le loro radici nella crisi e nell'immiserimento che ha colpito prima di tutto il proletariato e le masse diseredate: la fame, la disoccupazione, la precarietà, le hanno messe in stato di agitazione, forte. In breve, sono venuti al pettine i nodi congiunti del “boom senza prosperità” e della crisi che ha aggravato la condizione anche di settori non indifferenti di piccola borghesia. S'è già visto come i call center tunisini siano pieni di laureati (particolarità non solo tunisina, per altro) e il gesto tragico di Mohamed Bouazizi, il giovane che il 17 dicembre si diede fuoco di fronte a edifici pubblici per protestare contro il regime, espresse la mancanza di prospettive di un'esistenza imprigionata nel vuoto sociale. Ma già prima di quell'atto tremendo, serpeggiavano manifestazioni in cui venivano brandite le baguette di pane. Com'è noto, la rabbia è montata, ha incoraggiato persino ambienti borghesi decisi a farla finita con un regime dispotico, così somigliante al fu “socialismo reale”, benché in stretti rapporti di amicizia con la super democratica Europa. E non a caso, perché, oltre a garantire manodopera a buon mercato e pace sociale, faceva il cane da guardia, come l'altro ex amicone Gheddafi, ai disperati che tentano di approdare sul continente europeo fuggendo miseria, disperazione e morte.
Lo stesso copione, ma potenziato, se così si può dire, è stato recitato in Egitto.
Durante i giorni incandescenti della rivolta, l'attenzione dei mass media internazionali era puntata in particolare su piazza Tahrir del Cairo, sui bloggers, sui giovani borghesi, non solo i forzati della precarietà, ma anche gli agiati e persino ricchi esponenti della classe dominante (come il responsabile egiziano di Google, per altro incarcerato col rischio di scomparire per sempre) stanchi di un vecchio malvissuto come Mubarak, che soffocava brutalmente la libertà di espressione e, col suo controllo delle leve burocratico-economiche, tarpava le ali a una parte dell'imprenditoria egiziana vecchia e nuova. Accanto - idealmente - ai ragazzi di piazza Tahrir, sono così spuntati Montezemoli d'Egitto, tra cui il più ricco uomo d'affari del paese (escluso Mubarak, forse) decisi a voltare pagina politica (13). Tutto vero, ma forse non è un caso che i militari - i quali gestiscono pezzi importanti dell'economia - abbiano preso in mano la situazione quando gli scioperi hanno cominciato ad estendersi, immettendo nel movimento d'opinione di piazza Tahrir la componente classista specifica. Sia chiaro, si tratta semplicemente di un'ipotesi, perché è fuori discussione che senza l'assenso degli USA (che dal 1982 hanno versato fiumi di denaro al regime, a cominciare dall'esercito), mai si sarebbe arrivati alla defenestrazione del “Faraone”. Allo stesso modo, tra coloro che hanno seguito direttamente in loco gli eventi del Cairo, non c'è concordanza di giudizio sui rapporti tra i giovani della piazza e il movimento operaio inteso in senso stretto, anche se forse i più propendono per una sostanziale separazione tra i due “ambienti”, tra le rivendicazioni “economiche” degli operai e quelle democratico-politiche della piazza. Può essere benissimo, ovviamente, tuttavia è doveroso sottolineare che gli eventi del gennaio scorso sono stati preparati da anni di scioperi operai e una delle organizzazioni principali che hanno messo in moto piazza Tahrir e diretto la rivolta fino all'arrivo dell'esercito è il “Movimento 6 aprile 2008”, che si rifà proprio a una manifestazione avvenuta nel giorno omonimo nel centro industriale di Mahalla el Kubra, delta del Nilo. Là sorge la Misr Spinning and Weaving Company (Fabbrica egiziana di filatura e tessitura), che coi suoi 24000 operai è la più grande fabbrica statalizzata egiziana (1960) e, inoltre, è sempre stata il punto di riferimento delle lotte operaie, un po' come la Mirafiori degli anni '60-'70. Nel 2004, poi nel 2006, scoppiarono scioperi combattivi, ancora più importanti perché scavalcarono, ovviamente, il sindacato ufficiale, l'unico per altro consentito nonché puro e semplice ingranaggio del comando padronale, e diedero vita a comitati di lotta autonomi.
