I Paesi “emergenti” nell'area sud-americana

Nei traballanti equilibri economici internazionali e con l'assillo di una più larga partecipazione agli scambi commerciali (poi entrati a loro volta in crisi sui mercati sia nazionali che internazionali), si sono negli ultimi decenni fatti avanti alcuni Paesi “emergenti” da precedenti condizioni di sfruttamento colonialista, instaurati dalle maggiori potenze capitalistiche fino alla metà del secolo scorso. Si trattò di Stati alla disperata ricerca di un posto da occupare sullo scacchiere mondiale per non essere completamente emarginati dallo strapotere delle concentrazioni imperialistiche già formatesi o in formazione sia sul terreno economico che politico.

Il fenomeno riguardò non soltanto nazioni dello spessore di Cina e India e altri Stati asiatici, ma anche di Brasile, Venezuela ed altri Paesi dell'America Latina. I quali hanno cercato di inserirsi nei processi di globalizzazione del capitalismo, di espansione commerciale internazionale e di ricerca di investimenti di capitale. Tutti, nell'ultima fase storica, comunque al centro dell'intensivo sfruttamento imperialistico, diretto e indiretto, e delle manovre che le potenze maggiori hanno svolto per la salvaguardia dei propri interessi, creando guerre locali, embarghi, delocalizzazioni, boom economici regionali seguiti da crolli improvvisi, disastri ecologici e sociali.

Con la Conferenza di Bandung (1955) aveva preso il via la costituzione di un blocco dei Paesi non allineati; seguirà la federazione dei paesi produttori di petrolio, l'Opec (1960); la nascita del G-77 (1964); la Conferenza tricontinentale tenuta a L'Avana (1966) e la dichiarazione del New International Economic Order in seno all'Assemblea delle Nazioni Unite (1974). Attraverso i primi accordi con altre grandi potenze emergenti quali India, Cina e Sudafrica, si mirava a costituire un blocco “contro-egemonico” prevalentemente imperniato su basi economiche più che “politico-ideologiche”. Così l'Alba (Alternativa Bolivariana para las Americas) nascerà attorno a un progetto – sostenuto principalmente dal Venezuela e comprendente Bolivia, Cuba, Nicaragua, Venezuela, Repubblica Dominicana, Ecuador, San Vicente, Granadinas, Antigua e Barbud – di opposizione all'Alca, l'area di libero commercio continentale che, dai tempi di George W. Bush, gli Usa avevano progettato per un mercato comune esteso dall’Alaska alla Terra del Fuoco, riaffermando così la propria egemonia anche politica. Formalmente la decisione di costituzione dell’Alba fu presa al Quarto Vertice delle Americhe (Mar del Plata, Argentina – 4/5 novembre 2005), presenti 34 Stati americani, esclusa Cuba. Nei confronti delle spinte anti Usa, la posizione del Brasile (Presidente Lula) apparve però subito più diplomatica.

L'acronimo BRIC fu creato nel 2001, come un semplice artificio di marketing, dall'economista Jim O'Neil della Goldman Sachs. per indicare l'emergere di nuove potenze quali – soprattutto – Brasile, Russia, India, Cina.

I BRIC si sono inizialmente proposti, assieme ad altri paesi (Indonesia, Messico, Turchia, Sudafrica) quali aspiranti poli geopolitici alternativi agli Stati Uniti e all'Europa, in particolar modo dalla fine della guerra fredda tra i due massimi centri imperialistici americano e russo; quando cioè si aprirono possibilità di un maggior sviluppo capitalistico per Paesi fino allora dominati dagli interessi (e dalla oppressione politica ed economica) dei due massimi imperialismi fra loro in aspra contesa. I successi iniziali portarono, nel 2003, la Goldman Sachs a formulare la previsione secondo la quale le economie dei paesi del BRIC si sarebbero imposte nel corso di qualche decennio, superando addirittura paesi industrializzati come Regno Unito, Germania e Giappone. Questo quando gli economisti brancolavano (e lo fanno tuttora…) attorno alle “cause” della crisi in atto e quindi assai poco credibili nei loro pronostici.

Nella economia capitalistica mondiale i paesi del BRIC hanno ad ogni modo aumentato in pochi anni il loro peso passando dall'8% al 14,4% nel 2009. Più in generale, i circa 50 paesi che oggi vengono definiti “emergenti” (o, fino a ieri, “in rapida crescita”) sull'intero pianeta, rappresentano all'incirca il 50% della ricchezza mondiale; occupano il 28% della superficie del pianeta con il 44% della popolazione mondiale. Ne fanno parte, fra gli altri, anche Vietnam, Nigeria, Indonesia, Ghana, Quatar, Malaysia.

