Riflessioni sulle lotte attuali e l’intervento politico

Sabato 26 ottobre 2013 abbiamo tenuto a Roma una assemblea pubblica sul tema “Lotte attuali e prospettiva rivoluzionaria”. Nel seguente articolo riportiamo il testo adoperato come riferimento durante la relazione di apertura dell’assemblea.

Introduzione

Lo scopo dell’assemblea è di ragionare sulle espressioni odierne (in particolare ma non solo) del conflitto di classe, sul rapporto tra queste e la costruzione della prospettiva rivoluzionaria, unica capace a nostro avviso di rappresentare in termini reali gli interessi generali di classe, in senso concreto e di prospettiva. Un processo visto – nelle diverse fasi della lotta di classe, in ogni passaggio, seppur difficile come quello odierno – verso la costruzione dello sbocco rivoluzionario – possibile e necessario – alla crisi capitalistica, per la presa del potere da parte proletaria, per il Socialismo (prima fase della società comunista) quale unica alternativa alla barbarie capitalista.

Per delineare la situazione entro cui vengono a snodarsi gli eventi della lotta di classe sono tre i punti da tenere in considerazione:

  1. La crisi capitalistica, le relative risposte borghesi, i processi di ristrutturazione ancora in atto nel capitalismo globale che ovviamente incidono sulle forme di sfruttamento verso il proletariato. Processi che hanno subito dal 2007 un ulteriore balzo in avanti, sotto i colpi della crisi strutturale del capitalismo che va sempre più ad avvitarsi su se stessa senza trovare soluzione.
  2. Il carattere di lungo periodo delle sconfitte di classe, accompagnate dalle profonde modificazioni intervenute nei rapporti di forza e nelle relazioni politiche e sociali fra le classi, dal rapporto immediato di sfruttamento capitale-lavoro a quello politico-generale, tutto segnatamente a favore della borghesia.
  3. Il lungo processo ideologico che ha prodotto la totale – fatta eccezione per poche individualità – rimozione dalla testa delle persone della necessità dell'alternativa politica rivoluzionaria a questa società, nell'interesse della classe proletaria, e quindi una ulteriore difficoltà di percepire un progetto politico, strategico, tattico definito in funzione di questo obbiettivo.

Ovviamente questi elementi si intrecciano l'un con l'altro. Alcune questioni verranno date per scontate mentre andremo ad analizzare sopratutto, seppur in modo non esaustivo, forme e contenuti che oggi si esprimono durante le mobilitazione di settori della classe, allargando il discorso anche a quelle forme di protesta incentrate sulle questioni ambientali e in “difesa del territorio e della salute”. Andremo a considerare i limiti e le contraddizioni che incontrano tali lotte e concentreremo particolare attenzione sugli orientamenti politici principali presenti che ne indirizzano spesso l'agire.

Il quadro di fondo

Va da sé che in questa riflessione non si può appunto astrarre dalla condizione generale entro cui le mobilitazioni di settori di classe vengono a materializzarsi. Questa condizione marca un segno prettamente negativo che pesa sulle spalle proletarie in un arco storico più che trentennale, di fronte ad un incessante offensiva borghese e a progressivi arretramenti di classe.

Ovviamente alla radice di questa condizione vi è la crisi del modo di produzione capitalistico. Dentro la crisi l'asticella delle compatibilità capitalistiche si è abbassata progressivamente e inesorabilmente. È stato messo in discussione tutto l'assetto scaturito durante fase di espansione capitalistica apertasi dopo il secondo conflitto mondiale. Fase durante la quale il proletariato, in particolare nei paesi più progrediti dal punto di vista economico, è riuscito a strappare alcune “conquiste”, sempre pagate a lacrime, sudore e sangue, perché la borghesia non dà mai nulla gratis. “Conquiste” che comunque venivano inserite in un quadro di compatibilità capitalistica, vedendo il proletariato sempre in posizione subordinata. In questa situazione si collocava l'apogeo del riformismo socialdemocratico quale politica borghese dentro la classe operaia.

Dentro la crisi tutto questo assetto è andato in frantumi. La crisi capitalistica ha ridotto progressivamente i margini di contrattazione e quindi gli spazi di azione propri del riformismo. La crisi ha segnato l'agonia prima e la morte poi delle vecchie espressioni politiche del riformismo socialdemocratico (inteso in senso lato), le quali avevano contribuito a gestire il sistema nella fase precedente, incanalando il conflitto di classe nel binario della conservazione capitalistica.