Di nuovo, il 6 aprile 2008, venne eletto un comitato che dirigesse lo sciopero generale proclamato per quel giorno, nel quale confluivano le istanze democratico-riformiste dei giovani borghesi oppositori del regime. Lo sciopero non partì, per dissidi interni al comitato, ma una parte dello stesso e quei giovani animarono una dura manifestazione contro Mubarak. Ebbene, in gennaio hanno scioperato gli operai di Mahalla, ma anche di Suez, di Porto Said, Ismailia, del Cairo, e questo ha sicuramente impensierito le “2000 famiglie”, sebbene, pare, dagli scioperi non siano uscite parole d'ordine che andassero al di là di rivendicazioni di tipo strettamente economico-democratico, dunque più facilmente riassorbibili nella logica del sistema. Le “2000 famiglie” costituiscono l'élite della borghesia egiziana, che, fino a quel momento, aveva assunto, secondo alcuni, un atteggiamento di prudente attesa.
Anche la borghesia italiana - per inciso - ha seguito con ansia l'evolversi della situazione, timorosa che possano essere messe in discussione le liberalizzazioni, cioè i suoi vasti interessi tra le piramidi, e si allenti la disciplina di fabbrica - basta scorrere gli articoli del Sole 24 ore del periodo (14) - tanto da non vedere (o far finta di) che gli interventi messi in atto sia da un Mubarak ormai agli sgoccioli che dalla giunta militare (aumenti di stipendio per certe categorie di statali, nuove sovvenzioni al prezzo del pane) non erano altro che estintori puntati contro la collera popolare. Lo stesso vale per la Tunisia. Il suddetto giornale riporta l'intervento di un cementiere italiano, preoccupato dal clima di “anarchia”, cioè dal fatto che gli operai siano più “pretenziosi” e che il sindacato si mostri meno servile del solito, con la conseguenza che ha dovuto concedere un aumento e stabilizzare qualche operaio precario: di questo passo, dove andremo a finire?! Purtroppo per il proletariato, stia tranquillo, ché, al momento, pare che nella scena politica non siano comparse formazioni di classe volte a mettere seriamente in discussione il dominio della borghesia. Tanto in Tunisia quanto in Egitto.
Tra gli operai egiziani, in piazza Tahir hanno agito forze di sinistra, dai sopravvissuti del vecchio PC egiziano alla variegata galassia trotskista, a coloro che vogliono dar vita a un partito laburista come il PT brasiliano (15), ma, è superfluo aggiungerlo, le rivendicazioni rimangono circoscritte dentro un orizzonte democratico-riformista, al massimo radical-riformista (16). Nessuna di esse fa dell'abolizione (giustissima!) dell'apparato repressivo poliziesco un trampolino per rilanciare la prospettiva anticapitalistica. La stessa confederazione dei sindacati indipendenti, sorta dopo la caduta di Mubarak, non fa eccezione: sebbene raccolga, verosimilmente, i lavoratori più combattivi, le sue rivendicazioni sono abbastanza timide - ricordano la FIOM - quali la stabilizzazione dei precari dopo tre anni di contratti a tempo determinato o l'introduzione di una legge contro i licenziamenti arbitrari (l'articolo 18, insomma); il tutto è condito da un senso di orgoglio nazionale che fa a pugni con l'internazionalismo proletario.