Tutti i paesi in fase di sviluppo capitalistico, dopo periodi più o meno lunghi di arretratezza rispetto ad altri, si sono trovati sempre più stretti nel quadro delle compatibilità del capitalismo stesso, nella illusione pressoché comune che con il ricorso a una iniziale nazionalizzazione di alcuni settori della propria economia si potesse non soltanto recuperare posizioni ma anche uscire dai più stretti vincoli del mercato internazionale. Anche se ad esso ci si doveva poi adeguare ritornando a privatizzare alcune imprese industriali e così “liberalizzando” gli interventi (e le scorrerie) del capitale internazionale. Tenendo anche conto della stretta sorveglianza esercitata dalla attuale maggiore potenza imperialistica, gli Usa, poiché – come diceva Kissinger – “la irresponsabilità della popolazione (e dei Governi – ndr) va sorvegliata”.

Precedentemente, negli anni '90, la bancarotta dei modelli economici condizionati dal Washington consensus e dai suoi principi (a base di liberalizzazioni, privatizzazioni e riduzioni della spesa pubblica, tutte misure necessarie per ottenere prestiti dal FMI) aveva portato a livelli difficilmente controllabili il malcontento delle masse, con le disuguaglianze sociali che avevano raggiunto limiti pericolosi per l'ordine costituito.

Lo sviluppo capitalistico “nazionale”, anche se non pienamente lanciato verso i desiderati traguardi, con la sua obbligata accumulazione di ricchezza a un polo della società, non poteva comunque che produrre miseria nella stragrande maggioranza proletaria della popolazione, qua è là persino ricalcando i complessi rapporti sociali preesistenti. Questo con il completarsi di una ormai generale mercificazione della forza-lavoro e con una organizzazione della produzione completamente sottoposta al dominio del capitale che aveva via via trasformato in merce ogni bene, compresi quelli naturali. Sottoponendo gli scambi mercantili alle medesime condizioni che si stabilivano a livello mondiale.

Gli aumenti del debito con l'estero rischiavano di strangolare le economie e i governi dei vari paesi (in questo caso latino-americani) e rendevano inevitabile l’avvio di alcune ristrutturazioni, in parte richieste dallo stesso FMI e dalla Banca mondiale. L’uno e l’altra sollecitati da capitali stranieri in cerca di nuovi terreni di caccia. Si aprivano perciò le porte al diffondersi di una strategia dello sviluppo industriale-commerciale, inserita nelle tendenze già in atto nel sistema capitalistico globale.

Il ricorso alle nazionalizzazioni si era reso indispensabile come necessaria spinta per un rilancio di alcuni settori di particolare importanza, ed altrettanto lo era la legittimazione di uno Stato forte che si imponeva quale fondamento per un conseguimento positivo tanto delle manovre economico nazionali quanto di una migliore stabilizzazione del “contesto sociale e politico” in cui muoversi ed operare. Alcune misure anche di tipo sociale dovevano essere “progressiste” nell'unico significato che questo termine ha per il capitalismo: influire innanzitutto sulla crescita economica e sul consolidamento del modo e dei rapporti di produzione che dominano il mondo. Misure “politiche”, a quel punto anche urgenti, erano quelle riconducibili ad una espansione della cittadinanza sociale, ad una più “coerente” (per gli interessi del capitale) legislazione sul lavoro con la presenza e il “contributo” di pertinenti organizzazioni sindacali. (La “cittadinanza sociale” fa parte della concezione borghese del cittadino; tutta la popolazione ne farebbe parte in quanto insieme di persone fisiche astrattamente considerate al di fuori delle loro condizioni di classe, borghesia e proletariato. Ad esse lo Stato riconosce formalmente pari diritti civili e politici, ai quali si aggiungerebbero “diritti sociali” propri di quel welfare state che oggi viene dichiarato in fase di smobilitazione…)

L’ideologia nazional-statale faceva da cornice con il corollario successivo di tentativi rivolti ad un rivitalizzato concetto della democrazia politica borghese e della sovranità popolare da presentare alle masse per “addomesticarle” ai bisogni del capitale. Facendo loro accettare l'ideologia riformista (pur sempre conservatrice) e abbellendo la rappresentazione di una “sinistra” dal volto nuovo per renderla benvista anche alla piccola e media borghesia. L'importante era convogliare quanta più gente possibile alle urne elettorali, distogliendola da incontrollabili desideri e progetti di lotta armata che crescevano in alcuni gruppi, non tutti estranei ad interessate manovre e influenze esterne. Inoltre cercando di superare una situazione di caos economico e sociale che il capitale stesso (sia nazionale che internazionale) non trovava più “conveniente” man mano che la sua crisi avanzava. Addirittura pericolosa se non si introduceva qualche generica correzione.

Le aree di un capitalismo che si presentava come “arretrato” andavano a quel punto “aggiornate”. Un “riassestamento” che, appunto determinato dalle spinte provenienti dai processi della mondializzazione, subiva tutti gli effetti che quelle medesime spinte procuravano ai livelli nazionali e internazionali. Fra cui la formazione di una forza lavoro più qualificata ed una accentuata precarizzazione del lavoro e quindi del salario.

