La questione nazionale e coloniale - La Sinistra Comunista

Dal rapporto per la seconda conferenza nazionale - Milano, 19-20 marzo 1955

Da Battaglia comunista n. 2 - febbraio 1955

...Intanto sono di scena i popoli di colore, che sul piano illusorio delle lotte di liberazione nazionale colmano, col loro lavoro e il loro sangue, il vuoto che sta tra una guerra e l'altra e segnano la continuità storica di una politica di dominio, di distruzione e di rapina quale è dettata dall'interesse predominante ed esclusivo dei due centri dell'imperialismo mondiale.

In questa fase storica non vi sono episodi di sollevazione di popoli di colore, che possano originarsi e svilupparsi in assoluta autonomia, avulsi cioè dagli impulsi e dagli interessi delle maggiori potenze dell'imperialismo; in questa interferenza d'interessi di una strategia mondiale sta appunto la soggezione dei moti coloniali e la loro stessa ragione di essere, in Cina non meno che in Indocina, in Corea non meno che in Tunisia, eccetera.

Punto fermo quindi della strategia di classe: la Russia rivoluzionaria di Lenin, in quanto fortilizio avanzato della rivoluzione socialista mondiale, ha potuto funzionare, e a ragione, come centro motore della lotta dei popoli di colore; la Russia dello stalinismo, nel momento della maggiore dispersione degli organismi della lotta politica del proletariato internazionale che essa stessa ha provocato, è tuttora il centro motore delle rivolte dei popoli di colore, ma esse non trovano più la loro soluzione sul piano della rivoluzione socialista bensì su quello del capitalismo di Stato e dell'imperialismo.

Tuttavia il problema della guida rivoluzionaria di questi moti dei popoli spinti all'indipendenza è sempre aperto, ed è legato alla ripresa della lotta del proletariato non più dominato dalla politica dello Stato-guida e dello stalinismo internazionale.

Il Comitato Esecutivo

Facendo il punto a Sinistra - Sulla questione coloniale

Da Battaglia comunista n. 2 - febbraio 1958

  1. Nella fase attuale, i moto di liberazione nazionale nell'area afro-asiatica - la zona più nevralgica, attualmente più rovente del duello russo-americano - a differenza di quanto è avvenuto in Europa fino al 1871, assumono un'importanza del tutto marginale di fronte alle lotte e alla guerra per il dominio imperialista del mondo; ne costituiscono, si può dire, un complemento necessario.
  2. Non c'è moto coloniale che non rientri, direttamente o indirettamente, nel quadro della strategia mondiale ispirata o da Washington o da Mosca o da centrali loro subalterne.
  3. Il proletariato, anche là dove costituisce la forza sociale del moto di liberazione, sotto la pressione del nazionalismo indigeno è costretto a pensare e ad operare più sul piano di quella giovane borghesia che su quello dei propri interessi di classe. In questo caso all'avanguardia rivoluzionaria non spetta di dire a quegli operai di portare a compimento la rivoluzione borghese, ma piuttosto ad essa spetta il compito storico della denuncia e di una azione conseguente sul piano internazionale di classe per dare a questi moti un indirizzo e un contenuto concretamente anti-imperialista.
  4. Il richiamo alle Tesi dei primi Congressi dell'Internazionale comunista sulla liberazione dei popoli di colore è puramente formale e mostra all'evidenza la corda dell'opportunismo. Giustamente Lenin aveva posto l'esperienza del primo Stato socialista come centro ideale a cui far convergere tutti i moti dei popoli di colore nella loro lotta contro il colonialismo imperialista. Da allora è venuta a mancare a questi moti una guida di classe e si è avuto il conseguente loro rifluire sul piano predisposto dalla violenta riaffermazione dell'imperialismo. Richiamarsi ora a queste tesi senza operare positivamente perché il proletariato torni a ritessere la tela della sua organizzazione internazionale, è richiamarsi a vuoto, è fare della demagogia, tanto più sospetta in chi va da anni sostenendo e scrivendo il "nulla da fare" e irride ogni tentativo fatto o da farsi sulla via della ricostruzione dei quadri del partito di classe.
  5. Non si tratta di negare la "dinamica del potenziale storico immenso che hanno in atto e in riserva le popolazioni di colore"; attribuirlo a noi è soltanto banale espediente polemico e malafede. Ma la questione è ben altra, si tratta cioè di evitare che si gabbi per marxista-leninista la teoria che pone come compito storico dell'avanguardia rivoluzionaria di aiutare ieri il popolo russo e oggi i popoli di colore a portare a compimento l'instaurazione del capitalismo nei loro paesi, ciò che significherebbe nella fase attuale del conflitto imperialista aiutare il capitalismo a schiacciare ogni tentativo di liberazione del proletariato internazionale.

