Le proposte europee per la disoccupazione giovanile

Di “buone intenzioni” sono lastricate le strade del capitalismo

I dati recitano che nella sola area dell’euro la disoccupazione giovanile è arrivata al 24,1%. Si va dal 7,7% della Germania al 57,3% della Grecia passando per il 40,4% dell’Italia. In termini numerici ufficiali sono 5,6 milioni i disoccupati tra i 15 e i 25 anni, se invece si tiene conto di un dato più ampio sarebbero 7,5 milioni i giovani che non hanno finito le scuole, che non hanno un lavoro, che non sono inseriti in un qualsiasi progetto di formazione o di tirocinio.

I dati sono così allarmanti che la stessa “intellighenzia” borghese ha ritenuto di dover fare qualcosa per evitare che il bubbone scoppi nelle piazze sotto forma di protesta radicale, anche se all’interno del sistema e sotto forma di rivendicazioni economiche e legislative, ma pur sempre con grave rischio della tanto auspicata “pace sociale”.

Il presidente Letta si è vantato di essere stato il promotore, presso gli organismi europei, di un programma che, nel tempo, dovrebbe iniziare a risolvere il problema. Secondo questo programma si sono stanziati 6 miliardi di euro da spalmare nei prossimi tre anni a favore dei disoccupati al di sotto dei 25 anni, soldi prelevati dal Fondo sociale europeo e da un Fondo ad hoc per tre miliardi di euro ciascuno, poi altri stanziamenti, non meglio identificati per quantità e reperimento, per gli anni successivi. Il che vale però solo per i paesi e le regioni che abbiano una disoccupazione giovanile superiore al 25%, come se avere poco meno di un quarto della popolazione sotto i 25 anni a spasso, sia da considerare un fenomeno sociale “normale”, di ordinaria amministrazione, di cui non preoccuparsi.

A parte questo aspetto che già marchia il senso e il contenuto della manovra, gli obiettivi dichiarati sono:

  1. Entro quattro mesi dalla fine degli studi o dall’inizio della disoccupazione i giovani dovranno usufruire di un lavoro o di un ciclo di apprendistato e/o corso di aggiornamento all’interno delle aziende per poi essere inseriti nel mondo del lavoro o della ricerca.
  2. A fronte delle sovvenzioni si prescrive una mobilità lavorativa sia all’interno del paese o della regione, sia nei paesi Ue sulla base del progetto Eures.

Se fossimo degli sprovveduti riformisti ci verrebbe da dire “Bene, era ora. Forse i finanziamenti non sono sufficienti, certamente si sono mossi in grave ritardo quando ormai il problema era troppo grande, ma questa è la strada, basta iniziare e poi si vedrà”. Ma le cose non stanno in questi termini.

Intanto questi “benefattori” della giovane umanità che loro stessi hanno messo sul lastrico per anni, creando uno sfracello sociale ad almeno una generazione e alla loro famiglie, si sono ben guardati dal fare autocritica né, tanto meno, di dare una spiegazione alle devastanti conseguenze della crisi economica, se non nel piagnucolare che le crisi, purtroppo, arrivano, e quando ci sono si fa quel che si può, come se fossero un evento catastrofico, sì, naturale, e non la necessaria conseguenza di come capitalisticamente si produce e si distribuisce la ricchezza sociale.

Poi la presa per i fondelli. Si dice che dopo quattro mesi di disoccupazione dall’uscita scolare o dai meccanismi di produzione si arriverà ad avere o un nuovo posto di lavoro o un tirocinio che accompagni alla futura attività lavorativa, con corsi di aggiornamento o di apprendistato. Ma quali posti di lavoro se, secondo le più rosee aspettative degli stessi analisti borghesi, la ripresa economica avverrà senza che riparta l’occupazione o, quantomeno, senza che l’attuale disoccupazione abbia una significativa contrazione? Questo è quanto sta accadendo negli Usa, in Giappone dove, si dice con tenue enfasi, che la ripresa economica, anche se timida, sarebbe già in atto.

Per il capitale internazionale, quello europeo compreso, l’eventuale uscita dalla crisi avverrà sulla base di una maggiore concentrazione economica, sulla scia di investimenti tecnologici che raffredderanno inevitabilmente il riassorbimento delle vecchia forza lavoro e la creazione di nuovi posti di lavoro. In compenso per quei giovani che avranno la possibilità (fortuna) di entrare nel prossimo ciclo economico, molto pochi, ci sarà solo flessibilità, contratti a termine, salari da fame e precarietà, con la sola variante fraudolenta, già vagheggiata dai giuslavoristi italiani, di fantomatici contratti a tempo indeterminato che tali non sono, perché la clausola accompagnatrice sancisce che questi contratti verrebbero immediatamente resi nulli dalle necessità economiche dell’azienda che li ha sottoscritti. Questa è la ferrea legge del capitalismo.

In più c’è da rilevare come, nella presente situazione, i posti di lavoro sono drasticamente diminuiti almeno del 10-15%, mentre l’età pensionabile si è allungata. I posti di lavoro non solo sono diminuiti, ma i vecchi rimarranno a lavorare sino alla soglia dei settant’anni mentre i giovani rimarranno in gran parte esclusi dal ciclo produttivo, dall’acquisizione di un reddito e sopravvivranno ancora per lungo tempo solo “grazie” al reddito sempre più misero dei padri, se non con la ancora più misera pensione dei nonni, a fronte di un welfare in progressivo smantellamento per il “doveroso” contributo che deve dare alla conservazione del sistema in crisi.

Per il futuro, come già detto, le cose non sono destinate a migliorare di molto. Le ragioni economiche che hanno determinato la disoccupazione sono le stesse che renderanno difficile il suo assorbimento anche in una fase di ripresa economica, quando, come e se riuscirà ad esprimersi. L’unica cosa certa è che tutto il mondo del lavoro, quello giovanile in particolare e quello degli anziani, dovrà farsi carico della ripresa economica, sempre che sia alle viste in termini brevi, così come si è fatto carico della crisi. Quando i vecchi andranno finalmente in pensione con un 40% in meno rispetto all’oggi, i giovani allora, e solo allora, potranno in parte inserirsi nella produzione a salari dimezzati rispetto a quelli dei loro “vecchi”, con il rinnovato fardello della flessibilità in entrata, in uscita, della precarietà assoluta per consentire alla macchina del capitale di riprendere a sfruttare la nuova forza lavoro alle condizioni che soddisfino al meglio la ripresa del profitto e la stabilizzazione del sistema.

E allora a che servono i fondi? Gli stanziamenti ci sono, in piccola parte andranno certamente a finanziare lo scopo per cui sono stati erogati ma, nella stragrande maggioranza dei casi, finiranno per essere soltanto il mezzo per tamponare lo “status quo” in cui versa la maggioranza dei giovani europei, una sorta di parcheggio sociale atto a disinnescare quella possibile bomba della disoccupazione giovanile che, a sua volta, potrebbe trascinare con sé altre stratificazioni di proletari in via di pauperizzazione.

Al capitalismo non rimangono molte alternative per uscire dalla crisi. Oltre alla svalutazione di valore capitale in beni strumentali, necessita una svalutazione altrettanto incisiva del costo della forza lavoro in termini di riduzione del salario diretto e differito, di aumento dei ritmi di lavoro, di allungamento della giornata lavorativa e della più selvaggia precarietà con o senza sussidi a favore del prossimo diseredato proletariato europeo.

FD
Domenica, November 24, 2013