Da un certo punto di vista, paradossalmente, oggi ci appaiono oggettivamente più nitidi, nella crisi, i rapporti fra le classi. La ristrutturazione dei fattori produttivi, la revisione dei rapporti di lavoro, i nuovi termini di intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro, sono avanzati a tamburo battente. Pensiamo, per esempio, ai processi di precarizzazione che hanno investito ogni settore, con tutto ciò che ne consegue, all'intensificazione dei ritmi di lavoro volta ad ottenere una maggiore produttività, all'abbassamento del salario stesso (del suo potere di acquisto). Un rapporto di lavoro fondato sempre più sulla paura, sulla ricattabilità. E questi sono solo alcuni aspetti che ognuno di noi, ogni giorno, può toccare con mano.

Ad ogni passaggio, per imporre questa bolgia dantesca di sfruttamento, ha corrisposto per la borghesia la necessità di evitare, o comprimere, l'eventuale risposta di classe. Si è trattato di imbrigliare, depotenziare, le spinte di classe, spingendole, con le buone o le cattive, all'interno di un sistema di relazioni istituzionali, padronali, sindacali. In particolare, il sindacato è stato adoperato dalla borghesia quale garante delle compatibilità borghesi e della “pace sociale”, a garanzia della condizione di subordinazione del proletariato alla crisi capitalistica e alle sue ricette di “lacrime e sangue”.

Come ultimo aspetto di questo quadro di fondo, qui delineato per sommi capi, va rilevato anche il peso dell'attacco ideologico che la borghesia ha portato verso il proletariato allo scopo di cancellare ogni prospettiva di alternativa proletaria a questo sistema. La stessa caduta del muro di Berlino, e in generale il fallimento economico dei paesi del “socialismo reale” (in realtà del capitalismo di stato), è stata adoperata per tale scopo. L’equiparazione fallimento del “socialismo reale” eguale fallimento dell’alternativa marxista rivoluzionaria è stata adoperata al fine di consolidare l’idea dell’impossibilità di una alternativa rivoluzionaria e socialista a questo sistema.

La fine di tutti quei partiti sedicenti comunisti, che a quell'esperienza facevano riferimento, con il venir meno delle basi del riformismo socialdemocratico che sostanziava la loro politica, ha contribuito a tutto ciò e ad alimentare ulteriormente la dinamica di disgregazione e dispersione della classe.

Sulla capacità di reazione della classe ha pesato molto il ruolo avuto dal sindacato nella gestione dei processi di ristrutturazione e la funzione che questo ha svolto come pompiere delle lotte. Sui posti di lavoro, praticando la politica del “male minore” concertata con la controparte padronale, ha di fatto aperto la strada a quella dinamica di passività, di cedimenti progressivi delle posizioni ed interessi di classe. Questo si è tradotto, materialmente, passo dopo passo, in un indebolimento dei lavoratori, aprendo il varco ad ulteriori attacchi padronali.

Il sindacalismo confederale è stato totalmente interno e compartecipe, nell'ambito concertativo e corporativo, alla definizione delle linee politiche e programmatiche che regolano i rapporti di lavoro e gli inquadramenti salariali. Sostanzialmente, il sindacato ho fatto propri gli interessi padronali e borghesi nella crisi, contribuendo a ridefinire il rapporto capitale-lavoro a tutto svantaggio della classe proletaria.

Ovviamente non si è trattato semplicemente di tradimento degli interessi operai ma molto più. Si tratta, concretamente, dell'inevitabile adattamento alla situazione dello strumento sindacato istituzione, spiegabile a partire dalla sua natura. Il sindacato istituzione è infatti parte integrante dell'apparato di Stato in questa fase imperialista del capitalismo, svolge una funzione di amministratore ed interprete – presso la classe operaia – degli interessi borghesi rispetto alle esigenze che scaturiscono dalla crisi, in riferimento al piano di compravendita della forza-lavoro, dei livelli di sfruttamento che dei relativi processi di ristrutturazione. Le esigenze della salvezza dell'economia nazionale e la salvezza delle aziende hanno costituito i due capi del nodo che si è stretto intorno alla classe, al movimento dei lavoratori, chiamati a sempre più feroci sacrifici, indebolendo i livelli di risposta di classe.

Un processo, questo, ovviamente contraddittorio, non lineare, che ha visto inserirsi, negli spazi lasciati aperti dal sindacato confederale nel suo rapporto con i lavoratori, il sorgere e lo svilupparsi del “sindacalismo di base”. Questo, nella sua ultraventennale presenza sulla piazza, alla lunga ha riproposto tutti i limiti che stavano alla base della natura e funzione del sindacalismo confederale. La piattaforma “rivendicativa”, e politica, massimalista ha fatto i conti con la costante ricerca di un potere contrattuale istituzionale, unico ambito in cui la forma sindacale può espletare la sua funzione, non potendo però sottrarsi al quadro di compatibilità estremamente rigido e definito in cui si muove il terreno di mediazione politico-istituzionale quale garante degli interessi borghesi nella crisi, pena il venir meno del suo stesso ruolo. Riformismo politico, massimalismo rivendicativo e ricerca della rappresentatività sindacale sono stati gli estremi della contraddizione e degli ondeggiamenti del sindacalismo di base che hanno finito per condizionare in negativo anche le mobilitazioni dei lavoratori, spinti su un terreno sostanzialmente arretrato e perdente.

