Morire di lavoro o di miseria: le alternative del capitale

Nel momento in cui scriviamo è passato un mese dalla strage di operai cinesi avvenuta a Prato, ma vale ugualmente la pena ritornarci su, perché, purtroppo, la questione della sicurezza sul lavoro non va mai giù “di moda”.

Si tratta di una strage che, per molti aspetti, non ultimo l'orrore, ricorda da vicino quella della “Thyssen-Krupp di Torino, sei anni fa. Una delle differenze è che allora erano morti (o assassinati?) sette operai di una grande impresa siderurgica, un nome “prestigioso” della storia industriale d'Europa; a Prato, invece, a trovare la morte tra le fiamme sono stati dei proletari extracomunitari, costretti a lavorare, a vivere e a morire in uno dei tantissimi laboratori tessili che caratterizzano il tessuto produttivo della città toscana.

La storia è nota: in una di quelle fabbrichette – per di più la domenica mattina – si sviluppa un incendio che si propaga velocemente al materiale infiammabile, presente in quantità nei locali, dove per altro dormono gli operai stessi, nei letti lasciati liberi dai loro compagni, andati ad affrontare un'altra lunghissima giornata di sfruttamento e di oppressione. Ormai la documentazione sui moderni “sweat shops”, laboratori del sudore di ottocentesca (ottocentesca?) memoria è abbondante: tutti, a cominciare dalle istituzioni, sanno in quali condizioni lavorino i proletari cinesi immigrati, conoscono le paghe bassissime, gli orari interminabili, l'esposizione a gravi rischi per la salute a causa dello scarso rispetto (per non dire nullo) delle norme relative alla sicurezza e all'esposizione ad agenti tossici, del dispotismo padronale che regna nelle moderne “boite”, basato anche e non da ultimo sulla ricattabilità cui è sottoposta una forza lavoro abbondante in buona parte clandestina.

Tutti sanno eppure le cose, da sempre, vanno avanti così, ma la ragione non è certo quella indicata dal riformismo che, più o meno ingenuamente, individua una delle concause degli “infortunii” sul lavoro – a cominciare dalle stragi – nell'assenza dello stato in materia di tutela della salute dei lavoratori. Lo stato non è assente, lo stato è complice, anzi, espressione di una borghesia che, per certi aspetti, più di altre, nell'Europa “avanzata”, deve o doveva ricorrere a metodi di sfruttamento “antichi” per assicurare la prosecuzione del processo produttivo di plusvalore a livelli accettabili (relativamente al capitale investito o da investire). Inoltre, l'abbassamento del salario e, più in generale, di quello che la borghesia chiama il costo del lavoro (dunque, anche il salario indiretto e differito) è un obiettivo – e una tendenza in atto – del capitalismo a scala internazionale, quale strumento per ridare vigore all'accumulazione capitalistica; in questo quadro, lo sfruttamento del proletariato immigrato ha un ruolo di primo piano. Per limitarci a un aspetto della questione, gli operai tessili cinesi, in Italia, subiscono le condizioni di lavoro dei loro fratelli di classe in Bangladesh o... in Cina, che producono mezzi di sussistenza (abiti ecc.) a buon mercato per un proletariato internazionale che vede restringersi la capacità di spesa a causa della riduzione di salari e stipendi operata dalla borghesia del mondo intero.

In sintesi, l'operaio cinese, in Cina o in Italia, è funzionale – come vittima, ovviamente – all'attacco globalizzato alla classe proletaria, ne è, in un certo senso, una delle premesse/conseguenze. E' anche vero, però, che le forme brutali di sfruttamento sono inseparabili dal capitalismo: in tempo di crisi, agiscono da controtendenza alla caduta del saggio del profitto, in epoche di crescita economica contribuiscono a spingerlo ancora più in alto. In ogni caso, quelle modalità di estorsione del plusvalore possono allargarsi o restringersi – per esempio, nelle fasi centrali del ciclo di accumulazione – ma non spariscono mai.

In Italia, come s'è detto, il numero dei morti e dei malati per cause di lavoro è sempre stato più alto che in altri (non tutti) paesi europei, perché la borghesia italiana, per le sue caratteristiche storiche, è stata costretta, se così si può dire, ad associare alle forme più avanzate di sfruttamento anche quelle “arretrate”, per conquistare e mantenere un posto di prima fila nello scenario borghese europeo e internazionale. Per questo, non c'è distrazione da parte delle istituzioni rispetto alla salute sul lavoro, ma una determinazione consapevole: sa quel che fa e perché lo fa. Per esempio, a Prato, su di una popolazione attiva di novantamila persone, c'è solo un ispettore del lavoro, ma non si tratta di un caso eccezionale, perché tale dato rispecchia più o meno il quadro nazionale, per altro in deterioramento, da questo punto di vista. Tra il 2007 e il 2009, l'organico dell'INAIL – l'ente che si occupa di salute e sicurezza sul lavoro – è sceso da 566 a 361 unità,

di cui 12 incomprensibilmente [non per noi, ndr] in esubero per la cieca [idem] spending review del governo Monti [... ma, tenendo conto dei tagli al personale dell'ex ENPALS e INPS] la riduzione in queste tre amministrazioni sfiora il 20%.

