La Turchia abbatte un caccia russo

Come da copione, la dinamica del fatto è controversa. Mosca accusa Ankara di proditorio attacco, Ankara risponde che il caccia russo, dopo ripetuti avvertimenti, è rimasto nei cieli turchi violando la sovranità della Turchia, ma questo non ha nessuna importanza, il dato di fatto è che lo stesso premier turco ha dato l’ordine dell’abbattimento, innescando una crisi internazionale di enorme gravità. Perché Erdogan, dopo aver firmato uno storico accordo con Putin per la costruzione del turkish stream, che avrebbe apportato alla Turchia capitali e aumentato il suo prestigio di hub petrolifero nel Mediterraneo, ha rimesso in gioco il tutto? Perché innescare una crisi internazionale le cui prospettive sono tutte da valutare, ma che non promettono nulla di buono sul fronte degli scontri e delle tensioni imperialistiche già in atto? Abbozziamo una serie di risposte.

L’intervento militare russo in Siria ha certamente rotto alcuni equilibri, ne sta creando altri che per il governo Erdogan suonano come una minaccia al suo ruolo nell’area e, in prospettiva, rappresentano un ostacolo da rimuovere immediatamente anche, se necessario, con l’uso della forza e con il rischio di far precipitare una situazione già pericolosamente compromessa.

La Russia si è decisa ad intervenire pesantemente non certo per punire il terrorismo jihadista, colpevole della distruzione di un suo aereo nel Sinai con oltre duecento vittime civili, ma per salvare il proprio alleato Assad e per garantirsi così quella agibilità militare nel Mediterraneo che altrimenti avrebbe perso. La lotta all’IS è una scusa, il vero obiettivo è bombardare le basi militari degli avversari del suo alleato. L’area individuata è proprio quella al confine con la Turchia, abitata da popolazioni turcomanne alleate di Ankara e oppositrici del regime di Assad. Per Erdogan, i raid russi erano una sorta di sfregio in una zona che veniva considerata un'estensione del territorio turco.

La stessa zona, nelle proiezioni imperialistiche di Erdogan, era già stata proposta come “zona sicura” smilitarizzata, eventualmente adibita all’accoglimento dei profughi siriani sotto il controllo di Ankara che, in questo modo, pensava di eliminare il problema migranti e di entrarne in possesso qualora il regime del nemico Assad cadesse, sia per garantirsi una fatta di territorio siriano interessante da un punto di vista strategico ed economico, sia per tamponare sul nascere un possibile staterello curdo che gli avrebbe dato un enorme fastidio. Infatti, l'idea di "zona sicura" di Erdogan comprende (comprenderebbe) anche la sua estensione nelle zone curde, per impedire che Il PKK/PYD abbia un territorio accanto ai confini turchi, con tutte le conseguenze del caso riguardanti la lotta in Turchia.

Mentre il governo di Ankara persegue accanitamente l’obiettivo di eliminare Assad, il suo nemico numero due, Mosca è scesa in campo con l’intenzione di salvarlo a tutti i costi, guerra compresa, accanto a improbabili alleati come il resto dei paesi arabi - di cui alcuni peraltro continuano a finanziare l’IS - la Francia e gli stessi Usa, che però sulla questione hanno altri interessi e obiettivi. Una ragione in più per mettere in difficoltà Mosca e le sue operazioni militari.

In aggiunta, l’area bombardata è quella attraverso la quale passa il lucroso traffico “clandestino” di petrolio, che dalle zone petrolifere siriane conquistate dall’IS transita in territorio turco con alti vantaggi economici per i jihadisti di al Baghdadi e per l’aspirante sultano Erdogan.

Non da ultimo, i timori di Erdogan si concentrano sui recenti accordi tra Mosca e il suo nemico numero uno, l’Iran, che, dopo gli accordi nucleari con gli Usa e la relativa sospensione delle sanzioni, si appresta a giocare un ruolo determinante nell’area, più di quanto non lo abbia fatto fino ad ora.

Va da sé che gli sconfinamenti aerei c’entrano come i cavoli a merenda. Il “fattaccio” è voluto dalla Turchia per ridimensionare il ruolo e l’atteggiamento della Russia che, agli occhi di Ankara, per i motivi che abbiamo visto, rappresentano un pericolo che va rimosso anche a costo di inscenare un dramma imperialistico a livello internazionale e di rinunciare all’accordo sul Turkish Stream nonché agli altri progetti di collaborazione economica, tra i quali la costruzione di una centrale nucleare con soldi e tecnologia russi. Per Erdogan la questione dell’intervento russo e delle sue conseguenza sembra più una questione di vita o di morte e non solo una questione di priorità strategiche.

Al momento, la risposta all’abbattimento del caccia russo ha trovato una linea abbastanza morbida. Putin, che certamente non può permettersi di rinunciare al programma di salvataggio di Assad o all'assicurazione che al suo allontanamento non corrisponda la nascita di un nuovo governo ostile agli interessi di Mosca, non mollerà la presa e non si farà intimidire dalle provocazioni di Erdogan. Obama per il momento ha assunto una linea morbida, dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Nella prima dichiarazione ha preso le difese della Turchia, sostenendo che il governo di Erdogan aveva tutti i diritti di difendere il suo spazio aereo, senza peraltro intervenire sulla reale dinamica del fatto. Poi ha sostenuto la tesi in base alla quale si dovevano abbassare i toni, che la Russia è un buon alleato contro il terrorismo dell’IS, a condizione che combatta contro Assad e non contro i suoi oppositori. L’imperialismo è capace anche di queste commedie. Tutti contro L’IS che hanno contribuito a far nascere e crescere, ma in realtà ognuno per i propri interessi strategici. Gli Usa e la Francia contro Assad per eliminare la Russia dalla scena del Medio oriente, la Russia per salvare Assad e il proprio ruolo nel Mediterraneo. La Turchia contro Assad e contro la Russia per rafforzare la sua posizione anti Assad e contro l’Iran.

Per i cultori dell’allarmismo che paventano una prossima terza guerra mondiale, possiamo rispondere che una “piccola guerra mondiale” è già in atto. Gli attori imperialistici sono tutti sulla scena. Gli interessi sono evidenti, i fronti anche, benché parzialmente nascosti da posticce alleanze. Che la grave provocazione della Turchia all’imperialismo russo possa essere l’acceleratore del conflitto imperialistico internazionale è ancora presto per poterlo dire. Di certo la crisi, che si dà in via di superamento, ma che in realtà è ancora ben radicata nella struttura economica e finanziaria del capitalismo mondiale, spinge sull’acceleratore degli scontri guerreggiati come quelli in atto e quelli a venire in un prossimo futuro, certamente ancora più tragico. Non ha importanza se gli scontri di guerra guerreggiata saranno a macchia di leopardo, settore strategico per settore strategico, o più o meno generalizzati. Il capitalismo decadente non può produrre altro che crisi, disoccupazione, pauperizzazione e guerre comunque combattute, ma pur sempre con la solita “carne da macello” proletaria. E allora i casi sono due: o il proletariato internazionale riprende la smarrita strada della lotta frontale al capitalismo, oggi certamente più difficile di ieri ma non per questo meno degna di essere combattuta, oppure saremo costretti ad analizzare altri episodi come quelli che si svolgono in Siria, o in qualsiasi altra parte del globo, pur che presentino un qualche interesse alla voracità criminale di imperialismi di varia identità, con l’unico risultato di cadere vittime della loro infinita barbarie.

FD
Giovedì, November 26, 2015