Il possibile processo di indipendenza e risposta di classe è stato ostacolato quindi da tutta una serie di fattori. Non solo, la classe ha avuto una vera e propria regressione che ha portato alla passività, allo sbando e ha contribuito a produrre confusione o vuoto politico, fino a portare settori proletari a legarsi, in posizione subordinata e sostanzialmente perdente, a settori di ceto medio, piccola borghesia in crisi, sposando risposte populiste. L'esperienza della Lega prima e del grillismo oggi stanno lì a dimostrarcelo.

Quali risposte sono state date

Ponendoci sul piano internazionale vediamo che negli anni recenti non sono mancati episodi di lotta di classe, in alcuni casi anche con forme aspre. Non possiamo però non dire che complessivamente la risposta proletaria è stata poca cosa se confrontata con il livello dell’attacco messo in campo dalla borghesia.

Detto questo, volendo spostare l’attenzione sul terreno di casa nostra, dove la nostra organizzazione si trova ad operare, bisogna dire che la risposta messa in campo dalla classe è stata piuttosto blanda. Solo qualche fiammata, episodi isolati, di breve durata, controllati o facilmente repressi. In linea generale i pochi e ristretti settori di classe che si sono mobilitati si sono mossi più in rapporto alla pesantezza dell'attacco portato dall'avversario piuttosto che per consapevolezza di avere propri interessi, contrapposti a quelli padronali. Queste lotte, per lo più, hanno preso luogo solo quando l’attacco ha raggiunto livelli estremi (per esempio chiusura di impianti o tagli ai livelli occupazionali), hanno espresso un carattere prettamente difensivo, di resistenza, quale risposta immediata agli effetti che le politiche borghesi producevano sulla condizione di lavoro e di vita. Una risposta, come si diceva, molto diversificata e frammentata, cosa che ha ostacolato non poco la realizzazione di un possibile processo di unità di classe sui propri interessi, almeno “immediati”.

Dentro questo carattere generale delle lotte, due sono i dati da mettere in rilievo per poi poter arrivare a delle conclusioni politiche, in particolare sull’agire dei rivoluzionari oggi.

  1. Il carattere episodico, incerto, fragile delle risposte messe in campo.
  2. Il carattere “vertenziale” che ha sostanziato questi momenti di lotta.

Il primo dato indica in maniera inequivocabile lo stato dei rapporti di forza reali e le difficoltà del conflitto ad emergere e strutturarsi. Il secondo dato indica come dentro l'arretramento delle posizioni di classe si faccia strada, nel migliori dei casi, un tipo di conflitto che si attesta ad ogni modo esclusivamente intorno alla difesa delle condizioni immediate di lavoro e sfruttamento.

In sintesi risposte non all'altezza del livello e dalla vastità dell'attacco portato dalla borghesia e che ad ogni modo lì dove partono non hanno capacità di esprimere in sé i passi politici necessari alla costruzione di una prospettiva rivoluzionaria.

Questa caratteristica semplicemente “vertenziale” delle lotte, diversamente declinata a seconda dei settori in movimento, ha riassunto in sé quelle spinte spontanee, immediatiste ed economiciste che non solo hanno coinvolto il mondo del lavoro, dove questo dato può essere più appariscente, ma hanno anche caratterizzato tutte quelle mobilitazioni, proteste, che si sono espresse contro alcuni effetti prodotti dal capitalismo. Stiamo parlando delle vertenze di carattere territoriale, legate alla questione ambientale e allo sfruttamento dei territori (NO TAV, NO inceneritori, no biogas, ecc ecc). Questo discorso vale anche per le mobilitazioni sui bisogni immediati (“diritto alla casa”, diritto al “reddito garantito”) o che ruotano intorno ai cosiddetti “beni comuni”.

Riferendoci a queste proteste dobbiamo constatare come forte sia l’elemento interclassista, riflesso della crisi degli strati intermedi, che influenza fortemente le caratteristiche e la prospettiva di questi movimenti di protesta, facendoli rimanere ancorati semplicemente alla specifica problematica all'origine del movimento stesso e, spesso, nel suo rapporto con le istituzioni. In questi movimenti trova ostacolo, anche per questo motivo, lo svilupparsi di una coerente posizione di classe. Ritroviamo quindi anche elementi provenienti dal proletariato, in particolare giovani, la cui presenza però è priva di una identità di classe: si pongono semplicemente al traino di una impostazione interclassista, propria da ceto medio, oltre a subire l’impostazione di realtà movimentiste che spesso si pongono alla testa di questi movimenti.