L'accumulazione per l'accumulazione di plusvalore, obiettivo primario per il capitalismo che in esso ripone il proprio vitale sviluppo-conservazione, andava oltre i confini nazionali e “ispirava” i vari progetti in attuazione (Unasur, Banco del Sur, accordi interregionali per infrastrutture e fabbisogni energetici, ecc.). Inevitabilmente, lo sviluppo del mercato in ambito intercontinentale richiedeva opportune e formali modifiche anche del quadro politico e dei suoi processi formativi, egemonizzati dalla borghesia sia locale che internazionale e dai rispettivi centri imperialistici, direttamente operanti in precedenti momenti storici ed ora presenti dietro le quinte.

I più fortunati paesi che si trovavano in possesso di materie prime, in particolare di tipo energetico e quindi in condizioni più favorevoli per le loro manovre di “crescita autonoma”, puntarono successivamente le proprie carte strategiche (e i loro capitali) nel tentativo di rompere la stretta subordinazione dalle esportazioni di sole materie prime. Questo mercato dava loro notevoli vantaggi in partenza, ma meglio ancora sarebbe stato il riuscire ad ottenere migliori condizioni di reciproca dipendenza e altre quote di plusvalore inserendosi nel globalizzato mercato continentale ed intercontinentale dei prodotti industriali. Furono sviluppati processi di industrializzazione forzata per una diversificazione economica e con alcune intrusioni persino nel mercato finanziario. Questo inserimento negli “affari” più generali del capitalismo internazionale offriva una concreta – anche se non facile – possibilità di ampliare quantitativamente, su posizioni di maggiore forza, una parte delle stesse rendite petrolifere strappandone una quota più rilevante alle grandi compagnie. Questo, quindi, oltre al rastrellamento di profitti provenienti da uno sviluppo della produzione industriale nazionale rendendola internazionalmente competitiva. Naturalmente cercando pure di mettere un ordine, adeguato ai nuovi compiti, nei servizi bancari, nel commercio e, per alcuni paesi, anche nel turismo.

L’emergenza sociale, aggravandosi di giorno in giorno, richiedeva un intervento urgente: la questione non era più procrastinabile nel tempo a causa dei pericoli che stavano maturando al seguito di gravi ritardi e interessate degenerazioni.

Le operazioni politiche che seguirono, specie nei Paesi dell'area sudamericana, trovavano possibilità di attuazione proprio in situazioni economiche di avanzato dissesto, le quali davano la opportunità di trascinare dietro di sé le masse indigene illuse da programmi riformistici che promettevano loro un miglioramento delle condizioni, a volte addirittura bestiali, in cui erano costrette a vivere.

Va subito detto che in questo campo di intervento “riformatore” vi sono stati indubbiamente, negli ultimi tempi, dei “progressi” soprattutto se si considerano le basse condizioni di partenza. In queste operazioni, direttamente o indirettamente, sono state però principalmente favorite le locali borghesie fattesi improvvisamente progressiste, indirizzando verso minimi “programmi sociali” una parte dei redditi e delle rendite di cui quelle medesime borghesie hanno continuato ad appropriarsi. Non fosse altro che per allontanare il pericolo che venisse messa in discussione non soltanto una piccola parte delle loro ricchezze bensì l'intero malloppo già in loro possesso e quotidianamente ingrandito. A spese, come da sempre avviene, del proletariato sia del loro paese che del mondo intero.

Non è infatti diminuito il numero dei ceti borghesi che hanno aumentano i loro “attivi” specie finanziari (con le Borse a gonfie vele, almeno fino a poco tempo fa) mentre l'assetto capitalistico dei paesi ha continuato ad apparire solido e relativamente florido. Particolarmente questo è avvenuto in Brasile e in Venezuela, dove un Chavez ha nazionalizzato molte imprese e società lasciando il settore privato in piena efficienza mentre a livello statale la burocratizzazione, la corruzione e il clientelismo hanno continuato a prosperare.

In definitiva, si è assistito ad un tentativo di “ringiovanimento (almeno di qualche anno… – ndr) del capitalismo per renderlo più umano” e per farlo apparire meno sfruttatore e meno legato alla logica del massimo profitto. Così, forse, il capitalismo potrebbe “diventare obsoleto” lasciando spazio per la costruzione di una “società socialista”: sono questi i pensieri di Marta Harnecher, ex consigliere del governo venezuelano di Chavez. Sia chiaro: sempre comprendendo in questa “nuova dimensione socialista” (a volte persino “umanistica”!) la presenza, ritenuta fondamentale, della economia di mercato rafforzata dalla realtà stessa del capitalismo globalizzato, con le opportune statalizzazioni o privatizzazioni (secondo le convenienze del momento…).

Soffermiamoci sugli antefatti. L’Alalc (Associazione latino-americana di libero scambio) aveva fatto seguito alla sottoscrizione del Trattato di Montevideo (1960); nel 1969 veniva fondato il Gruppo andino col Trattato di Cartagena. Fu un primo tentativo di mercato comune centro-americano (almeno in prospettiva) ma tutto si arenò agli inizi degli anni ’80. Con gli anni ’90 si tenteranno nuove iniziative tutte rivolte ad un miglioramento della competitività del mercato sud-americano nei confronti di quello internazionale.