Le cose non vanno meglio in Tunisia, sebbene paia che l'UGTT - il sindacato ufficiale di sempre - o, meglio, le sue articolazioni di base, abbiano dato un contributo importante alla cacciata di Ben Alì. Quadri intermedi e medio-bassi avrebbero cooperato ad organizzare la rivolta, mettendo a disposizione sedi e capacità operative dei funzionari sindacali stessi. Fonti sinistrose-trotskisteggianti (17) attribuiscono questa apparente schizofrenia del sindacato - allo stesso tempo, colonna portante del vecchio regime e organizzatore delle proteste contro il regime medesimo - all'entrismo praticato, a prezzo di grandi sacrifici, da trotskysti e maoisti per sfuggire alla repressione statale e, aggiungiamo noi, per pedissequa osservanza delle vecchie direttive sindacali terzinternazionaliste. Se così fosse, una volta di più si confermerebbe il carattere disastroso dell'entrismo, il cui unico risultato è quello di offrire un'indebita copertura a sinistra al sindacato, dentro il cui recinto vengono ricondotti addomesticati i lavoratori più combattivi. I funzionari dell'UGTT, in sostanza, hanno portato la piazza - in gran parte proletaria e semi-proletaria - fino alla soglia dell'insurrezione, fino alla cacciata del tiranno e poi basta. In Italia, per restare da queste parti, sono innumerevoli gli esempi di “rivoluzionari” che pretendono di condizionare, se non addirittura conquistare la CGIL a un indirizzo politico classista, subordinando, nei fatti il loro voler essere comunisti alla pratica antioperaia del sindacalismo. La giustificazione è sempre la stessa: non è l'ora della rivoluzione, questa, ma della difesa dei “diritti” dei lavoratori, come se - la Luxemburg insegna - si potesse perseguire una strategia rivoluzionaria diventando ingranaggi del sistema di comando capitalistico (il sindacato), come se fini (il comunismo) e mezzi (difesa dei “diritti”: le condizioni di lavoro, ecc.) viaggiassero su binari divergenti o comunque indipendenti. Il grande dispendio di energie e i sacrifici personali degli entristi non hanno fatto cambiare natura all'UGTT, che, adattandosi ai tempi nuovi, ha mantenuto costante il suo impegno a sostegno dell'economia nazionale e il ruolo di mediatore, dentro la cornice capitalista, tra forza lavoro-borghesia-stato. In un'intervista pubblicata sul Manifesto del 9 marzo, il portavoce dell'UGTT diceva:
... l'esecutivo dell'UGTT ha fatto un appello in cui invita i lavoratori tunisini a tornare al lavoro per stabilizzare il paese [...] Inoltre vogliamo incoraggiare gli investitori a venire in Tunisia, perché oggi gli investimenti stranieri sono essenziali [...] Forse chiederemo anche ai lavoratori di aiutarci con uno, due o tre giorni di lavoro [gratuito, intuiamo, ndr] per salvare il paese [...] Occorre un dialogo con i partner sociali, con il governo e con il padronato...
Non tanto stranamente, sono le stesse preoccupazioni della borghesia egiziana, compresa quella “illuminata” e “riformatrice”, inquieta per il forte rallentamento dell'economia, per l'aumento del deficit statale, per la possibile fuga degli investitori stranieri di fronte a una temuta ingovernabilità delle fabbriche. Se in Tunisia il sindacato si è fatto carico di organizzare la contrattazione e, in generale, di gestire la forza-lavoro per il bene nazionale, in Egitto, essendo il vecchio sindacato ampiamente screditato, mentre quelli nuovi non sono affidabili, la borghesia ha trovato nei generali - nessuno ne dubitava - il suo Marchionne. Il 24 marzo, la giunta militare ha promulgato un decreto legge con il quale vieta le manifestazioni, i sit-in, gli scioperi, compresi coloro che li appoggiano senza parteciparvi, sanzionandoli con pene che vanno dall'arresto (fino a un anno) alle multe (fino a 500.000 lire egiziane, cioè circa 55.000 euro), perché intralciano l'economia.