Non ci stancheremo di ripetere...

Da Battaglia comunista n. 1/2 - gennaio 1959

Non ci stancheremo di ripetere i termini della nota posizione della "Sinistra italiana" sul problema delle lotte coloniali.

Mai è apparsa con tanta evidenza la constatazione che la Sinistra italiana è stata la solo corrente comunista internazionale a porre nei giusti termini del marxismo il problema dell'atteggiamento che devono assumere le avanguardie rivoluzionarie nei confronti delle rivolte dei popoli di colore.

Tenuto conto del fatto che la spinta verso le graduali eliminazioni delle zone arretrate o sottosviluppate è dovuta al dinamismo che pervade il moto borghese capitalista nella sua fame di zone nuove da sottoporre a sfruttamento e non alle giaculatorie dei chierici convertitisi al nazionalismo nero e al mito del barbaro anticapitalista; tenuto conto del fatto che dalle stesse contraddizioni che sono implicite in questa spinta del colonialismo capitalista, emergono sempre nuove forze sul proscenio del conflitto di classe, la Sinistra italiana ha individuato esattamente la natura e i limiti delle rivolte coloniali condotte sotto la guida di quelle borghesie nazionali ma con l'apporto determinante (sociale, politico e militare) delle forze operaie ormai abilitate alla lotta da decenni di sfruttamento schiavistico, loro imposto con la violenza dai paesi del colonialismo imperialista.

La questione è dunque posta in termini precisi:

  • Suscitare una politica che non serva al nazionalismo della nuova borghesia indigena e attraverso tale canale favorisca questa o quella centrale dell'imperialismo ora dominante nel mondo.
  • Svolgere i motivi di lotta posti dalla difesa degli interessi delle masse operaie soggette al più vergognoso e degradante sfruttamento economico e politico dei paesi colonialisti.
  • Operare in vista della organizzazione d'una avanguardia rivoluzionaria a cui è affidato il compito di rompere il diaframma della rivoluzione nazionale e mettere in moto la inesorabile dialettica delle classi che consentirà alle masse operaie indigene di schierarsi sul fronte della lotta contro tutte le forze della dominazione imperialista.

Ma in che misura tutto ciò è oggi obiettivamente possibile? In che misura il moto spontaneo delle masse di colore può cadere sotto il controllo di una guida internazionale di classe? In che misura invece esso viene deviato dalla sua spinta iniziale, tolto alla sua spontaneità per essere alimentato e potenziato da quella centrale dell'imperialismo (è indifferente che si tratti degli Usa o dell'Urss) che per ragioni geografiche, finanziarie e di prestigio, è in grado di farne una sua pedina di manovra.

Bisogna riconoscere che con il crollo della Internazionale di Lenin e con il permanere delle ragioni storiche che ne impediscono la ricostruzione, le forze della guerra e dello sfruttamento non conoscono limiti nella loro capacità di eliminare con tutti i mezzi ogni attentato al loro dominio.

Ed è proprio per questa constatazione che urgono, sugli altri problemi, quelli della ricostruzione degli strumenti della lotta internazionale di classe a cui è condizionata la stessa liberazione dei popoli di colore.

Non indulgere dunque a certo schematismo dottrinario che vorrebbe fare del marxismo rivoluzionario la bandiera del nazionalismo afro-asiatico il quale, nella sua direzione attuale, non solo non mette in crisi l'imperialismo, ma lo serve e in definitiva lo rafforza.

Non indulgere al semplicismo teorico di chi afferma che

si deve sostenere la lotta dei popoli di colore unicamente perché essa darà il potere alla borghesia indigena la quale, industrializzando il paese, creerà un proletariato industriale e preparerà così le basi del socialismo.

