Venezuela: crisi economica, crollo del prezzo del greggio e fallimento del mistificante progetto di “via al socialismo bolivariano”

Nelle strade di Caracas si sono riversati a decine di migliaia, giovani disoccupati, abitanti della favelas, studenti, frange della piccola borghesia in via di proletarizzazione. Le manifestazioni contro il governo si moltiplicano, polizia ed esercito reprimono ogni forma di rivolta e di protesta. Le repressioni hanno comportato decine di morti tra i manifestanti e centinaia di arresti tra gli oppositori. Sembrerebbe un “normale” scontro tra il potere costituito e gli oppositori che di quel potere non ne vogliono più sapere, se non ci fossero una serie di elementi che rendono la tragedia venezuelana più complessa e di difficile lettura.

Alla base della guerra civile venezuelana c'è lo scenario di una crisi economica che, in questi ultimi anni, ha travagliato anche, se non soprattutto, i paesi produttori di petrolio che su questa materia prima hanno costruito una effimera ricchezza senza pensare ad un minimo di diversificazione produttiva. Appena il petrolio è sceso di prezzo perdendo più del 50% del suo valore, per queste economie il crollo è stato inevitabile. Mentre Chavez ha cavalcato la fase degli alti prezzi del petrolio facendo del Venezuela uno dei paesi economicamente “emergenti”, Maduro ha avuto la sfortuna di dover amministrare questa seconda fase con tutti i problemi del caso.

La disoccupazione, pur rimanendo a livelli bassi, ufficialmente è attorno al 10%, tende ad aumentare, l'inflazione all' 800% falcidia i salari degli occupati e relega fuori dai consumi chi il salario non lo percepisce più o non lo ha mai percepito. Il tasso di miseria sociale è tra i più alti al mondo e le prospettive sono solo quelle di un drastico peggioramento complessivo dell'economia, di quel poco di welfare che si era costruito nel periodo d'oro della rendita petrolifera, facendo così precipitare la stragrande maggioranza della popolazione nella paura di un futuro di maggiore miseria e di incertezza sociale. “Gioie” della crisi del capitalismo, si potrebbe dire. Invece in settori politici dell'area stalino - maoista, si grida al complotto e si vuole fare quadrato in difesa del “glorioso” esperimento di socialismo bolivariano, inventato da Chavez e proseguito dal suo delfino Maduro. In questi stessi settori si grida alla controrivoluzione nello scenario venezuelano, come se, precedentemente, ci fosse stata una rivoluzione proletaria da difendere. Si grida al complotto degli Usa desiderosi di ritornare da padroni in sud America e di eliminare qualsiasi esperienza socialista nel sub continente americano. Siamo ormai al ridicolo, ma facciamo finta di niente e prendiamo in seria considerazione gli anatemi stalino-maoisti che ancora infestano il panorama politico proletario internazionale.

L'unica cosa vera è che all'imperialismo Usa non dispiacerebbe avere alla sua corte una serie di paesi che vanno dall'Honduras al Nicaragua e dall'Argentina al Brasile passando dal Venezuela. Così come è vero che all'interno dell'opposizione al governo Maduro si annidano elementi della tradizionale borghesia, imprenditori privati, commercianti e piccolo borghesi che vedono in un futuro governo delle destre lo strumento più idoneo per ritornare nelle braccia dello Zio Sam, nell'illusione di un cambiamento per loro positivo sia in termini economici che politici. Ma che tutto ciò si configuri come un complotto capitalistico contro il presunto regime socialista di Maduro fa ridere anche i polli più seriosi.

In Venezuela non c'è stata nessuna rivoluzione socialista. Chavez, da buon populista, ha dato vita ad un regime politico di tipo assolutista, ha tentato un paio di golpe militari falliti, quando finalmente è arrivato al potere ha tentato un altro golpe costituzionale che gli desse la possibilità di allungare la sua presidenza “fino a che morte non lo separi”, dando il potere al suo erede come ben si confà ad una monarchia costituzionale, a condizione che la costituzione fosse stato lui a forgiarla. Da un punto di vista economico il regime chavista non si è nemmeno posto il problema di “mimare” riforme in materia di economia che dessero la parvenza di un inizio di trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici. Tutt'altro, il potere politico che si è costruito e quello economico che gli è pervenuto dalla rendita petrolifera, gli hanno consentito di rafforzare tutte le categorie economiche capitalistiche, da quelle produttive legate alla estrazione del greggio a quelle commerciali derivanti dalla sua commercializzazione e all'utilizzo speculativo di una consistente quota parte della rendita petrolifere stessa. Il tutto confezionato in una sorta di capitalismo di stato il cui scopo era quello di continuare a usufruire della rendita petrolifera nella perpetuazione della gestione del potere politico.