Come si diceva, anche lì dove le lotte sono espressione diretta di settori proletari rimangono fortemente limitati su un terreno prettamente economicista. Lo abbiamo toccato con mano ad esempio con la lotta dei facchini. Questa lotta ci dice come anche tentativi di mobilitazione di classe più incisivi, più decisi nel contrapporsi all'arroganza padronale in sé non vuol dire che producano un salto politico più avanzato; ovvero non innescano automaticamente un processo di maturazione politica sul terreno rivoluzionario. Questo elemento, la maturazione di una coscienza rivoluzionaria, non è spontaneo, automatico, innato in una lotta che assume anche forme più radicali.

In quella occasione i lavoratori si sono mano mano spostati verso lo strumento più facilmente a disposizione, la lotta ha trovato il suo referente nel sindacato, quale garante dei propri interessi. Ma affrontare lo scontro con lo strumento sindacale ha significato di fatto, e obbligatoriamente, incanalare alla lunga tale scontro dentro gli ambiti della classica mediazione sindacale, politico-istituzionale, dove gli interessi padronali trovano il massimo di garanzia. E questa non è una questione di semplice volontà ma è una condizione obiettiva a cui lo strumento sindacale deve riferirsi per espletare la propria funzione. Non è cosa di poco conto, il corso delle vicende ci ha dimostrato come addirittura tempi, modi ed esiti della lotta stessa siano stati influenzati dalle esigenze della centrale sindacale in quel caso dirigente.

Sostanzialmente tutto è rimasto sempre all'interno delle compatibilità del sistema. La dinamica di scontro-mediazione sindacale che si è data nella lotta, nei diversi momenti, ha riflesso il progressivo arretramento della lotta stessa fino all’accordo al tavolo negoziale, sottoscritto dallo stesso SICOBAS, con gli esiti che si conoscono.

Restando sulla vicenda dei facchini, vogliamo sottolineare che il nostro appunto non riguarda tanto la lotta in sé, che per alcuni caratteri è eccezionale nel panorama italiano, e non è rivolto contro i lavoratori che con generosità hanno partecipato, la nostra critica è diretta al ceto politico e sindacale che questa lotta l’ha diretta. La nostra critica è rivolta verso chi su questa lotta ha prodotto una teoria e una impostazione politica riproponendo il più vecchio economicismo e la solita illusione del “sindacato di classe” (1).

All'interno di questo quadro vanno poste anche quelle realtà politiche che si richiamano al cosiddetto “antagonismo sociale”. La loro base materiale è indotta spesso dai bisogni immediati che scaturiscono dalle condizioni di vita proletarie messe in discussione dalle misure capitalistiche. La forma politica è immediatamente diretta all'organizzazione intorno al bisogno, alla lotta secondo un approccio che segue la classica impostazione movimentista e radical-riformista. Ovviamente, e ciò va detto, anche in questo caso siamo di fronte ad una pluralità di situazioni e soggetti non immediatamente sovrapponibili l'uno sull'altro per caratteristiche e pratiche, ma che nella teoria dei bisogni (in voga negli anni Settanta del secolo scorso) trovano il loro riferimento. Sostanzialmente, il corpus politico che li anima ha molte assonanze con gli ultimi strascichi del vetero operaismo riadattato all'oggi (in sintesi, il percorso teorico che va dal cosiddetto “operaio massa” fino alle “moltitudini”, passando attraverso “l'operaio sociale”). Ma per noi non è solo un problema di una critica che può sembrare ideologico-politica, anche se va detto che nel vecchio operaismo la lotta sui bisogni non disdegnava di essere messa in rapporto al problema del fine ( la conquista del potere); poi, il come è un altro paio di maniche...

La loro impostazione si basa sostanzialmente sul perseguimento dei cosiddetti bisogni immediati, sulla spontaneità e sull'immediatismo. A questo si aggiunge spesso, come contorno, un fumo politico costituito semplicemente dalla riproposizione dei classici miti, propri della vecchia “autonomia” o dello stalinismo.

Aldilà delle parole agitate, formalmente iper rivoluzionarie e del quadro rivendicativo massimalista, lo scontro e la mobilitazione sono essi stessi praticati ed intesi sempre come atto dimostrativo e “forza di pressione”. Anche in questo caso, quindi, tali realtà politiche si troveranno a fare i conti con il quadro di interessi ed assetti di potere con cui vanno a relazionarsi. Il capitalizzare le forze della mobilitazione al fine del ripiegamento nella contrattazione istituzionale diviene così quasi una scelta obbligata. L'altra strada, mancando di obiettivi politici da inserire in un lavoro rivoluzionario complessivo, sarebbe quella di farsi portatori del conflitto per il conflitto, con il rischio del dissanguamento delle proprie forze nello scontro con la controparte, così come inoltre è già successo in passato.