Al lume di tale teoria, i rivoluzionari, per essere conseguenti dovrebbero , per esempio, sostenere le guerre del capitalismo sol perché esse, non importa se a costo di lutti e di rovine immense, con le prodigiose scoperte scientifiche e le profonde trasformazioni tecniche che sono connaturali alla guerra, portano ad ampliare il raggio della conoscenza e spostano in avanti i rapporti tra gli uomini e le loro generali condizioni di vita, spingendo al limite le contraddizioni proprie della organizzazione economica e politica del capitalismo.

Ma se così fosse, meglio di noi e delle nostre organizzazioni, avrebbero interpretato le leggi del marxismo gli Hitler e i Mussolini, e valide dovrebbero essere ritenute le loro esperienze corporative. Ma il capitalismo è sempre e ovunque se stesso: fascista ieri, democratico oggi, neo fascista domani; qui colonialista feroce e là portatore della rivoluzione nazionale, schiavista e progressista secondo il bisogno, fino a che il proletariato non spezzerà questa tragica sequenza del profitto basato sullo sfruttamento, sull'odio e sulla violenza di classe.

Passato e presente d'una concezione comunista

Da Battaglia comunista n. 5 - maggio 1959

Dato l'interesse che ha suscitato e suscita nei compagni il problema delle lotte coloniali, e data la sua intrinseca importanza nella strategia rivoluzionaria, torniamo a pubblicare le conclusioni di un vecchio articolo del compagno Bordiga apparso per la prima volta in "Prometeo" del 1924.

I compagni avranno in tal modo il quadro abbastanza completo e soprattutto chiaro delle idee che noi continuiamo a difendere anche in contrasto con quei compagni che ne furono estensori e sostenitori, allora intransigentissimi.

Nulla del resto è avvenuto né poteva avvenire negli anni posteriori a questi scritti sulla linea di sviluppo delle lotte dei popoli di colore, che non fosse teoricamente e politicamente previsto (è il minimo del resto che si possa attribuire alla capacità di previsione storica del marxismo); che dovesse imporre sostanziali modifiche alla Tesi sulla questione nazionale elaborata e approvata dal Secondo Congresso della Internazionale Comunista.

Tuttavia una constatazione si impone. Nel 1924 e nel 1926, epoca degli scritti che riproduciamo, centro motore e polarizzatore delle lotte coloniali era la Russia rivoluzionaria con le operanti sezioni della Internazionale, ciò che faceva di queste lotte il più valido strumento contro l'imperialismo. Crollato questo pilastro dell'azione rivoluzionaria nel mondo ed entrata la Russia con armi e bagagli nello schieramento delle competizioni imperialiste, le lotte coloniali sono venute a mancare della guida e della fattiva solidarietà delle forze politiche del proletariato internazionale, e sono finite sotto l'influenza dei dominanti interessi dello schieramento imperialista.

Nella misura che le risorgenti forze del proletariato internazionale riusciranno ad annodare una attività di classe su scala internazionale, sarà praticamente possibile ricreare l'iniziativa di un intervento nelle lotte coloniali con l'obiettivo di sottrarre quel proletariato di recente formazione, o tuttora in fase di formazione, dalla stretta della borghesia indigena e quindi dei predoni dell'imperialismo.

La tattica da seguire rimane la stessa che andiamo sostenendo da decenni, dal Secondo Congresso della Internazionale in poi, e la cui esattezza gli avvenimenti che si sono susseguiti hanno ogni volta completamente confermato.

Il comunismo e la questione nazionale

Da "Prometeo", n. 4 - aprile 1924

Della questione nazionale diciamo ora, più che altro, a titolo di esemplificazione del metodo accennato. L'esame di essa e la descrizione dei fatti in cui si compendia sono contenuti nelle Tesi del Secondo Congresso dell'Internazionale, che giustamente si riportano alla valutazione generale della situazione del capitalismo mondiale e della fase imperialistica che esso attraversa.

Questo insieme di fatti va esaminato tenendo presente il bilancio generale della lotta rivoluzionaria. Un fatto fondamentale è quello che il proletariato mondiale possiede ormai una cittadella nel primo Stato operaio, la Russia, oltre che il suo esercito nei partiti comunisti di tutti i Paesi. Il capitalismo ha le sue fortificazioni nei grandi Stati e soprattutto in quelli vincitori della guerra mondiale, un piccolo gruppo dei quali controlla la politica mondiale. Questi Stati lottano contro le conseguenze del dissesto generale prodotto nella economia borghese dalla grande guerra imperialistica, e contro le forze rivoluzionarie che mirano ad abbatterne il potere.