In Venezuela non c'è stato nemmeno quel progresso sociale che il regime di Chavez aveva sbandierato. La lotta all'analfabetismo, alla povertà, l'eliminazione della violenza nelle grandi città, il progressivo smantellamento della terribili favelas sono rimasti sulla carta. Qualcosa è stato fatto, ma solo per continuare ad avere una base sociale tra le decine di milioni di disperati che avevano visto nel suo programma una fallace speranza, se non di salvezza, almeno di piccolo miglioramento. Programma che, in quanto mezzo strumentale alle sue rielezioni, doveva concedere le briciole della rendita petrolifera alle illusioni popolari e tutto il resto agli apparati del governo, alle smanie di arricchimento di una nuova borghesia di stato, alla speculazione più ardita in salsa finanziaria come accade , se non di più, in un qualsiasi altro paese capitalista con la differenza che ( in questi ultimi) a nessuno è venuto in mente di chiamarla “esperimento socialista”. E' bastato un drastico tonfo del prezzo del greggio perché venissero alla luce la manchevolezze del regime in termini di educazione scolastica, sanità e lotta alla povertà.

Secondo gli studi realizzati tra ottobre e dicembre 2016 dalla Caritas Venezuelana, in collaborazione con la Caritas Francese, la Commissione europea e la Confederazione svizzera, ci sono stati in Venezuela indici evidenti di malnutrizione cronica nei bambini. In certe regioni questo raggiunge livelli di crisi secondo le norme internazionali. Secondi i termini del rapporto:

Si registrano strategie di sopravvivenza pericolose e irreversibili dal punto di vista economico, sociale e biologico, e quello che è particolarmente preoccupante, è il consumo di alimenti recuperati dalla strada.

Secondo un'inchiesta realizzata nel giugno 2016 nello stato di Mirante, l'86% dei bambini ha paura di non avere di che nutrirsi, il 50% di loro riferisce di essere andato a letto con la fame dato che non c'era niente da mangiare a casa.

Da parte sua, Erika Guevara, direttrice dell'ufficio regionale per le Americhe di Amnesty International, scriveva nel giugno 2016:

L'ospedale dei bambini J.M. de los Rios a Caracas, che in altri tempi era stato la fierezza del paese come modello delle cure pediatriche in Venezuela, è oggi un simbolo tragico della crisi che si è rovesciata su questo paese dell'America latina.
La metà del gigantesco edificio sta crollando, le pareti vacillano, i pavimenti sono inondati e le camere sono talmente deteriorate che non le si usano più.
Nella metà dell'ospedale che ancora funziona, centinaia di bambini sono curati. Ma mancano tutte le medicine, le forniture mediche di base e le madri hanno già rinunciato a domandarle (“madri” inteso come suore, probabilmente).
La penuria delle risorse mediche non è che un aspetto della profonda crisi umanitaria che divora il Venezuela da tre anni.
Questa tragedia sarebbe potuta essere evitata. Il paese ha goduto per anni della prosperità che derivava da una delle maggiori riserve petrolifere del mondo.
Ma la caduta subita dal prezzo del petrolio ha messo a nudo una realtà che ghiaccia il sangue: Il governo venezuelano aveva dimenticato di investire nelle infrastrutture. Un paese che nel tempo importava di tutto, dal cibo alle medicine, non può oggi pagarsi gli antibiotici.
Le conseguenze sono state catastrofiche. Secondo l'ufficio sondaggi venezuelano Datanalisis, il paese necessita l'80% degli alimenti e medicine di cui ha bisogno. (…)
Il Venezuela presenta inoltre, uno dei tassi di omicidi più alto al mondo. I medici, di fronte a tale penuria, devono improvvisare per salvare vite umane, come se lavorassero in zona di guerra. Gli ospedali privati affrontano le stesse difficoltà per trovare medicine e forniture essenziali.
Il personale dirigente della Maternità Concepcion Palacios, la maggiore del paese, ci ha raccontato che nel primo trimestre del 2016, 101 nuovi nati sono morti, il doppio che nello stesso periodo dell'anno precedente. In questo stesso ospedali era morto da parto un centinaio di donne dall'inizio del 2016.
L'assenza di statistiche ufficiali sui decessi negli ospedali dimostra che il governo del presidente Nicolas Maduro rifiuta l'aiuto internazionale e allo stesso tempo dà la colpa di questa terrificante realtà domestica ai suoi nemici.
La Voce della fame, un reportage realizzato dal canale Telemundo e diretto dal giornalista venezuelano Fernando Giron, mostra come i bambini del Venezuela combattono nelle strade contro gli uccelli da preda per qualche osso gettato dai macellai (El Nacional, 28 febbraio 2017),
«La fame in Venezuela non è un gioco. La penuria di alimenti di base è tale che ha raggiunto limiti impensabili e i cittadini sono capaci di cadere di fatica per portare da mangiare alla tavola della famiglia» (1).

