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No all'imperialismo e alla sua guerra
Da Battaglia comunista n. 2 - febbraio 1965
Gli avvenimenti da tempo in corso nel Vietnam ripropongono il problema, continuamente offuscato e distorto dalla passione di parte e dal sentimentalismo, dell'atteggiamento che il partito rivoluzionario deve assumere di fronte a episodi del genere, in coerenza con i principi e con gli obiettivi che si propone di raggiungere.
Per noi non c'è dubbio di sorta sulla reale natura del conflitto in atto nel Vietnam, dove il problema dell'indipendenza è diventato episodio estraneo e semplice pretesto allo scontro di grandi potenze che si contendono o la supremazia o l'iniziativa strategica in quel settore chiave dello schieramento imperialista.
E tale verità, che rasenta i limiti della più banale evidenza, viene contrabbandata dalla stampa internazionale e dalla propaganda dei partiti interessati a questa politica di potere, per mascherare e imbrogliare i dati della stessa evidenza col preciso scopo di influenzare e corrompere la coscienza delle grandi masse.
Mentre nel Vietnam si susseguono episodi di spietata guerriglia e, da entrambe le parti, colpi di mano in un circolo chiuso di rappresaglie a catena, l'opinione pubblica è sottoposta a una intensa propaganda filo-vietnamita, nella falsariga, cioè, della politica e degli interessi russo-cinesi, da parte di un mal ricucito frontismo attorno al Pci.
Noi, che non abbiamo mai avuto nulla in comune con questa specie di frontismo, guardiamo con una non diminuita ripugnanza questo irregimentarsi di inesauribili e utili idioti dietro l'iniziativa del Pci che così intelligentemente li strumentalizza in un raccogliticcio fronte unico democratico nel tentativo, per ora sempre vano, di trovare un valido aggancio al suo reinserirsi nella maggioranza governativa.
Ciò non vuol dire che il nostro partito si dissoci dalla causa dei popoli sottoposti al colonialismo, vecchia e nuova maniera, e nel caso specifico dalla causa dei lavoratori che si battono nel Vietnam, ma ritiene che il solo modo di solidarizzare concretamente con la loro causa sia innanzitutto quello di dissociarsi da tutte quelle forze politiche che in nome della libertà e del socialismo aprono la strada al neocolonialismo o dei russi o dei cinesi, al cambio, cioè, dei colonizzatori e non alla eliminazione della colonizzazione stessa.
Quanto è già accaduto alla Corea è pagina aperta sulla quale tutti dovrebbero saper leggere se ne avessero voglia e interesse.
Noi non eravamo tra quei compagni che allora formulavano l'auspicio perché le milizie del Nord (leggi Cinesi + coreani del Nord) buttasse a mare le milizie del Sud (leggi americani + coreani del Sud); auspicio che allora ed oggi potrebbe - anzi dovrebbe - trasformarsi in una adeguata visione strategica della guerra e conseguente condotta pratica se le condizioni materiali lo consentissero.
Non è lecito "tifare"... a distanza, e tornare a tifare ad ogni nuovo episodio con lo specifico pretesto di una generica giustificazione storica; non è lecito dire: in senso storico eravamo ieri per i coreani come oggi siamo per i vietnamiti, anche se è evidente e "storicamente" giustificato l'intervento diretto o indiretto della Cina o della Russia.
Il problema è fondamentale e investe in pieno la responsabilità del marxista rivoluzionario: e poiché non si tratta di un semplice enunciato storico, esso va affrontato in sede di dottrina e di azione politica.
Vorremmo chiedere a questi compagni, affetti pericolosamente da questo tifo ricorrente: ammettiamo pure come storicamente giustificata la vostra simpatia e solidarietà verso la causa del Vietnam, che in definitiva è anche la nostra, ma quale sarebbe il vostro comportamento politico se voi vi trovaste a Saigon o, più precisamente che cosa vorreste che fosse fatto da una minoranza rivoluzionaria ipoteticamente operante in quel disgraziato paese, stretto nella morsa di un più vasto conflitto di dominio imperialista? E poiché siamo certi che nell'eventuale risposta non si uscirebbe, come del resto è sempre accaduto, dalla nebulosa di una generica giustificazione storica e per giunta sentimentale, diciamo noi quale debba essere il compito di una minoranza rivoluzionaria di fronte a situazioni del genere.
Sarebbe miopia o partito preso non riconoscere come l'intervento inevitabile delle forze imperialiste più direttamente interessate alle vicende del Vietnam, non abbia distorti e completamente pregiudicati i termini di quella rivoluzione verso l'indipendenza.