Ciò che ci preme mettere in rilievo, dentro questo quadro un po' confuso dove si muovono varie forze politiche è che:

  1. sostanzialmente, a nostro avviso, le espressioni di classe non riescono ad emanciparsi da una logica spontaneista, economicista;
  2. le forze politiche e sindacali (che in alcuni casi si definiscono anche comuniste) non fanno altro che consolidare tra la classe “naturali” tendenze economiciste, anziché aiutarla a crescere politicamente su un piano rivoluzionario;
  3. lì dove sono presenti movimenti di protesta con una forte connotazione interclassista la loro espressione avviene intorno ad un contenuto che abbiamo definito radical-riformista, con punti di contatto da un lato con l'“antagonismo” movimentista, dall’altro con correnti più espressamente “democraticistiche”.

Certo, lo schema è un po' semplificato, ma ci permette di mettere in rilievo che tutte queste opzioni sono sostanzialmente incapaci di risolvere i problemi che ostacolano una vera indipendenza di classe e la possibilità di costruire una soluzione rivoluzionaria alla barbarie capitalista. Queste opzioni, assieme e grazie alle realtà politiche che ne sono portatrici, oscillano continuamente fra il massimalismo rivendicativo e il possibilismo della trattativa su un terreno dove le regole del gioco sono fatte ad uso e consumo della borghesia per il logoramento dell'avversario.

In questo contesto vanno inquadrate e valutate anche le recenti mobilitazioni del 18-19 ottobre. Grossomodo, queste due giornate sono in gran parte riconducibili a quella ritualità alla quale il sindacalismo di base e diverse realtà politiche dell’antagonismo extraparlamentare ci hanno abituati. Il “grande evento” che puntualmente ogni anno viene organizzato a Roma come “prima tappa” del famoso “autunno caldo”. Un “evento” che alla base non ha un reale legame con la lotta di classe.

Premesso questo, il 18 e 19 ottobre erano presenti anche alcuni settori di classe, investiti dagli effetti della crisi, come per esempio i lavoratori della logistica, o altre piccole realtà provenienti dal mondo del lavoro, e il movimento per la casa che, al di là di chi li organizza, vede la partecipazione di molti proletari in difficoltà. In generale si annunciava il tentativo di dare forza ad ogni singolo spezzone dentro la mobilitazione generale e aprire ad un processo di unificazione del fronte di lotta. Un processo, aggiungiamo noi, in realtà tutto ancora da costruire e per nulla scontato. Ma anche questo processo di unificazione, sempre auspicabile a nostro avviso, dipenderà da una pluralità di fattori di cui l'orientamento di fondo della mobilitazione e della pratica quotidiana di lotta avrà il suo peso e quindi dal come saprà affrontare i problemi che gli si pongono davanti (2).

Ogni movimento di lotta della classe deve fare inevitabilmente i conti con diversi problemi. Innanzitutto che, vista la fase di crisi strutturale del capitalismo, gli interessi proletari si scontrano immediatamente con le esigenze di sopravvivenza del capitalismo. Ovviamente, ciò non vuol dire che la lotta economica è immediatamente lotta politica-rivoluzionaria, così come potrebbero sostenere realtà di stampo operaista, movimentista o economicista. Anzi, bisogna dire che nel momento in cui si sviluppano realtà di lotta rivendicativa, questa lotta mostrerà tutti i suoi limiti nel momento in cui andrà a fare i conti con gli interessi del capitale in crisi e il sistema di dominio borghese, una condizione obiettiva che la lotta proletaria si troverà ad affrontare.

Il secondo problema è di natura ancor più strettamente politica e riguarda la direzione che viene data ai possibili momenti di lotta dalle realtà politiche che intervengono. Nello specifico, riversare la forza accumulata in termini “contrattualistici “, vertenziali, dentro al quadro che abbiamo sopra detto, senza porsi inoltre il problema di far crescere tra i proletari la coscienza di una lotta politica rivoluzionaria, va ulteriormente a condizionare anche forme e contenuti delle espressioni di classe. Inoltre, è ovvio che le lotte si possono vincere o perdere, ma affermare, come qualcuno fa, che la trattativa politico-istituzionale a questo stadio di sviluppo del movimento è “un atto dovuto”, significa non capire le implicazioni che questa cosa comporta. Anche questo condizionamento si riversa infatti negativamente sulle prospettive di avanzamento politico di componenti della classe, rafforzando tra i lavoratori impostazioni più arretrate e più consone a tatticismi al ribasso verso la mediazione politico-istituzionale.