Ed è guardando al passato – nell'America latina durante gli anni ’80 e particolarmente in Argentina, Perù e Brasile – che già si vedevano realizzate numerose privatizzazioni, anche se piuttosto frammentarie nel confronto con quelle realizzate in Cile dopo la caduta di Allende. La tendenza si allargava negli anni ‘90 a cominciare dall'Argentina, dove Carlos Menem portava avanti un vasto programma di privatizzazioni facendo la gioia di numerosi speculatori. Questi settori privati, legati al dollaro, hanno dovuto però fare i conti con la competizione mercantile internazionale, dove operavano tecnologie avanzate; non altrettanto per quella parte del settore sempre privato ma controllato dai vecchi monopoli statali, soggetto alla concorrenza in misura molto minore e così ottenendo maggiori profitti.

Lo stesso, più o meno, si è verificato in Perù con il programma di Alberto Fujimori, mentre in Brasile le privatizzazioni si sono ampliate solo verso la fine degli anni '90 con grossi problemi fiscali e un insieme di interessi clientelari di forte spessore.

L’accordo di libero scambio nordamericano (Nafta) fu lanciato nel gennaio 1994 dagli Usa; costituiva il primo passo dell’Iniziativa per le Americhe del presidente Bush, il cui obiettivo era l’integrazione di fatto, per non dire l’assorbimento, delle vicine economie in quella egemone nordamericana, creando un’ampia zona continentale di libero scambio. Il Vertice delle Americhe (dicembre 1994 – presidenza Clinton) riuniva 33 capi di Stato e di governo americani per formare entro il 2005 il più grande mercato del mondo a libero scambio, con 850 milioni di consumatori. Il Congresso americano però lo ostacolerà mentre veniva avanti, in contrapposizione, la costruzione del Mercosur o Mercado Común del Sur, guidata dal Brasile. Questa organizzazione prese vita col trattato commerciale bilaterale firmato da Argentina e Brasile nel 1986 e ampliato nel 1990; dal gennaio 2005 sarà una zona di libero scambio che, seppure parziale, darà un certo impulso al Patto andino con una unione doganale a 4 (Bolivia, Colombia, Venezuela ed Ecuador).

Gli obiettivi erano sempre rivolti alla realizzazione di un mercato unico attraverso la riduzione dei dazi doganali, l'adozione di politiche commerciali comuni, il rafforzamento della posizione internazionale dei principali Stati membri. La manovra, vista con interesse da molti ambienti economici e politici internazionali, aveva il chiaro scopo di creare, nell'area latino-americana, una integrazione regionale attorno ad un “sogno” politico ed economico che recuperava spunti ideologici e pratici cari a una certa ideologia liberale; una illusione che si disperde giorno dopo giorno fra le contraddizioni che sconvolgono l'economia capitalistica mondiale e i suoi processi obbligati di globalizzazione.

L'insuccesso del Mercosur, quale esperimento latino-americano di integrazione regionale (con il mito politico di una sua omogeneità sociale), trascinerà con sé un’altra illusione liberale, quella del regionalismo aperto, dissoltasi fra i marosi in cui si sta dibattendo l'economia capitalistica mondiale alle prese con i dissesti finanziari conseguente alla crisi della caduta tendenziale dei saggi di profitto nei settori industriali. Al Mercosur ha fatto seguito un “prolungamento diplomatico” nella zona di libero scambio dell'America del Sud (ALCSA) nel tentativo di opporsi al progetto geopolitico statunitense della ZLEA (il progetto della creazione della Zona di Libero Scambio delle Americhe) che costituirebbe un colpo basso all'influenza internazionale della diplomazia brasiliana. Altri progetti, come quello del Corridor afrosudamericasie, strutturato attorno al Bloc BAIC (Brasile – Sudafrica – India – Cina), si prefiggono la collocazione del Brasile in una posizione e funzione di “ombelico diplomatico” e testa di ponte tra l'Atlantico, il Pacifico e l'Asia.

Lo sforzo degli ultimi anni è stato poi quello di dare un corpo istituzionale all'integrazione dei Paesi latino-americani con la CELAC (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños). A questo organismo intergovernativo aderiscono 33 Paesi situati a sud del Rìo Bravo, dal Messico fino all'Argentina, esclusi gli U.S.A. e inclusa Cuba. Sarebbero i primi passi verso la costituzione di una sola Patria grande comprendente i paesi della America Latina e politicamente ed economicamente indipendente dagli Usa. E’ la continuazione del “pensiero” dei vari Augusto Sandino, Simón Bolívar e José Mart: unica modifica formale sarebbe la prospettiva di una sua realizzazione con la pseudo etichetta di “società socialista”.