Anche qui è avvenuto quanto la nostra critica aveva denunciato per evitare che in definitiva risultassero distorte anche le posizioni di principio e di lotta dell'avanguardia rivoluzionaria. E questo spiega l'enorme importanza che noi abbiamo sempre dato a questi problemi: evitare che una iniziativa rivoluzionaria di classe rimanga intrappolata nel dispotismo dell'avversario di classe.
Formuliamo l'ipotesi, non certo campata in aria, che a forza di giocare col fuoco i due schieramenti dell'imperialismo mondiale finiscano per rompersi le corna in una guerra, anche se inizialmente localizzata.
Di fronte a tale eventualità, quale la nostra linea di condotta e quali le nostre parole d'ordine, anche se è evidente che le stesse forze della rivoluzione anticoloniale diverranno parti integranti del duplice schieramento e obiettivamente opereranno come pedina dell'imperialismo?
Per molti rapporti, tale situazione non sarebbe dissimile da quella che abbiamo vissuto nel corso della seconda guerra mondiale, quando le armate di Stalin si muovevano in senso opposto all'indirizzo strategico imposto da Lenin nel primo conflitto mondiale.
E' proprio per questa ragione fondamentale di differenzazione di classe e di condotta strategica della rivoluzione socialista che noi torneremmo ad adottare lo stesso atteggiamento tenuto dal nostro partito di fronte alla guerra di liberazione.
E' questa la caratterizzazione di un autentico partito rivoluzionario, la nostra caratterizzazione, e impone una sua coerenza politica e una sua validità nella misura che saprà dissociarsi da ogni manifestazione teorica e tattica che tenda ad accorciare o ad annullare la distanza che la separa dalle ideologie e dagli interessi dell'imperialismo.
Con i lavoratori combattenti vietcong, sì - con i profittatori cinesi o russi, no
Da Battaglia comunista n. 5 - maggio 1965
La situazione internazionale non è ancora una situazione di guerra generalizzata, essa è tuttora controllata dalle centrali imperialistiche che dominano il mondo così come è uscito dalla suddivisione seguita alla seconda guerra mondiale. Che tuttora sia in atto quel lento processo di erosioni reciproche e di sorde, continue frizioni interne per allargare e consolidare le rispettive sfere di influenza, lo dimostrano gli insoluti problemi che hanno il loro centro nevralgico, in Europa, nella divisione della Germania, e nelle zone afro-asiatiche e sud-americane nel caotico esplodere delle guerre localizzate, preludio inconfessato ma evidente di una prossima svolta storica che dovrebbe riporre sul tappeto una nuova suddivisione del mondo.
Le spese di questo stato di cose le stanno facendo i paesi sottosviluppati il cui territorio, la cui economia e il cui potenziale umano servono da cavie tragiche a questa strategia della guerra localizzata.
È facile prevedere che la storia dei prossimi anni vedrà lo svolgimento ulteriore di questo stillicidio di conflitti articolati soprattutto nello spazio afro-asiatico e sud-americano, nei quali gli schieramenti dell'imperialismo saggeranno i mezzi e le possibilità obiettive della loro preparazione bellica in vista dell'urto finale.
È poi vero che l'irrompere sul proscenio della storia della nuova forza uscita dalla lotta armata contro il colonialismo abbia messo in crisi l'imperialismo? Assolutamente no.
Sarebbe errore imperdonabile e di grave pregiudizio per la lotta di classe e per lo stesso avvenire della causa dei lavoratori se, anche nella minoranza rivoluzionaria, si facesse strada l'illusione che vuole che l'imperialismo sia messo in crisi nel suo complesso dai movimenti anticoloniali e - fatto odierno - dalla tenace ed eroica resistenza dei combattenti del Viet-Nam, sottacendo o sottovalutando il ruolo attuale dell'imperialismo, la sua continuità e le alterne vicende dello scontro che divide il mondo in più centri di potere, con le rispettive zone di influenza in stato di guerra permanente anche se non sempre guerreggiata e che, per ironia, chiamano "coesistenza pacifica".
Ma far propria la prospettiva di un fronte anticolonialista capace di mettere in crisi l'imperialismo, significa:
- che non è più vera la prospettiva di Lenin che affidava al solo fronte di classe e al proletariato rivoluzionario il compito storico della lotta frontale contro l'imperialismo;
- che l'imperialismo mondiale si impersona negli Stati Uniti d'America, soltanto in loro e nei subordinati Stati occidentali.
È allora evidente che la strategia antimperialista non può avere per obiettivo che la lotta contro questo unico centro di potenza, ramificato nel mondo, e contro cui insorgono le forze che vanno dai paesi del Terzo Mondo alle rivoluzioni afro-asiatiche e sud-americane; dalla Russia e repubbliche popolari alla Cina di Mao e al Viet-Nam, viste come le autentiche forze della democrazia e della libertà.