Una delle più importanti risorse controrivoluzionarie di cui dispongono i grandi Stati borghesi nella lotta contro il disquilibrio generale della produzione capitalistica, è la loro influenza su due gruppi di paesi: da una parte, le loro colonie di oltremare; dall'altra, i piccoli paesi ad economia arretrata di razza bianca. La grande guerra, presentata come il movimento storico sboccante nell'emancipazione dei piccoli popoli e nella liberazione delle minoranze nazionali, ha clamorosamente smentita questa ideologia, in cui credettero o fecero finta di credere i socialisti della Seconda Internazionale, assoggettando alle grandi potenze tutti i piccoli paesi. I nuovi Stati sorti nell'Europa centrale non sono che vassalli o della Francia o dell'Inghilterra, mentre Stati Uniti e Giappone consolidano sempre più una loro egemonia sui Paesi meno potenti dei continenti rispettivi.

È indubbio che la resistenza alla rivoluzione è concentrata nel potere di pochi grandi Stati capitalistici: abbattuti questi, tutto il resto crollerebbe innanzi al proletariato vincitore. Se nelle colonie e nei Paesi arretrati vi sono movimenti sociali e politici diretti contro i grandi Stati, e nei quali sono coinvolti ceti e partiti borghesi e semi-borghesi, è certo che il successo di questi movimenti - dal punto di vista dello sviluppo della situazione mondiale - è un fattore rivoluzionario, in quanto contribuisce alla caduta delle principali fortezze del capitalismo, mentre ove alle borghesie dei grandi Stati potesse sopravvivere un potere borghese nei piccoli paesi, questo sarebbe travolto successivamente dalla potenza del proletariato dei paesi più progrediti, anche se localmente il movimento proletario e comunista appare iniziale e debole. Uno sviluppo parallelo e simultaneo della forza proletaria e dei rapporti di classe e di partito in ogni paese non è affatto un criterio rivoluzionario, ma si riporta alla concezione opportunista sulla pretesa simultaneità della rivoluzione, in nome della quale si negava perfino alla rivoluzione russa il carattere proletario. I comunisti non credono affatto che lo sviluppo della lotta in ogni paese debba seguire lo stesso schema; essi si rendono conto delle differenze che si presentano nel considerare i problemi nazionali e coloniali, solo essi coordinano la soluzione all'interesse del movimento unico di abbattimento del capitalismo mondiale.

La tesi politica dell'Internazionale comunista per la guida, da parte del proletariato comunista mondiale e del suo primo Stato, del movimento di ribellione delle colonie e dei piccoli popoli contro le metropoli del capitalismo, appare dunque come risultato di un vasto esame della situazione e di una valutazione del processo rivoluzionario ben conforme al programma nostro marxista. Essa si pone ben al di fuori della tesi opportunista borghese, secondo cui i problemi nazionali debbono essere risolti "pregiudizialmente" prima che si possa parlare di lotta di classe, e per conseguenza il principio nazionale vale a giustificare la collaborazione di classe, sia nei paesi arretrati sia in quelli di capitalismo avanzato, quando si ritenga posta in pericolo la integrità e libertà nazionale. Il metodo comunista non dice banalmente: i comunisti devono agire in senso opposto, ovunque e sempre, alla tendenza nazionale: il che non significherebbe nulla e sarebbe la negazione "metafisica" del criterio borghese. Il metodo comunista si contrappone a questo "dialetticamente", ossia parte dai fattori classisti per giudicare e risolvere il problema nazionale. L'appoggio ai movimenti coloniali, ad esempio, ha tanto poco sapore di collaborazione di classe, che, mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista nelle colonie, perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati con un'opera indipendente di formazione ideologica e organizzativa, si chiede l'appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti della metropoli. E tale tattica ha tanto poco sapore collaborazionista, da essere chiamata dalla borghesia azione anti-nazionale, disfattista e di alto tradimento.

La tesi IX dice che senza tali condizioni la lotta contro l'oppressione coloniale e nazionale resta un'insegna menzognera, come per la Seconda Internazionale; e la Tesi XI, comma E, ribadisce che

è necessaria una lotta decisa contro il tentativo di coprire di una veste comunista un movimento rivoluzionario irredentista, non realmente comunista, dei Paesi arretrati.