Nel presente contesto mondiale di crisi economico-finanziaria dilagante, si andrà facendo particolarmente difficile – per quella indispensabile “pace sociale” sulla quale si basa la continuità della società borghese e del capitalismo – la situazione presente proprio nei principali paesi dell'America del Sud. Inoltre, col trascorrere del tempo, e col movimentarsi sia economico che politico del “globale quadro” stretto nella cornice dei rapporti capitalistici dominanti, sono venuti alla superficie una concatenazione di effetti che i vari interventi governativi avevano più che altro esasperato. Attenzione: parliamo di effetti negativi, anzi drammatici, riguardanti la situazione sociale e le condizioni di vita più che miserabili di milioni e milioni di essere umani; non furono così valutati ed anzi ritenuti positivi – almeno per un certo periodo – quegli altri “effetti” profittevoli per il capitale nazionale e internazionale ai quali, significativamente, andava il gradimento dei mercati finanziari. Particolarmente attenti a raccogliere denaro a New York (prestiti a basso tasso) per poi investirlo con alti rendimenti sui mercati di materie prime, azioni e monete nei “paesi emergenti” dell’America Latina, Asia ed Europa dell’Est (fenomeno del carry trade). Flussi di migliaia di miliardi di dollari, non solo in investimenti diretti ma anche di portafoglio.

Le conseguenze furono poco positive sia per le disuguaglianze economico-sociali sia per l'utilizzo irrazionale di risorse naturali esauribili e il persistere di devastazioni ambientali. La crescita produttiva di merci e della relativa “ricchezza” che ad essa si è accompagnata, ha portato qualche miglioramento nelle spesso disperate condizioni di vita delle grandi masse, ma a rafforzarsi sono state particolarmente le classi medie assorbendo una parte maggiore di “reddito”. In proporzioni minori lo stesso è avvenuto in alcune fasce di proletariato impiegato in imprese private e statali oltre che nella pubblica amministrazione. Vi è stato anche un orientamento della spesa pubblica, pur sempre insufficiente, verso alcune politiche sociali e di tipo assistenziale.; tutto questo, naturalmente, finché la crisi mondiale non ha cominciato a diffondersi anche nei paesi cosiddetti emergenti.

Ritornando ad approfondire, seppure a grandi linee, lo sviluppo che in generale ha caratterizzato i paesi dell’America Latina, ci riserviamo una più ampia trattazione, in un prossimo articolo, riguardante i paesi al di fuori dell’area continentale americana, come Russia, Cina e India, dove specie nei due ultimi Stati inciderà molto il basso costo della forza-lavoro.

Una maggiore esportazione di merci diversificate (questione vitale per il modo di produzione capitalistico) e quindi una maggiore integrazione nel quadro internazionale dell’economia dominante era diventata indispensabile. Le risorse di base per uno sviluppo industriale (materie prime, prodotti minerari o agricoli) non mancavano alla maggior parte dei paesi latino-americani, anche se per decenni l’industria si limitò a fornire solo prodotti soprattutto di sopravvivenza per il consumo locale.

Buona parte del sottosuolo sudamericano è ricco di metalli quali zinco, piombo, nichel, platino, cadmio, mercurio, uranio. In Brasile sono notevoli le riserve di ferro, esportato ai primi posti col caffè e la soia. A sua volta il Venezuela ha riserve di ferro per oltre 2 miliardi di tonnellate; il Messico e in parte il Cile sono grandi produttori di minerale di ferro. Scarso il carbone ma abbondanti gli idrocarburi, specie petrolio; il Messico sta oggi attraversando qualche difficoltà, con l’esaurimento di alcuni giacimenti.

Per quanto riguarda il petrolio, il Venezuela è stato tra i fondatori dell’Opec ed è primo produttore del continente e terzo del mondo. L’Argentina, che ha sofferto una notevole instabilità politica, guarda anche alle sue riserve di gas nella Patagonia. Infine, la produzione idroelettrica ha enormi possibilità grazie ai 3 grandi sistemi fluviali dell’America del Sud, anche se notevoli sono le distanze dagli impianti di produzione ai luoghi di consumo.

Il mercato degli idrocarburi coinvolge tutta l'area del Sudamerica, comprendendovi paesi esportatori e paesi importatori. Brasile e Argentina importano gas dalla Bolivia mentre il Venezuela esporta petrolio a prezzo calmierato anche verso gli Stati Uniti (nonostante dichiarazioni e azioni roboanti di quello che si atteggia come il principale avversario degli Usa).