Dentro quest'ottica l’intervento politico – in rapporto allo sviluppo del movimento di classe – viene visto da diverse realtà politiche che si definiscono comuniste come suddiviso in un “prima“ e un “dopo”. Una “prima fase” di intervento per far partire la lotta economica, immediata, sui bisogni, un “dopo” rivolto all'orientamento e l'organizzazione in senso rivoluzionario del proletariato. Per noi le cose stanno molto diversamente. Qui non si tratta di guardare alle espressioni del movimento di classe “dall'alto in basso” con un atteggiamento da “maestrini”. La nostra critica infatti non è diretta contro i “naturali” limiti della classe, ma contro i limiti delle realtà politiche e sindacali. Lo abbiamo detto infatti più volte: i comunisti affiancano e sostengono i proletari nelle loro lotte, questa è una banalità; anche perché queste lotte potranno riguardare gli stessi militanti rivoluzionari. Per noi semplicemente non esiste un “prima” e un “dopo”, non esiste un intervento nelle lotte distaccato dal nostro intervento politico. Ipotizzare un “prima” ed un indeterminato “dopo” porta ad un atteggiamento spontaneista, codista. Siamo coscienti di quanto sia difficile questo lavoro, ma capitolare davanti alle difficoltà, “adeguandosi” ai limiti della spontaneità, porta i comunisti ad annullarsi politicamente, verrebbe meno il nostro ruolo politico.

Si tratta di partire dalla situazione reale con tutti i suoi limiti e contraddizioni per lavorare al collegamento fra le istanze concrete di classe e la prospettiva rivoluzionaria. Si tratta di lavorare fin da subito in quest'ottica, non rimandandolo ciò nel tempo, ad un indeterminato livello raggiunto dalla lotta immediata. Si tratta a nostro avviso di rafforzare, lì dove se ne presentano le condizioni, in particolar modo soggettive, i contenuti propri dell’indipendenza politica di classe che trovano il loro cuore nel carattere anticapitalista e rivoluzionario. Si tratta quindi di partire dal concreto vissuto per trasmettere contenuti politici, iniziando da quelle soggettività più combattive che la lotta esprime. Questo avviene attraverso la costante battaglia politica contro le posizioni arretrate e contro le organizzazioni politiche e sindacali che ne sono portatrici.

Per noi insomma il problema non è semplicemente quello di costruire un “blocco sociale” o un “nuovo sindacato di classe”, come abbiamo sentito spesso vagheggiare ,ma di iniziare a lavorare fin da subito al processo di ricomposizione politica del proletariato. I rivoluzionari devono puntare a ricomporre la frantumazione del proletariato su un terreno di scontro politico contro il capitale, partendo dall'assunto che le attuali condizioni in cui si trova la classe sono imposte dal capitalismo e possono essere superate solo a condizione di superare il capitalismo stesso. Questo non solo in prospettiva ma fin da oggi, spingendo inoltre i frutti ottenuti verso l’indispensabile lavoro di costruzione e radicalmente del partito rivoluzionario della classe.

Questo è ciò che è alla base del nostro orientamento, che indirizza la nostra azione tattica e il lavoro politico concreto. Non si tratta di fare la rivoluzione ora, non siamo dei visionari siamo dei marxisti, ma di lavorare in ogni fase alla costruzione delle condizioni che ne permettano lo sviluppo. Un processo dialettico e certamente complesso – visti anche i rapporti di forza fra le classi, i caratteri generali delle espressioni di classe e lo stato dell'avanguardia rivoluzionaria – ma riteniamo che il nostro lavoro si deve sempre attestare su un contenuto politico che dia avanzamento al movimento di classe.

Questo è il punto discriminante del nostro lavoro. Respingiamo invece quelle impostazioni politiche che credono di poter stimolare ipotetiche “vertenze generali” grazie a magiche “parole d'ordine unificanti” studiate a tavolino da minoranze politiche e sindacali, da “importare” poi in modo del tutto artificioso nella classe. Una impostazione questa che non farebbero altro che riproporre il problema sotto altra forma. Non farebbero che ripresentare lo schema economicista di sviluppo del movimento proletario, accompagnato dalla vecchia illusione del “sindacato di classe. Queste ipotetiche “parole d’ordine unificanti” (come “reddito per tutti”, ecc ecc.) sostanzialmente risulterebbero non solo idealiste e velleitarie da un punto di vista concreto, ma paradossalmente per la loro attuazione… dovremmo essere già nel socialismo…

Tali impostazioni, inoltre, interpretano lo sviluppo del movimento di classe come un iter progressivo e lineare (tutto sommato gradualista) sul piano della lotta economica, fino a sboccare in un momento “x“ nella lotta politica. Ulteriore concezione idealista, perché nel reale rapporto di scontro fra le classi si astrae dalla relazione di dominio fra borghesia e proletariato che vive in ogni momento del conflitto di classe e che contribuisce a dargli un carattere non lineare. Insomma, è come se si facessero i conti senza l'oste, che è il padrone di casa: non gli puoi man mano svuotare la cantina, non pagando e sperando che questo faccia finta di nulla .