Allora, ancora una volta, cambiare tutto perché nulla cambi? Dal punto di vista della struttura di classe della società, sì, e solo il radical-riformismo (trotskysti in primis) può ostinarsi a chiamare rivoluzione quella che - almeno finora - è certamente un terremoto politico, ma che lascia intatti i rapporti economici e sociali di base.
Quali possono essere, allora, i possibili sviluppi? Ci vorrebbe una sfera di cristallo per dare una risposta meno che azzardata. Certo è che le forze conservatrici sono tante e agguerrite, a cominciare dal fondamentalismo islamico, che, seppure annacquato, come si sostiene, per natura è reazionario e ferocemente anticomunista. I Fratelli musulmani in Egitto e i loro corrispettivi in Tunisia, sebbene non siano stati i promotori delle rivolte, vi sono poi entrati con tutto il peso delle loro organizzazioni e dei loro cospicui capitali. In Egitto gestiscono redditizie attività economiche - sono parte della borghesia a tutti gli effetti - e, in più, possono contare sui generosi finanziamenti delle borghesie petrolifere, coi quali amministrare un “welfare parrocchiale” efficace, agli occhi di milioni di diseredati. Dunque, benché la religione non sia stata la componente dominante della “primavera araba”, è indubbio che il fondamentalismo islamico possa giocare un ruolo di primo piano nelle future elezioni: i giovani “laici” di piazza Tahrir o di Tunisi, gli operai di Mahalla el Kubra o gli operatori del call center tunisini non sono tutto l'Egitto o tutta la Tunisia. Ma, soprattutto, manca il punto di riferimento di classe, il partito rivoluzionario che sappia dirigere politicamente l'enorme potenziale del proletariato dell'area contro il capitale, le sue crisi, le sue borghesie, laiche o bigotte che siano. Questo è il dramma e il compito da risolvere.
Celso Beltrami, aprile 2011(1) Karl Marx, Le lotte di classe in Francia, Einaudi, 1975.
(2) Ci scusiamo per la banalità, ma per alcuni “rivoluzionari” è solo una fantasia, in quanto sono convinti che l'economia-mondo possa funzionare per compartimenti stagni.
(3) Anna Ciezadlo, Le guerre del pane, Internazionale, n. 891/1 aprile 2011
(4) Adam Hanieh, C'est bien plus Moubarak qu'il faut chasser! [Ben altro che Mubarak, bisogna cacciare!] in alencontre.org
(5) Adam Hanieh, cit.
(6) Mathieu Magnaudeix, Le souffle de la révolution dans les centres d'appel [Il soffio della rivoluzione nei call center] in alencontre.org
(7) Il Sole 24 ore, 24 febbraio 2011.
(8) Domenico Moro, La crisi e le rivolte in Nord Africa, in economiaepolitica.it
(9) Adam Hanieh, cit.
(10) Adam Hanieh, cit.
(11) Michele Giorgio, il manifesto, 11 febbraio 2011.
(12) Sul ruolo molto importante e, per tanti versi, inedito dei “social network”, vedi il nostro articolo presente sul sito: leftcom.org
(13) Paul Amar, Dietro le quinte della rivolta d'Egitto, in Limes, n. 1/2011, pag. 150.
(14) Vedi, per esempio, l'edizione del 16 marzo 2011.
(15) È utile ricordare che la legge proibisce la costituzione di partiti che si richiamino esplicitamente a principi classisti, anche in versione riformista; inoltre, sono richieste almeno 5000 firme certificate.
(16) Sul sito alencontre.org ci sono diverse dichiarazioni in tal senso di partiti, sindacati, comitati vari.
(17) Yassin Temlali, Le role de l'UGTT dans «l'intifada tunisienne» [Il ruolo dell'UGTT ne «l'intifada tunisina»], in labreche.ch
Prometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
Prometeo #05
Allegato | Dimensione |
---|---|
2011-05-15-prometeo.pdf | 2.54 MB |
Inizia da qui...