Al regime di Chavez il petrolio venezuelano ha consentito di accumulare quantità di capitale relativamente ingente per quella economia, senza però dare vita nemmeno ad uno sviluppo industriale di medio raggio. In compenso, a fronte delle briciole date al “popolino” per garantirsi il sostegno elettorale, la rendita petrolifera ha ingrassato la “nomenclatura” di stato, i quadri alti dell'esercito, banchieri, direttori di Fondi sovrani, nonché ministri dell'economia e del tesoro e speculatori di ogni risma, ma legati a doppio filo con il regime. Nel periodo che va dal 2003 al 2013 ben 180 miliardi di dollari hanno preso la strada della fuga dal Venezuela per rifugiarsi nelle pieghe della speculazione “made in Usa”. Lo scandalo delle obbligazioni strutturate che è stato alla base delle fuga di questi capitali, figlio anche lui della fraudolenta gestione della solita rendita petrolifera, è stato coperto dagli organi statali, sottratto alla magistratura competente, minimizzato agli occhi dell'opinione pubblica e derubricato ad episodio da condannare solo come devianza da parte di una piccola cricca, peraltro mai penalmente perseguita, e non come costume sociale relativo al muoversi speculativo dello stato nel suo complesso.

Per cui l'esperienza della “Via bolivariana al socialismo” è stata l'ennesima bufala che il proletariato venezuelano ha dovuto ingoiare, complici i citati ambienti del vecchio, ma sempre puzzolente stalinismo, del maoismo che, in mancanza di un qualsiasi punto di riferimento classista nella Cina di oggi, (come in quella di ieri diremmo noi), si sono buttati sul meno peggio, dimenticando che, contrabbandare per esperienza socialista la truffaldina gestione della rendita petrolifera da parte di uno stato interamente compreso all'interno delle categorie economiche capitalistiche, speculazione compresa, significa contribuire a disarmare politicamente quelle masse alle quali, invece, si dovrebbe smascherare l'inganno.

Infatti la crisi ha messo a nudo lo scenario fasullo del Venezuela. E' bastato che i facili capitali cessassero di affluire copiosi nelle casse della neoborghesia di stato perché il castello di carte miseramente crollasse, le briciole del welfare finissero e le piazze si riempissero di disperati in cerca di un futuro meno disastroso. Altro che “difesa dell'esperienza socialista”, altro che “complotto contro il governo rivoluzionario di Maduro”. A queste masse bisognerebbe denunciare l'inganno nel quale sono stati trascinati e chiarire che la rivoluzione, quella proletaria e comunista ha ben altri percorsi.

Quello che sta succedendo in questi giorni in Venezuela non ha nulla a che fare con una esperienza rivoluzionaria da esaltare o con il “socialismo” da difendere, nemmeno con la necessità minimale di difendere una democrazia borghese che non esiste. Non c'è nemmeno da fare quadrato attorno alla tanto sbandierata parola d'ordine della “riduzione della povertà”. Come abbiamo scritto in articoli precedenti (Prometeo) le briciole del welfare non solo non hanno risolto il problema della povertà ma non hanno nemmeno creato le basi per un inizio di questo percorso sociale, sia perché briciole, sia perché funzionali ai giochi elettoralistici che più di tanto non potevano offrire

In realtà siamo di fronte a una guerra civile senza esclusione di colpi tra una neoborghesia petrolifera conservatrice, che ha usato lo stato per garantirsi la continuità del potere economico e finanziario attraverso la continuità del potere politico, ma messa in discussione dalle conseguenze sociali della crisi, e una vetero borghesia che vuole a tutti costi il ricambio. La prima difende il suo potere in nome del “falso socialismo”, la seconda in nome della altrettanta falsa democrazia e della libertà, ovvero la sua, di poter gestire quello che avanza di una rendita petrolifera in netto ribasso. Entrambe si rivolgono al proletariato interno, ai lavoratori, ai disoccupati per avere quella forza d'urto in grado di portarle al potere per una, o di rimanerci per l'altra. I soliti inganni delle solite borghesie che non hanno più molte carte da giocare sul terreno della conservazione, ma che trovano anche nel campo di certe “sinistre” una stampella su cui appoggiarsi.

FD, 2 giugno 2017

(1) Le citazioni riportate sono prese da:alencontre.org

Domenica, June 4, 2017