La considerazione “siamo in un sistema che dobbiamo cambiare” per avere senso deve esprimersi necessariamente verso un orientamento anticapitalista rivoluzionario. Ripetiamo, siamo ben consapevoli della situazione odierna e che, in generale, lo sviluppo del movimento di classe non sarà un percorso di acquisizione lineare ma scandito da salti politici non determinabili a priori e su cui conterà molto la presenza del partito rivoluzionario, cioè di una soggettività capace di guidare lo scontro verso l'obiettivo politico. Da questo punto di vista bisogna dire che oggi ci misuriamo con un livello della soggettività politica molto basso. Anche questo aspetto, purtroppo, è specchio dei tempi, di quanto hanno prodotto questi anni bui e controrivoluzionari.

Economicismo, immediatismo, interclassismo sono state correnti sempre presenti nel movimento operaio e di classe e contro cui vi è stata battaglia politica da parte dei rivoluzionari. Oggi queste impostazioni, per come si sono strutturate, riflettono a pieno l'arretramento di coscienza politica di quei ceti dirigenziali che si dicono rivoluzionari. Spesso si tratta di vecchio ceto politico in fase di riciclaggio, in cui ogni orizzonte della trasformazione rivoluzionaria è evaporato, e tutt'al più teorizza l'alternativa al capitalismo senza metterne in discussione le fondamenta, riallacciandosi anche a correnti pre-marxiste ed utopiste tanto in voga oggi.

Una ultima appendice a questo quadro. C'è un grande assente in tutto questo “gran movimento” che si agita: è la classe operaia. Come sempre la classe operaia, per la sua centralità nei processi di produzione capitalistici e il ruolo che storicamente ha assunto nel conflitto di classe, risulta ovviamente determinante nell’andamento delle cose. Nei momenti di alta ha tirato il movimento di classe, così come è stata la prima ad assaggiare la ristrutturazione capitalistica e il bastone del comando padronale, misure che poi si sono riversate su tutti gli altri settori di classe proletaria. Oggi ci appare ripiegata su se stessa, in una condizione di passività o di difensiva estrema, consumata dalla lotta quotidiana nella “difesa delle unità produttive”, dei posti di lavoro o, appunto, sotto il clima da caserma che si respira nei reparti di produzione. Questa mancanza, a nostro avviso, della classe operaia dal fronte della lotta non va preso con aria di sufficienza, almeno noi non la prendiamo con sufficienza. La presenza o meno della classe operaia cambia sempre le circostanze in cui viene a svolgersi la lotta di classe.

Le prospettive rivoluzionarie

Di fronte alla condizione che abbiamo appena descritto, come rivoluzionari ci sentiamo di non nascondere l’entità delle difficoltà. In parte la nostra impostazione di fondo l'abbiamo già chiarita poco sopra o in altre occasioni. Il nostro obiettivo, come ricordavamo all'inizio, è quello di lavorare alla costruzione delle condizioni politiche entro cui sia possibile la rottura rivoluzionaria, per la presa del potere politico, per il socialismo.

L'analisi della situazione, per quanto cruda possa essere, se da un punto di vista oggettivo, come dicevamo, mostra dei rapporti di classe più nitidi, dal punto di vista soggettivo ci consegna un quadro in cui vediamo la classe oscillare fra il neoriformismo più o meno radicale, le spinte economiciste o la passività, condizione oggi estremamente diffusa. Crediamo che la crisi potenzialmente potrà coagulare le risposte di classe. Potenzialmente perché dobbiamo porci fuori da ogni nesso meccanicista: peggioramento delle condizioni di vita uguale automatica risposta della classe o, peggio ancora, crisi uguale rivoluzione. Infatti, un eventuale ripresa generalizzata della lotta di classe di per sé non risolverà il problema: quale prospettiva e orientamento imboccare? E questo è un problema che attiene strettamente ai rivoluzionari, al loro ruolo rispetto al movimento di classe, al loro lavoro politico, al loro indirizzo strategico.