Intanto, un paese come il Cile non stava certo a guardare questi poteri energetici in movimento da parte degli Stati che lo circondano, formalmente legati alcuni fra loro da rapporti di “fratellanza”, e ha avviato tentativi di sviluppo dell'energia idroelettrica e nucleare per proprio conto. E nel timore dell’affermarsi di un eccessivo predominio (come quello venezuelano), altri paesi – Brasile in primis – cercano possibili giacimenti di petrolio al largo delle coste. E a proposito di una sbandierata fratellanza fra gli Stati latino-americani ammantati di pseudo “socialismo”, vanno ricordati i ricorsi alla Corte Internazionale di giustizia dell'Aja per risolvere i contenziosi sulla delimitazione delle frontiere o presunte violazioni dei limiti di confine nella costruzione di fabbriche (contendendosi gli investimenti di multinazionali oppure per rivendicazioni sulla sovranità di alcune isole caraibiche). E' poi significativo il fatto che quando il prezzo di materie prime, quali soprattutto gli idrocarburi, cominciò a perdere punti, il Pil degli Stati governati da partiti o coalizioni di centro-sinistra nell'America Latina ha registrato una inversione di tendenza. In seguito, rallentando un consistente afflusso di capitali esteri per investimenti nel settore produttivo di merci, i Governi si sono visti costretti a puntare di nuovo tutto su una intensificazione dello sfruttamento delle stesse risorse idrocarburifere e petrolifere del paese (se questo le possedeva). La quantità delle estrazioni doveva compensare i prezzi inferiori stabilitisi sul mercato; altrettanto dicasi per la rincorsa ad un aumento delle tasse e ad un pur necessario contenimento dei profitti delle compagnie petrolifere straniere.

Nella Grande Depressione del 1930 i poteri politici dominanti nell’America Latina avevano già tentato di intervenire nell’economia, in aggiunta all’esportazione di materie prime, con produzioni più che altro rivolte ai “bisogni” della classe borghese e dei suoi strati maggiormente privilegiati. Ora si imponeva nuovamente il tentativo di uno sviluppo del settore manifatturiero (industrializzazione) per il contenimento delle importazioni di beni che si potevano fabbricare in loco anche con bassa intensità di capitale e di attrezzatura tecnologica. Si intensificò quindi la produzione nazionale non più nel solo settore alimentare ma pure in quello cotoniero e laniero, dei mobili, del cuoio e pelle e altri manufatti. In seguito, con un aumento dei consumi popolari e in parte anche incentivandoli, si ampliò il mercato interno; quindi comincerà a svilupparsi la produzione di beni strumentali semplici, poi di prodotti semilavorati e quindi dell’industria chimica e di quella pesante. In alcuni Stati, come il Brasile, anche della siderurgia.

La competitività si rendeva necessaria anche attraverso l’apertura ad investimenti stranieri e con l’acquisizione di migliori tecnologie; la conseguenza è stata quella di fenomeni di monopolizzazione da parte di grandi imprese, filiali di società straniere in grado non solo di sfruttare il basso costo del lavoro ma anche di usare tecnologie avanzate con alta intensità di capitale.

Intanto, a causa delle crisi petrolifere, i paesi dell’America Latina furono costretti ad accumulare deficit statali (dopo aver consumato i petrodollari accumulati): lo “sviluppo a credito” portò presto il “servizio del debito” a limiti insopportabili. I governi (gruppo degli 8) richiesero nelle conferenze di Quito, gennaio 1984, e di Cartagena, giugno 1984, un alleggerimento dei propri debiti attraverso una riduzione dei tassi di interesse e rimborsi dilazionati. Altre “proposte” (piano Baker, ottobre 1985 e piano Brady, gennaio 1989) non ottennero risultati: dopo aver fatto nascere un mercato interno inizialmente tramite l’importazione di manufatti dall’estero, ora bisognava adattarsi – producendo “in proprio” – alle condizioni del mercato, sia finanziario che commerciale, e adeguarsi ai prezzi competitivi del mercato globale. Se poi le imprese statali sono in deficit, si ricorre alle privatizzazioni; porte aperte agli investimenti stranieri, severo controllo della spesa pubblica.

Potenti oligarchie fondiarie ed affaristiche camarille avevano per secoli esercitato nel subcontinente americano uno strapotere economicamente soffocante e politicamente tirannico; era necessario renderlo formalmente meno opprimente.

Alcuni paesi del Sud America hanno cominciato ad introdurre forme di governo più assimilabili a quelle democratico-borghesi in vigore nei maggiori Stati occidentali. Non si è trattato di un ravvedimento improvviso della locale borghesia dominante bensì della necessità di affrontare una serie di problemi che rischiavano di strangolare l'esistenza stessa delle caste dominanti, dei loro privilegi e delle loro rendite di posizione. Con in più un groviglio di controproducenti debolezze strutturali, zone di sottosviluppo in preda alla più nera miseria, squilibri territoriali e disparità sociali pericolosamente esplosive. Inoltre, la stessa borghesia cominciava a mostrarsi insofferente di fronte alla oppressione economico-finanziaria esercitata dall'imperialismo statunitense.

Lo stato delle finanze pubbliche nei principali Stati dell'America latina rischiava ormai il collasso e reclamava interventi non più dilazionabili. Il ricorso ad una retorica nazional-progressista e ad un pragmatismo politico con sfumature di tipo socialdemocratico, ha spinto verso la fine del secolo scorso sulla scena sud-americana il brasiliano Lula, l'argentino Kirchner, la cilena Bachelet. In una posizione più arretrata si trovarono Messico e Colombia, assieme ad altri paesi centro-americani dove le rispettive politiche economiche si indirizzano tuttavia verso una comune tendenza neoliberista, al contrario del prevalere delle tendenze stataliste e fortemente dirigistiche che si affermavano in Venezuela, Equador e Bolivia.