Questo vale a suffragare la fedeltà della nostra interpretazione.

La necessità di spostare l'equilibrio nelle colonie risulta da un esame strettamente marxista della situazione del capitalismo, in quanto l'oppressione e lo sfruttamento dei lavoratori di colore diviene un mezzo per incrudelire lo sfruttamento del proletariato indigeno della metropoli. Qui risulta ancora la radicale differenza tra il criterio nostro e quello dei riformisti. Questi, infatti, tentano di dimostrare che le colonie sono una fonte di ricchezze anche per i lavoratori delle metropoli con l'offrire uno sbocco ai prodotti, e traggono da questo altri motivi per la collaborazione di classe sostenendo in molti casi, a faccia fresca, che lo stesso loro principio di nazionalità può essere violato per l'interesse "della diffusione della civiltà borghese" e per accelerare l'evoluzione delle condizioni del capitalismo. Ed è qui un altro saggio di travisamento rivoluzionario del marxismo, che si riduce ad accordare al capitalismo sempre più lunghe proroghe al momento della sua fine e dell'attacco rivoluzionario, con l'attribuirgli ancora un lungo compito storico, che noi gli contestiamo.

I comunisti utilizzano le forze che mirano a rompere il patronato dei grandi Stati sui paesi arretrati e coloniali, perché ritengono possibile rovesciare queste fortezze della borghesia e affidare al proletariato socialista dei paesi più avanzati il compito storico di condurre a ritmo accelerato il processo di modernizzazione dell'economia dei paesi arretrati, non sfruttandoli, ma sospingendo l'emancipazione dei lavoratori locali dallo sfruttamento esterno ed interno.

Questa, nelle grandi linee, è la giusta posizione dell'Internazionale comunista nel problema di cui ci occupiamo. Ma importa molto vedere chiaramente la linea per la quale si giunge a tali conclusioni, per evitare che si voglia riannodarle al superato frasario borghese sulla libertà nazionale e l'egualianza nazionale, ben denunciato nella prima delle tesi citate come un derivato del concetto capitalistico sulla uguaglianza dei cittadini di tutte le classi. Perché in queste nuove (in certo senso) conclusioni del marxismo rivoluzionario talvolta si affaccia il pericolo di esagerazioni e deviazioni.

Amadeo Bordiga

N.d.R.

In seguito, anche la Frazione italiana della Sinistra comunista all'estero non nutriva alcun dubbio sul fatto che con la prima Guerra Mondiale si era definitivamente conclusa l'epoca delle guerre nazionali e coloniali; si era aperta l'epoca delle guerre imperialiste per la spartizione dei mercati.

Non più - dunque - guerre di "difesa nazionale" per tutti i paesi, URSS compresa, e non più politiche "pacifiste":

La guerra non è una manifestazione accidentale ma organica del regime capitalista. Non esiste il dilemma 'guerra o pace' ma il dilemma 'regime capitalista o regime proletario'. Lottare contro la guerra è lottare per la rivoluzione.

La classe operaia può conoscere e rivendicare un solo tipo di guerra: la guerra civile diretta contro gli oppressori in ogni Stato e che si conclude con la vittoria insurrezionale.

Da "Bilan" - 1934-35

Per la Frazione di Sinistra, Tutte le lotte di liberazione nazionale dei popoli coloniali non potevano che trasformarsi, inevitabilmente, in altrettanti momenti delle guerre tra gli imperialismi, svolgendo una funzione non progressiva ma reazionaria. Il compito del proletariato era allora esclusivamente quello di combattere contro la propria borghesia, fosse essa democratica o fascista, oppressa o imperialista.

La Sinistra italiana, demistificando il presunto "diritto dei popoli all'autodeterminazione", affermava chiaramente:

Non avremo nessuna paura di dimostrare che la formulazione di Lenin, per quel che concerne il problema delle minoranze nazionali, è stata superata dagli avvenimenti e che la sua posizione applicata nel dopoguerra si è rivelata in contraddizione con gli elementi fondamentali che il suo autore le aveva dato: aiutare l'esplosione della rivoluzione mondiale. (...) I soprassalti nazionalisti, le gesta terroriste dei rappresentanti delle nazionalità oppresse, esprimono oggi l'impotenza del proletariato e l'avvicinarsi della guerra. Sarebbe errato vedere in questi movimenti un apporto alla rivoluzione proletaria in quanto essi non possono che favorire l'annientamento degli operai e quindi legarsi ai movimenti degli opposti imperialismi.