Questo modo di considerare lo schieramento dell'imperialismo e dell'antimperialismo è falso, rientra tutto nella tematica dell'opportunismo tradizionale ed è tanto più pericoloso quanto più riesce a far presa sul sentimento delle masse, fatto in prevalenza di generosa ingenuità; da una parte l'America, cioè il diavolo imperialista che tende a porre tutto e tutti sotto il suo dominio, e dall'altra la Russia, la Cina e le loro zone d'influenza, il cosiddetto mondo "progressista" che mira a raggiungere gli stessi fini di dominazione imperialista in nome dell'antimperialismo e con metodi nuovi, più idonei a suggestionare le grandi masse e a dominarle.
Quale conseguenza di tale impostazione si ha che - tolta la priorità al proletariato come antagonista storico, e tolta la visione ultima della soluzione rivoluzionaria della crisi che travaglia il mondo - il compito rimasto al partito rivoluzionario dovrebbe essere quello di solidarizzare con le forze progressiste a cui verrebbe demandato l'obiettivo di scardinare il centro di potere americano; e se, per ipotesi, ciò non avvenisse, ogni ripresa della lotta operaia e di conquista rivoluzionaria sarebbe praticamente resa impossibile.
Che questa strada conduca dritto dritto alla peggiore e più pericolosa deviazione rivoluzionario, è di una evidenza palmare.
Come indirizzare allora la politica del partito di classe, se solidarizzare con questa o quella lotta dei paesi sottoposti a colonizzazione o neo-colonizzazione significherà solidarizzare con quello schieramento imperialista entro il quale si è attuata la stessa lotta di indipendenza?
Solidarizzare significherà fare proprie le ragioni ideali, politiche ed economiche di quello schieramento - nel caso del Viet-Nam quello delle repubbliche popolari (Cina o Russia o tutte e due insieme); entrare nel dispositivo della loro strategia di potere significherà abbandonare le finalità storiche della rivoluzione socialista.
La politica delle scelte per il Viet-Nam non è la nostra politica, poiché finirebbe per buttare militanti operai nelle braccia o degli americani o dei cinesi o dei russi. Solo la denuncia e la preservazione delle basi dottrinarie, politiche e dei quadri del partito rivoluzionario, serviranno a garantire il processo di continuità al di fuori di ogni contaminazione del capitalismo di Stato e dell'imperialismo.
La terza ipotesi, quella cioè di una rivoluzione nazionale che si erga autonomamente e contro l'imperialismo... protettore, nel nostro caso il Viet-Nam contro la prepotenza americana e nel contempo contro la potenziale dominazione Cinese o Russa o russo-cinese insieme, presupporrebbe ciò che attualmente manca sulla scena politica mondiale, cioè la presenza operante del proletariato e la guida del partito rivoluzionario internazionale.
Riassumiamo allora:
- Divide il nostro partito da quelli della coalizione democratico-parlamentare un solco di classe che la falsa solidarietà per Cuba, per il Congo, per l'Algeria, per il Viet-Nam, per Santo Domingo, non riesce a colmare. Basterebbe proporre loro una effettiva e operante solidarietà per la causa di quei lavoratori indigeni, sul piano di una prospettiva di classe e di azione rivoluzionaria, per sentirceli non compagni ma nemici irriducibili.
E tali in realtà sono e come tali vanno trattati.
Compito del partito è di premunirsi contro ogni cedimento passionale e sentimentale che apre, ogni volta, la strada a cedimenti della teoria in chiave storicistica e che si situa al di fuori del marxismo dottrinario e di tutte le implicazioni politiche che da esso discendono. - Non ci sono, nella fase attuale dell'imperialismo, guerre buone o guerre cattive, ma guerre del capitalismo contro cui il solo proletariato internazionale alzerà la bandiera della guerra rivoluzionaria di classe. Al di là di questa linea storica tracciata da Marx e da Lenin non c'è social-patriottismo, così come è avvenuto nella prima e nella seconda guerra mondiale, e come sta avvenendo nella preparazione del prossimo scontro mondiale.
- Chi cercasse di fare affidamento sulle forze del proletariato, anche se attualmente avvilite, disperse e tradite, per riporre le speranze della causa operaia in azioni spontanee e insurrezioniste dei gruppi armati della guerriglia e destinate volta a volta ad essere catturate e poste sotto il controllo e l'iniziativa degli Usa o della Russia o della Cina, costui confonderebbe il fatuo e presuntuoso avventurismo con le ferree leggi della rivoluzione.