Sotto le spinte, e gli effetti, provenienti dai processi di riassestamento della globalizzazione capitalistica, limitandoci all’area dell’America Latina, si può pure osservare come la maggiore “radicalità” dimostrata nel passato dai governi di Cuba (Fidel Castro) e del Cile (Salvador Allende) non si è ripetuta coi governi (più “moderati, pragmatici e realistici”) del Brasile nonché di Bolivia e Venezuela. Evidente è la differente situazione temporale internazionale al cui interno si sono sviluppate le differenti esperienze, comunque legate sia prima (presenza di due centri imperialistici dominanti in un apparente contrasto mistificato come “coesistenza armata” fra mondo libero al servizio “democratico” del capitale e “socialismo reale” per un miglior sviluppo del capitale stesso) che dopo (trionfo globalizzato del capitalismo in vesti liberal-democratiche). Tutti al servizio di un preciso modo di produzione e quindi agli interessi di una determinata classe, la borghesia, dominante sul proletariato.

Andrebbe presa in considerazione anche la differente gestione del potere all'interno di quegli Stati dove sono presenti fragili istituzioni che tuttavia si reggono sullo sfruttamento e la rendita proveniente da ricchi giacimenti di materie prime, e altri Stati dove le istituzioni politiche appaiono più forti e consentono una miglior gestione sia di rendite e profitti che di alcuni interventi di riforme economico-sociali.

Della massima importanza nelle economie emergenti è stata poi la funzione esercitata dal fenomeno di un forte incremento dell'assetto proprietario transnazionale subito dalle banche commerciali. Il tutto si è inserito nella sia pur lenta e contrastata (a seguito delle forti resistenze politiche di alcune fazioni borghesi) liberalizzazione della regolamentazione proprietaria avvenuta in Messico, Indonesia, Brasile e Sud Corea. La stessa crisi valutaria messicana con lo shock bancario nel 1994-1995 e la crisi asiatica del 1997-1998, hanno contribuito nel loro insieme a facilitare gli investimenti esteri, ad aprire maggiormente le porte alla competitività ed a nuovi assetti della proprietà bancaria e delle sue funzioni affaristiche e attività speculative.

Nei movimenti sociali più radicali cominciarono presto a svanire una dopo l'altra le illusioni di chi aveva creduto in un avvento di politiche favorevoli alle “masse popolari”, tanto nel Brasile del sindacalista Lula quanto nell'Argentina del progressista Kirchner o nel governo equadoriano di Gutiérrez, eletto anche tramite il sostegno del movimento degli Indios.

Queste “esperienze” sono oggi prossime al fallimento sotto la stretta sorveglianza di un imperialismo “globale” che se tollera “trasformazioni” lo fa unicamente per consolidare il proprio dominio trascinandosi dietro il “consenso” mistificato di milioni di diseredati, ai quali si prospetta un miglioramento delle proprie condizioni economiche e una integrazione politica. Sono però questi obiettivi del tutto irreali a fronte della obbligata esclusione che i proletari subiscono in quanto classe di individui assoggettati unicamente allo sfruttamento della loro forza-lavoro, sottoposti a squilibri economico-sociali sempre più profondi e drammatici, alle dirette dipendenze degli interessi nazionali e internazionali del capitale.

Per quanto concerne in particolare il maggiore dei paesi “in sviluppo”, il Brasile, va pure sottolineato il ruolo storicamente da esso svolto quale importante collaboratore degli Usa nel proteggere i loro interessi più importanti nel Sud America, secondo le disposizioni riguardanti la “stabilità” nella regione (bacino dei Caraibi) contenuti nella dottrina Monroe. A questo proposito, nella formazione della politica interventista americana in America Latina, è noto il ruolo dominante svolto da Rockefeller, consigliere di alto livello per l'America Latina da parte dei Presidenti americani da Roosevelt a Nixon, ai tempi vice Presidente di Ford. Gli Usa proteggevano il loro impero garantendo la “stabilità” di una parte di quello che veniva ritenuto ancora il Terzo Mondo, e ricevevano in cambio le possibilità di sfruttamento da parte del capitalismo Usa.

Ed anche per la strategia della guerra fredda, Rockefeller fu assistente speciale del Presidente Eisenhower, supervisore delle operazioni segrete della CIA all'estero, sostenendo sempre con la CIA i regimi repressivi in Brasile, Equador, Perù, Paraguay.

In conclusione, sia i progetti di costituzione di Unasur e del Banco del Sur sia gli accordi interregionali sulle infrastrutture e il fabbisogno energetico, tutti sono entrati a far parte tanto di uno sviluppo-conservazione del capitalismo nel suo complesso, quanto di una intensificazione dei processi di accumulazione capitalistica attraverso uno sviluppo del mercato sia continentale che mondiale. Si legano a queste finalità quei processi politici che in un primo tempo si concentravano su vaste nazionalizzazioni sorrette dalla presenza di uno Stato forte il quale ha dovuto ricorrere ad alcuni interventi sociali “progressisti” per assicurarsi il “consenso” e l'appoggio delle masse, proteggendo così sia il sistema capitalistico che i rapporti di produzione in vigore. Faceva da specchietto per le allodole una espansione della cittadinanza sociale, una legislazione sul lavoro con l'affermarsi di grandi organizzazioni sindacali, il tutto sorretto da forti dosi propagandistiche in funzione sia statale che nazionale.