Lo stato assente, smantellate le funzioni ispettive, in rassegna.it , 2013-12-04

Per fortuna, diremmo se amassimo il paradosso, in aiuto al lavoro dipendente è venuta la crisi, che ha drasticamente ridotto il numero dei lavoratori sacrificati sull'altare del profitto:

I lavoratori morti dall'inizio dell'anno sono documentati in 539 persone. Ma superano i 1150 se si aggiungono i morti sulle strade e in itinere...

Infortuni morti sul lavoro negli anni del declino, rassegna.it , 2013-12-02

benché questi ultimi solo con grande difficoltà e dopo processi estenuanti vengano riconosciuti come deceduti per cause di lavoro. Cinquecentomila (e passa) cassaintegrati ogni anno, oltre seicentomila disoccupati in più (dal 2011), l'edilizia quasi ferma spiegano perché qualche centinaio di operai abbia salvato la pelle rispetto agli anni passati. Questo dato, però, in sé, non ci rallegra, anzi riduce all'essenziale quella che è l'alternativa della forza lavoro in regime capitalistico: cadere in povertà oppure crepare di lavoro, ma anche di non lavoro, come attesta l'impennata di suicidi tra lavoratori licenziati o in difficoltà economiche.

Al padronato, e ai suoi rappresentanti politici, non è mai importato molto della salute dei lavoratori; meno che mai in tempi di crisi. Non per niente, nel vertice europeo dei capi di stato e di governo del 2 ottobre, Barroso, a nome della Commissione europea, ha annunciato il lancio del piano Refit, tra l'approvazione della maggior parte dei presenti (Letta compreso). In pratica, la Commissione, partendo dal presupposto che troppe regole stanno impedendo a molti “datori di lavoro” di investire, quindi di assumere, in breve, di imprimere dinamicità all'economia, ha bloccato l'attuazione di nuove norme che regolamentino o proibiscano l'uso di sostanze cancerogene e di agenti mutageni ampiamente usati nei processi produttivi. Ai secondi si voleva estendere la stessa regolamentazione in vigore per quelli cancerogeni, ma ora la Commissione ha fermato tutto; queste, probabilmente, sono solo le prima avvisaglie di un “riconsiderazione” generale delle norme sulla sicurezza.

I sette operai cinesi hanno avuto – non richiesto – il rito ipocrita del lutto cittadino, dei pianti istituzionali, chi morirà anonimamente per cancro, chi nascerà con malformazioni non avrà nemmeno un “cenno di riscontro” per aver sacrificato la vita alla famigerata competitività.

La crisi, ancora una volta, spinge la borghesia europea a rimuovere gli ostacoli che possono intralciarne l'operato nell'arena della concorrenza economica e, in generale, dello scontro (più o meno strisciante) interimperialistico. L'euro forte deve attrarre capitale finanziario, insidiare il primato del dollaro negli scambi internazionali (e quale principale moneta di riserva), permettere di comprare a prezzi più vantaggiosi le materia prime (a cominciare dagli idrocarburi). Il rischio che un alto tasso di cambio dell'euro penalizzi le merci il cui prezzo si esprime con questa moneta deve, quindi, essere contrastato agendo sui fattori che concorrono alla formazione del profitto, tanto dal alto del capitale costante che di quello variabile, riducendo all'osso i costi superflui (per il capitale). Inutile dire che la prevenzione degli infortuni e la tutela della salute dentro e fuori il posto di lavoro rientrano tra le spese inutili, improduttive.

«La vostra crisi non la paghiamo», si grida spesso nei cortei: l'intenzione è buona, anzi, ottima, ma fino a che il proletariato non si scuoterà dal torpore in cui è sprofondato, avverrà esattamente il contrario. Non ci son mezze misure: o la nostra classe, il proletariato, politicamente attrezzata col suo partito, chiuderà una volta per tutte i conti col capitalismo oppure pagherà fino in fondo i conti di questa crisi e delle prossime che verranno.

CB

PS. Nel decreto Milleproroghe, varato a fine anno, si prevede un aumento fino a dieci volte delle multe contro il lavoro nero: bene, bravi, ma chi si incaricherà di scovarne i covi, se gli ispettori del lavoro diminuiscono di anno in anno?

Sabato, January 4, 2014