ICT sections
Fondamenti
- Bourgeois revolution
- Competition and monopoly
- Core and peripheral countries
- Crisis
- Decadence
- Democracy and dictatorship
- Exploitation and accumulation
- Factory and territory groups
- Financialization
- Globalization
- Historical materialism
- Imperialism
- Our Intervention
- Party and class
- Proletarian revolution
- Seigniorage
- Social classes
- Socialism and communism
- State
- State capitalism
- War economics
Fatti
- Activities
- Arms
- Automotive industry
- Books, art and culture
- Commerce
- Communications
- Conflicts
- Contracts and wages
- Corporate trends
- Criminal activities
- Disasters
- Discriminations
- Discussions
- Drugs and dependencies
- Economic policies
- Education and youth
- Elections and polls
- Energy, oil and fuels
- Environment and resources
- Financial market
- Food
- Health and social assistance
- Housing
- Information and media
- International relations
- Law
- Migrations
- Pensions and benefits
- Philosophy and religion
- Repression and control
- Science and technics
- Social unrest
- Terrorist outrages
- Transports
- Unemployment and precarity
- Workers' conditions and struggles
Storia
- 01. Prehistory
- 02. Ancient History
- 03. Middle Ages
- 04. Modern History
- 1800: Industrial Revolution
- 1900s
- 1910s
- 1911-12: Turko-Italian War for Libya
- 1912: Intransigent Revolutionary Fraction of the PSI
- 1912: Republic of China
- 1913: Fordism (assembly line)
- 1914-18: World War I
- 1917: Russian Revolution
- 1918: Abstentionist Communist Fraction of the PSI
- 1918: German Revolution
- 1919-20: Biennio Rosso in Italy
- 1919-43: Third International
- 1919: Hungarian Revolution
- 1930s
- 1931: Japan occupies Manchuria
- 1933-43: New Deal
- 1933-45: Nazism
- 1934: Long March of Chinese communists
- 1934: Miners' uprising in Asturias
- 1934: Workers' uprising in "Red Vienna"
- 1935-36: Italian Army Invades Ethiopia
- 1936-38: Great Purge
- 1936-39: Spanish Civil War
- 1937: International Bureau of Fractions of the Communist Left
- 1938: Fourth International
- 1940s
- 1960s
- 1980s
- 1979-89: Soviet war in Afghanistan
- 1980-88: Iran-Iraq War
- 1982: First Lebanon War
- 1982: Sabra and Chatila
- 1986: Chernobyl disaster
- 1987-93: First Intifada
- 1989: Fall of the Berlin Wall
- 1979-90: Thatcher Government
- 1980: Strikes in Poland
- 1982: Falklands War
- 1983: Foundation of IBRP
- 1984-85: UK Miners' Strike
- 1987: Perestroika
- 1989: Tiananmen Square Protests
- 1990s
- 1991: Breakup of Yugoslavia
- 1991: Dissolution of Soviet Union
- 1991: First Gulf War
- 1992-95: UN intervention in Somalia
- 1994-96: First Chechen War
- 1994: Genocide in Rwanda
- 1999-2000: Second Chechen War
- 1999: Introduction of euro
- 1999: Kosovo War
- 1999: WTO conference in Seattle
- 1995: NATO Bombing in Bosnia
- 2000s
- 2000: Second intifada
- 2001: September 11 attacks
- 2001: Piqueteros Movement in Argentina
- 2001: War in Afghanistan
- 2001: G8 Summit in Genoa
- 2003: Second Gulf War
- 2004: Asian Tsunami
- 2004: Madrid train bombings
- 2005: Banlieue riots in France
- 2005: Hurricane Katrina
- 2005: London bombings