In generale si ottengono certi tassi di crescita economica – sempre capitalisticamente parlando – a scapito di un aumento del debito estero e della diseguaglianza sociale. La spirale che si è creata ha finito col costringere, come abbiamo visto, i paesi latinoamericani ad avviare profonde ristrutturazioni economiche al fine di assecondare i programmi di aggiustamento strutturale “studiati” dal FMI e dalla Banca mondiale, col capitale straniero in agguato pronto ad allungare sui più deboli i suoi artigli. Crisi del debito pubblico, miseria e povertà, dilagare della violenza sono le sabbie mobili nelle quali sprofondano le illusioni di uno sviluppo capitalistico nazionale, presuntamene autonomo dai condizionamenti internazionali.

Le cosiddette modernizzazioni nei paesi dell'America latina si sono in definitiva dimostrate come una copia, tutt'al più meglio abbellita, di quelli che erano in parte i preesistenti e complessi rapporti sociali. Con il diffondersi inarrestabile della mercificazione della forza lavoro e del suo sfruttamento, andavano scomparendo anche in questi paesi i resti di forme vetero capitalistiche; tutta l'organizzazione del lavoro è diventata sempre più strettamente vincolata al dominio del capitale, del suo modo di produzione e distribuzione mercantile e conseguentemente delle condizioni stabilite dal mercato mondiale.

Sono state trascinate nella espansione di una formale cittadinanza politica e sociale grandi masse di individui vissuti per secoli in uno stato quasi schiavistico ed ora costretti nella condizione di “liberi” lavoratori salariati; proletari, sì, ma territorialmente sparpagliati e senza alcun radicamento di tipo organizzativo né sindacale né tanto meno politico.

Positivo può anche essere (per il formarsi di una identità di classe) il concentrarsi, via via che si affermava una standardizzata e massificata produzione mercantile, di masse operaie in luoghi e centri industriali fissi; inevitabilmente l’affermarsi di alcuni diritti di cittadinanza si è accompagnato con un certo riconoscimento anche dei diritti del lavoro e della presenza di organizzazioni sindacali. Quanto ai rilevanti problemi dipendenti da una non sempre facile integrazione razziale oltre che sociale, va rilevato come essi siano rimasti sempre presenti in molti Paesi del Sud America, dove per altro la crescita economica non ha dissolto realtà atavicamente consolidatesi e (se non di nome ma di fatto) tramandatesi al seguito delle “nuove” condizioni economiche, sociali e politiche dipendenti dallo sviluppo capitalistico “progressista”.

Uno sviluppo che imponeva (suscitando presto forti proteste indigene) la costruzione di autostrade, gli “assalti predatori” a risorse naturali e territoriali, i conflitti con le popolazioni situate in remote comunità rurali, la deforestazione in Amazzonia. In questa nuova realtà economica e sociale, lo Stato ha assunto una sua completa centralità politica, diventando più di prima il gestore-controllore dell'ordine legale, amministrativo e poliziesco necessario allo “sviluppo” del capitalismo.

Dunque, si tratterebbe di un rafforzamento politico del dominio capitalistico, tale da poter allontanare la possibilità di porre all'ordine del giorno una trasformazione rivoluzionaria del “presente stato di cose” anche nelle aree che il potere borghese intenderebbe “sviluppare” al seguito dei propri interessi e della propria sopravvivenza?

Tutt'altro, se non solo momentaneamente, poiché vanno crescendo le condizioni per quel radicale antagonismo di classe (proletariato contro borghesia) che in tutti i Paesi, dai più ai meno capitalisticamente progrediti, si va evidenziando anche in forme non più tanto… sotterranee. Fa seguito al moltiplicarsi di tutte quelle contraddizioni che alimentano e approfondiscono l'epocale crisi nella quale si sta dibattendo il capitalismo, nel momento stesso in cui si vanta della sua globale e trionfale estensione. A tal proposito, recentemente il Brasile (con Cina, Russia, India, Sud Africa) ha contribuito con 19 miliardi di dollari ad un pool di riserva valutaria (in totale 100 miliardi di dollari) in vista del pericolo di altri shock finanziari.

Tempo al tempo, sì, ma senza mai dimenticare l'urgenza della costituzione e del rafforzamento della organizzazione politica di classe che – basandosi sulla presenza e l'attività delle migliori avanguardie del proletariato di ogni paese – sappia guidare l'assalto al cielo aprendo le porte alla nuova società di uomini liberi ed eguali e chiudendole definitivamente sulle rovine del capitalismo.

Davide Casartelli
Domenica, July 6, 2014

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.