Chi si illudesse e illudesse attorno a sé con la pretesa di piegare la politica del partito di classe a tutto fare assecondando la politica, l'azione e gli obiettivi delle cosiddette forze "progressive", ripetiamo - con le parole ammonitrici della Luxemburg - che egli mira "non già alla realizzazione dell'ordinamento socialista, ma solo alla riforma di quello capitalista, non al superamento del sistema salariale, ma a una dose maggiore o minore di sfruttamento, in una parola all'accantonamento delle aberrazioni capitaliste e non del capitalismo stesso". - La lotta contro l'imperialismo deve significare per i marxisti lotta contro tutto l'imperialismo.
È chiaro che nel Sud-Est asiatico è in atto uno degli episodi di spietata, feroce prepotenza imperialista che illumina la scena di un più vasto conflitto mondiale. Gli Stati Uniti non vogliono perdere l'influenza politico-militare su quel settore divenuto, dopo la scomparsa del dominio francese, un vasto mercato di consumo dei suoi prodotti, una testa di ponte avanzata nel cuore dell'Asia per le imprese speculative del suo capitale finanziario, e non vogliono perderlo a beneficio dei cinesi che, in aperta concorrenza con i Russi, accampano questo diritto che proviene loro e dalla geografia e dalla storia.
La resistenza dei combattenti del Viet-Nam si giustifica e si esalta nella misura che prenderà coscienza della lotta che conduce, e considererà le mire imperialiste americane alla stregua di quelle cinesi o russe. Ma perché questo avvenga sarà necessario che l'attuale strategia dei nazionalismi sia spezzata o sommersa da una ondata di solidarietà del proletariato rivoluzionario internazionale.
E questo attualmente è solo una prospettiva; tuttavia è la sola prospettiva valida di classe verso la quale vanno polarizzate le minoranza rivoluzionarie salvate dalla catastrofe della Internazionale Comunista.
Strategia della pace
Da Battaglia comunista n. 1 - gennaio 1966
Alcune considerazioni si pongono per coloro che vogliono esaminare la situazione venutasi a creare nel Vietnam dal punto di vista rivoluzionario e quindi del marxismo.
Ancora una volta è confermata, con evidenza palmare, la esatta posizione assunta dal marxismo di fronte alle vicende, a volte tragiche, delle rivoluzioni e dei moti di rivolta contro il colonialismo e il neo-colonialismo, in un mondo dominato totalitariamente dall'imperialismo, e quanto è inoperante la solidarietà rivoluzionaria del proletariato internazionale.
La rivoluzione anticoloniale cessa di essere tale quando assicura la propria esistenza e la propria continuità con l'aiuto del capitale finanziario delle centrali dell'imperialismo, e diviene con ciò, inevitabilmente, pedina della sua strategia di potere. Forse che nel sacrificio dei combattenti Vietcong non grava quella vergognosa ipoteca posta dalla politica di predominio delle centrali imperialiste?
I destini del popolo del Vietnam, sia che si arrivi al tavolo della pace e sia che apra un nuovo e peggiore capitolo della guerra atroce, in entrambi i casi non dipendono dalla volontà e dai bisogni di quel disgraziato e martoriato paese, ma da quell'instabile equilibrio di egoismi che hanno la loro sede naturale a Mosca, a Washington e a Pechino,
A proposito della tendenza dei grandi Stati Maggiori della guerra, di tutte le guerre, ad utilizzare ogni movimento nazionale e rivoluzionario nel campo nemico, Lenin (da "Contre le courant" - ottobre 1916) insegnava:
Saremmo dei cattivissimi rivoluzionari se, nella grande guerra di emancipazione del proletariato per il socialismo, noi non sapessimo utilizzare 'non importa quali' movimenti popolari 'contro questa o quella calamità' dell'imperialismo, cercando di aggravare e di allargare la crisi con questo mezzo.
E su tale argomento è sempre Lenin che ci ammonisce, allorché conclude:
La dialettica della storia è tale che le piccole nazioni, impotenti in quanto fattori indipendenti (nel nostro caso il Vietnam - ndr) nella lotta contro l'imperialismo, giocano un ruolo di fermenti, di bacilli, che favoriscono l'apparizione della vera forza diretta contro l'imperialismo, quella del proletariato socialista.
Perché tale previsione storica si realizzi, noi siamo stati e rimaniamo fedeli a questo insegnamento di Lenin, quale che sia l'euforia del momento, che provoca sul piano politico gli sbandamenti più impensabili; quale che sia il grado di deterioramento operatosi nella ideologia rivoluzionaria e nella coscienza delle masse operaie guidate dai partiti opportunisti. Né moschettieri, quindi, di Mao né pacifisti da salotto che invocano la provvidenza divina per sanare i mali del capitalismo.
La questione nazionale e coloniale
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