- 2006: Anti-CPE movement in France
- 2006: Comuna de Oaxaca
- 2006: Second Lebanon War
- 2007: Subprime Crisis
- 2008: Onda movement in Italy
- 2008: War in Georgia
- 2008: Riots in Greece
- 2008: Pomigliano Struggle
- 2008: Global Crisis
- 2008: Automotive Crisis
- 2009: Post-election crisis in Iran
- 2009: Israel-Gaza conflict
- 2020s
- 1920s
- 1921-28: New Economic Policy
- 1921: Communist Party of Italy
- 1921: Kronstadt Rebellion
- 1922-45: Fascism
- 1922-52: Stalin is General Secretary of PCUS
- 1925-27: Canton and Shanghai revolt
- 1925: Comitato d'Intesa
- 1926: General strike in Britain
- 1926: Lyons Congress of PCd’I
- 1927: Vienna revolt
- 1928: First five-year plan
- 1928: Left Fraction of the PCd'I
- 1929: Great Depression
- 1950s
- 1970s
- 1969-80: Anni di piombo in Italy
- 1971: End of the Bretton Woods System
- 1971: Microprocessor
- 1973: Pinochet's military junta in Chile
- 1975: Toyotism (just-in-time)
- 1977-81: International Conferences Convoked by PCInt
- 1977: '77 movement
- 1978: Economic Reforms in China
- 1978: Islamic Revolution in Iran
- 1978: South Lebanon conflict
- 2010s
- 2010: Greek debt crisis
- 2011: War in Libya
- 2011: Indignados and Occupy movements
- 2011: Sovereign debt crisis
- 2011: Tsunami and Nuclear Disaster in Japan
- 2011: Uprising in Maghreb
- 2014: Euromaidan
- 2016: Brexit Referendum
- 2017: Catalan Referendum
- 2019: Maquiladoras Struggle
- 2010: Student Protests in UK and Italy
- 2011: War in Syria
- 2013: Black Lives Matter Movement
- 2014: Military Intervention Against ISIS
- 2015: Refugee Crisis
- 2018: Haft Tappeh Struggle
- 2018: Climate Movement
Persone
- Amadeo Bordiga
- Anton Pannekoek
- Antonio Gramsci
- Arrigo Cervetto
- Bruno Fortichiari
- Bruno Maffi
- Celso Beltrami
- Davide Casartelli
- Errico Malatesta
- Fabio Damen
- Fausto Atti
- Franco Migliaccio
- Franz Mehring
- Friedrich Engels
- Giorgio Paolucci
- Guido Torricelli
- Heinz Langerhans
- Helmut Wagner
- Henryk Grossmann
- Karl Korsch
- Karl Liebknecht
- Karl Marx
- Leon Trotsky
- Lorenzo Procopio
- Mario Acquaviva
- Mauro jr. Stefanini
- Michail Bakunin
- Onorato Damen
- Ottorino Perrone (Vercesi)
- Paul Mattick
- Rosa Luxemburg
- Vladimir Lenin
Politica
- Anarchism
- Anti-Americanism
- Anti-Globalization Movement
- Antifascism and United Front
- Antiracism
- Armed Struggle
- Autonomism and Workerism
- Base Unionism
- Bordigism
- Communist Left Inspired
- Cooperativism and autogestion
- DeLeonism
- Environmentalism
- Fascism
- Feminism
- German-Dutch Communist Left
- Gramscism
- ICC and French Communist Left
- Islamism
- Italian Communist Left
- Leninism
- Liberism
- Luxemburgism
- Maoism
- Marxism
- National Liberation Movements
- Nationalism
- No War But The Class War
- PCInt-ICT
- Pacifism
- Parliamentary Center-Right
- Parliamentary Left and Reformism
- Peasant movement
- Revolutionary Unionism
- Russian Communist Left
- Situationism
- Stalinism
- Statism and Keynesism
- Student Movement
- Titoism
- Trotskyism
- Unionism
Regioni
Login utente
This work is licensed under a Creative Commons Attribution 3.0 Unported License.