Da "Bilan" n. 14, 1935

Nella sua analisi la Sinistra italiana prendeva ad esempio la sconfitta del proletariato cinese nel 1927 da parte della propria borghesia:

Ogni evoluzione progressiva delle colonie poteva scaturire non da sedicenti guerre di emancipazione delle borghesie 'oppresse' contro l'imperialismo oppressore, ma da guerre civili di proletariati e masse contadine contro i loro sfruttatori diretti, di lotte insurrezionali condotte in legame con il proletariato avanzato delle metropoli.

Da "Bilan"

Nel conflitto fra l'Italia e l'Etiopia, la Sinistra italiana respinse ogni possibile appoggio e solidarietà al Negus: non solo ciò avrebbe significato la partecipazione indiretta agli scontri imperialistici, ma soprattutto avrebbe fornito una copertura al massacro degli operai e dei contadini, tanto etiopici che italiani.

Punti fermi

Da Battaglia comunista n. 5 - maggio 1959

  • In un mondo dominato dalle forze dell'imperialismo, le lotte condotte dai popoli di colore non vanno considerate a sé stanti, ma come parte di una situazione obiettiva nella quale gli interessi della dominazione imperialista sono prevalenti e determinanti anche e soprattutto nelle sone extra-capitalistiche.
    Compito del partito rivoluzionario non è quello di aiutare le borghesie nazionali a formare nel loro paese il capitalismo, poiché spazzar via i residui della feudalità economica spetta storicamente al capitalismo, ma di aiutare le masse operaie, chiamate dalla borghesia indigena a costruire con le proprie mani e col proprio sacrificio le impalcature economiche e politiche del loro sfruttamento, a formarsi come classe e a costruire gli strumenti della propria emancipazione.
    Questa solidarietà operante sul piano degli sviluppi di classe non comprende, anzi esclude, che essa si trasformi in appoggio diretto e consapevole della propria borghesia e, attraverso questa, in una vera e propria collusione con le forze dell'imperialismo mondiale a cui la nuova borghesia indigena si riallaccia per affinità d'interessi e per sua stessa natura.
  • Solo la presenza attiva di una organizzazione internazionale può costituire valida garanzia all'affermazione vittoriosa delle lotte del proletariato.
    La ricostruzione della Internazionale dei lavoratori deve quindi rappresentare il compito più grave e urgente nelle prospettive dei gruppi dell'avanguardia rivoluzionaria; senza questa soluzione ogni ripresa di classe è destinata a non prendere consistenza o a finire preda dell'opportunismo.

I limiti della doppia rivoluzione

Da Battaglia comunista n. 7/8 - luglio 1960

Pretendere di affrontare il problema della lotta dei popoli di colore rifacendosi meccanicamente allo schema di Marx, è ridurre la storia nel letto di Procuste (l'antico ladrone che trucidava le sue vittime sul letto) di schemi sempre validi. Si dice: questo è lo schema di Marx del 1848; entro questo schema - valido nel 1848 - va imprigionato il procedere convulso e contradditorio del capitalismo odierno che trasuda di monopoli, di capitale finanziario e di violenza imperialista su scala mondiale.

Di fronte alla guerra del 1914, Lenin, nel porre il problema strategico della trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria di classe, dichiarava aperta l'epoca storica della rivoluzione socialista con gli inevitabili suoi alti e bassi, ma non ha mai detto che l'eventuale sconfitta dell'esperienza rivoluzionaria del proletariato avrebbe chiuso questo ciclo storico dominato dalla alternativa imperialismo-rivoluzione proletaria, per riaprire quello delle guerre nazionali. E queste, pur nella manifestazione drammatica che ne hanno data le rivoluzioni afro-asiatiche tuttora in fase esplosiva, non assumono valore storico determinante, nel senso che si articolano e finiscono per concludersi nel quadro storico del dominio imperialista, di cui semmai allargano la sfera di influenza.