Parafrasando Lenin, si deve dire che far politica per dei comunisti significa intervenire nel campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione, con lo stato e il governo, il campo dei rapporti reciproci tra le classi. Ciò significa rappresentare sempre l'interesse generale del movimento di classe e la sua prospettiva di potere e alternativa socialista facendo leva sulle contraddizioni concrete che scaturiscono dal conflitto di classe, per radicare la forza del programma rivoluzionario. In concreto, vuol dire che con le nostre forze siamo interni agli eventi della lotta di classe non solo con lo scopo di rafforzare le singole lotte per come queste si danno, ma per adoperare lo spazio politico che si apre al fine di rafforzare il collegamento con la prospettiva rivoluzionaria, sopratutto lì dove si operano quei primi momenti di rottura con il quadro delle compatibilità borghesi e gli assetti di mediazione istituzionalizzati. Ciò significa quindi far crescere un orientamento anticapitalista e rivoluzionario nelle lotte e rafforzare il lavoro per gli strumenti politici di Partito; nello specifico, far maturare quel salto dialettico che porta gli elementi più combattivi ad essere avanguardia politica comunista, a legarsi al lavoro di costruzione e radicamento del Partito.

Sottolineiamo l'aspetto della “costruzione“, perché è centrale. Noi non siamo coloro che semplicemente propagandano la necessità del Socialismo ma i costruttori delle condizioni e degli strumenti politico-organizzativi di direzione rivoluzionaria, funzionali alla conquista del potere proletario, al dare impulso al processo rivoluzionario. In questo orizzonte strategico il nostro lavoro politico è inserito .

Come si vede, nella nostra impostazione non vi è il semplice obiettivo di radicalizzare le lotte, ovviamente non è che questo non ci interessi, ma, di più, noi non intendiamo ridurre il nostro ruolo semplicemente a tale obiettivo, come alcuni movimentisti si propongono di fare, nella vecchia logica del “il movimento è tutto il fine è nulla”; e tra questi c’è anche chi intende tale fine come il sedersi a qualche tavolo istituzionale dove spendere la forza delle mobilitazioni quale forma di pressione per l'apertura di un quadro di trattative sui temi del “movimento”.

Ripetiamo, il nostro punto di vista deve essere quello di rappresentare gli interessi generali di classe contro la borghesia, il punto di vista complessivo e rivoluzionario in ogni fase e in ogni passaggio. E l'interesse generale di classe coincide sempre con la costruzione della sua alternativa rivoluzionaria.

È chiaro e lampante come noi oggi siamo estremamente marginali rispetto agli eventi che si producono, come il nostro lavoro di comunisti debba fare i conti con quanto sedimentato storicamente dalla sconfitta di classe, dal dominio della borghesia, dagli orientamenti e pratiche prevalenti nella lotta di classe, dalle espressioni teoriche, politiche e pratiche di quella soggettività che si definisce rivoluzionaria.

Spesso abbiamo toccato con mano come anche nel campo politico che storicamente si richiama, o si richiamava, alla Sinistra comunista queste difficoltà della fase del conflitto di classe si siano tradotte in un abbandono della prospettiva rivoluzionaria: a rincorrere la lotta per la lotta o a rinchiudersi all'interno di una rielaborazione idealista della realtà e delle categorie del marxismo rivoluzionario. Atteggiamenti opposti ma speculari che alla loro base, al di là delle motivazioni politiche immediate che hanno supportato tali scelte, esprimono un'incapacità di affrontare la fase attuale, ovvero le difficoltà legate alla sconfitta di classe, affidando a risposte politiche parziali problemi ben più complessi.

Sappiamo bene che il nostro è un lavoro complesso e difficile, che ciò che costruiamo, per mille ragioni, è continuamente messo in discussione – per la forza dell'avversario, per la nostra stessa debolezza – ma, ripetiamo, questo è l'unico lavoro possibile e necessario che qualifica un'organizzazione politica come rivoluzionaria, come fattore politico agente del conflitto di classe. Al di fuori di ciò vi è il movimento per il movimento o le sette di studiosi che nulla hanno mai contato negli eventi della lotta di classe.

Noi dobbiamo dire con realismo e con forza che alternative non esistono. Il capitalismo ha posto con forza ancora maggiore di fronte a tutti il bivio socialismo o barbarie, da qui non si scappa, non ci sono altre strade o giochetti possibili. Si tratta quindi di prendere atto di ciò, non in termini semplicemente astratti teorici ma concreti, di assumersi quindi la responsabilità di lavorare all'unica alternativa per l'umanità: il comunismo.

Grilli Enzo

(1) Per approfondimenti potete leggere “Le lotte della logistica e il nostro intervento” e “Fatti e misfatti del sindacalismo di base”, Battaglia Comunista numero 10 del 2013.

(2) Per approfondimenti: “Considerazioni sui cortei del 18 e 19 ottobre”, Battaglia Comunista numero 11-12 del 2013.

Domenica, June 29, 2014

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.