Sotto questo rapporto si affiderebbe al proletariato di colore il compito di portare avanti, all'insegna di un generico progressismo economico, interessi e ideologie che porteranno acqua al consolidamento del capitalismo nella fase attuale del monopolio e del capitalismo di Stato, sia che il moto di colore accetti la protezione delle armi e del capitale finanziario americano, sia che veda nella protezione russa la solidarietà fattiva ai suoi ideali di liberazione dal colonialismo occidentale. Porre quindi il problema della necessità storica che il proletariato si batta oggi per le guerre nazionali come nel 1848, significa travisare l'interpretazione marxista di questi fenomeni. L'accento va invece posto sul contenuto di classe di tali rivoluzioni, perché sia varcata la linea del tradizionale nazionalismo, e l'enorme potenziale di questi moti sia indirizzato - come potenziale rivoluzionario - contro tutto lo schieramento imperialista. Lenin lo faceva da capo della rivoluzione russa, che considerava come un momento della rivoluzione internazionale. Noi lo dobbiamo fare da marxisti internazionalisti che non piegano la teoria all'interesse di un supposto Stato proletario, divenuto strumento (secondo a nessuno) di rapina imperialista.

Tutti i moti che si sono susseguiti fin qui nell'immenso settore afro-asiatico, hanno insegnato che le cosiddette rivoluzioni nazionali hanno in definitiva servito l'imperialismo allo stesso modo, per esempio, che il pallone, un vilissimo pallone serve alle squadre in gara per affermare la propria superiorità.

Considerare diversamente il pensiero e l'opera di Lenin nel suo insieme, è fare della sua grande strategia una banale lezione di nazional-comunismo. Il dato obiettivo, che i moti afro-asiatici maturano le condizioni per la formazione d'un moderno capitalismo a cui dovrà legarsi una fase più avanzata della caratterizzazione di classe delle masse di colore, è insufficiente a spiegare la natura e la complessità dei compiti assegnati alla rivoluzione dei popoli di colore. C'è soltanto da chiedersi come possa essere concepita l'esistenza di una avanguardia rivoluzionaria inserita in un paese coloniale, ad economia per la maggior parte allo stato precapitalista, che vive l'ora storica della sua emancipazione dal dominio della colonizzazione straniera e ponga come suo compito fondamentale il suo apporto di idee, di organizzazione e di uomini alla causa della rivoluzione nazionale.

Evidentemente ci troviamo di fronte a una nuova ipotesi, al solito espediente metafisico formulato per far quadrare una teoria. E secondo questa teoria, quel proletariato, che avrebbe già espresso questa tale avanguardia rivoluzionaria,

dovrebbe di nuovo, fino a che si tratta di maneggio di armi, e salva la sua ideologia di classe e la sua preparazione di partito alla successiva fase dittatoriale, battersi in queste guerre...

Ripetiamo: si tratta di una ipotesi non verificata né verificabile, nel concreto delle vicende storiche delle recenti e attuali lotte coloniali, in nessun paese del campo afro-asiatico; ma se ciò fosse, a quel proletariato e a quella sua avanguardia non spetterebbe di portare avanti la rivoluzione nazionale per creare il presupposto economico-politico di una avanzata esperienza capitalista, bensì operare perché la rivoluzione democratica non sia a sé stante, ma soltanto momento della propria rivoluzione di classe, un atto della formazione della società socialista.

È infantile, è semplice aspirazione... lirica, pensare che un proletariato, diciamo proletariato e cioè non plebe, non artigianato, non popolo generico, il quale sia parte essenziale nella rivoluzione nazionale, non faccia sua quella ideologia, non reputi idonei quei metodi di lotta, non si sacrifichi per quegli obiettivi; quelli, si capisce, del nazionalismo vittorioso, e quindi non serva inconsciamente da sgabello a istituzioni e strumenti di dominio che si ritorceranno oppressivi e feroci contro i suoi interessi di classe, contro le ragioni storiche della stessa rivoluzione socialista.

Si tratta - come si vede - di mettere ancora in evidenza i termini di una ormai vecchia polemica; e posizioni come queste che abbiamo denunciate, o paiono sorreggersi sugli uncini d'una teoria che non tiene conto dello svolgimento attuale dei moti dei popoli di colore, oppure obbediscono tuttora alla visione strategica che affiderebbe al giovane capitalismo russo il compito storico, obiettivamente progressivo - dicono essi - di far fuori il capitalismo parassitario americano.

In ogni caso, chi operasse su questo piano, farebbe da rallentatore nei confronti della rivoluzione socialista.