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Home ›Due considerazioni sul G20 di Amburgo
Tutto come previsto.
Il G20, svoltosi ad Amburgo nella prima decade di luglio, non ha riservato grosse sorprese, almeno per alcune delle questioni fondamentali su cui i venti “Grandi” (briganti) del mondo dovevano esprimersi ed, eventualmente, deliberare.
Il vertice ha visto, ovviamente, la presenza del bullo planetario “The Donald”, il presidente USA, che, poco amato dai settori maggioritari della grande borghesia a stelle e strisce, deve comunque farsi interprete dei suoi interessi dentro e fuori il paese, benché lo faccia con modalità, appunto, da bullo anche con la propria gang o come un toro da rodeo in un salotto. Infatti, non c'è alcun dubbio che gli slogan con cui ha caratterizzato la propria campagna elettorale – America first, Make America great again – rappresentino la direzione seguita da tutte le amministrazioni precedenti, dato che nessun presidente ha mai inteso indebolire il ruolo di imperialismo dominante giocato dagli Stati Uniti e, sia pure con modalità diverse - persino problematiche, da un certo punto di vista – questo è l'obiettivo di Trump. Muovendosi su tale strada, è entrato però, se non in rotta di collisione con gli alleati europei, certamente in un terreno fatto di asperità quali mai finora si erano viste.
Il protezionismo e il riscaldamento climatico erano le due questioni su ci ci aspettava la divergenza più marcata non solo con l'Unione europea, ma, non da ultimo, con la Cina e con gli altri stati membri del gruppo. Così è stato. Trump ha ribadito le sue posizioni sull'una e sull'altra questione, anche se sul protezionismo la dichiarazione finale del summit ha in qualche modo riconosciuto la legittimità di eventuali misure protezionistiche prese dai governi per fronteggiare il dumping economico-sociale, cioè la concorrenza detta sleale da parte di alcune nazioni (tradotto: la Cina e altri “emergenti”). Ora, anche nell'epoca del neoliberismo e degli organismi internazionali (WTO ecc.) e degli accordi sul libero scambio, i governi non hanno mai rinunciato del tutto a una certa dose di protezionismo, ma adesso “The Donald” vuole calcare la mano, il che colpirebbe proprio i più importanti partner commerciali degli Stati Uniti. Dalle auto prodotte in Messico – con una quota significativa di capitale statunitense – all'acciaio in gran parte cinese, ma anche europeo, il “Ciuffettone” rischia di creare in giro per il mondo un bel po' di irritazione – anzi, lo sta già facendo – anche perché oggi la produzione delle merci, la cosiddetta catena del valore, ha una collocazione geografica molto più disseminata sul Pianeta di quanto non fosse solo qualche decina di anni fa. Per questo e altri motivi ancora, è molto probabile – per non dire di più – che la politica protezionistica così com'è stata prospettata in campagna elettorale, non venga messa in pratica, ma possa essere una mossa diretta a richiamare investimenti da aziende estere che, insediandosi direttamente sul suolo americano (anche grazie a incentivi di ogni specie, come per altro sta avvenendo da anni), aggirerebbero eventuali barriere protezioniste.
Anche sul clima ognuno è andato per la propria strada, nel senso che l'amministrazione americana ha confermato il ritiro dagli accordi di Parigi, rivelando al mondo una scoperta straordinaria, cioè che lo shale gas e lo shale oil sono idrocarburi ecologicamente puliti, dunque da utilizzare senza problemi. Che il capitalismo sia per natura criminogeno non è una sorpresa, ma, a volte, i suoi interpreti riescono quasi a stupirci per la faccia tosta con cui rivendicano i loro crimini: è risaputo che il procedimento del fracking con cui vengono estratti gas e petrolio ha un impatto devastante sull'ecosistema, avvelenando le falde acquifere e degradando fino all'invivibilità il territorio. Evidentemente, Trump, quella borghesia che lo appoggia con meno riserve, sono convinti che per rifare grande l'America occorra percorrere la via intrapresa dall'economia cinese alla fine degli anni Ottanta, in totale spregio dell'ambiente e della gente che ci vive, nonostante la Cina, in quest'ultimo periodo, abbia dato mano alla cosiddetta riconversione ecologica del proprio apparato produttivo e, appunto, non abbia indietreggiato sugli accordi del 2015. A questo punto, allora, la concorrenza sleale verrebbe proprio dagli USA, perché mentre i concorrenti si buttano (senza esagerare) sulla “economia verde”, quelli giocano sporco – è il caso di dirlo - liberandosi dei costi dovuti alle norme ambientali. Non stiamo certo prendendo le difese della borghesia cinese o di quella europea: la “scelta ecologica” è dettata dalla consapevolezza che gli idrocarburi – la cui presenza nei loro territori non è mai stata complessivamente abbondante – hanno comunque vita breve, che la tecnologia “verde” sta facendo passi in avanti tali per cui i costi della produzione di energia si vanno progressivamente abbassando, facendo balenare la possibilità, in un domani non troppo lontano, di sganciarsi dalla dipendenza di quella fonte energetica, da chi la possiede, da chi la controlla e da chi controlla la valuta con cui viene scambiata (il dollaro). Un volta di più si conferma che il capitale si preoccupa di “risolvere” certi problemi da lui creati solo nel momento in cui la “soluzione” diventa redditizia, nei modi e nei tempi dettati dalle sue necessità di valorizzazione, non da altre. Se nel frattempo metà del Pianeta andrà sott'acqua e l'altra metà verrà arrostita da incessanti ondate di calore, beh, questo rimane al di fuori delle competenze, diciamo così, del dio profitto.
In breve, il vertice di Amburgo riassume e certifica i nervosismi, le tensioni tra i vari segmenti della borghesia mondiale, dell'imperialismo, tensioni e nervosismi la cui fonte primaria è la crisi storica del ciclo di accumulazione del capitale, che, nonostante gli ostentati ottimismi dei governi, è sempre qui e continua a macinare. Non è un caso se la Merkel, a nome del “capriccioso” e litigioso imperialismo europeo (ne ha della strada da fare ancora) ha usato parole insolitamente dure nei confronti dell'amministrazione americana: l'Europa deve «prendere in mano il proprio destino» (il manifesto, 9 luglio 2017). Non è certo una dichiarazione di guerra a Washington, ma un altro segnale “ufficiale”, se così si può dire, che la costituzione di un polo imperialista nel vecchio continente è una cosa seria, anche se non dovesse comprendere tutti gli stati dell'attuale UE.
Ma Amburgo ha certificato, una volta di più, un altro dato, drammatico, che segna pesantemente la nostra epoca ossia l'assenza pressoché totale di una risposta di classe alle parate – cioè alla loro politica – dei “Grandi” della Terra. Nella città tedesca si è replicato il rituale sterile dei controvertici. Da una parte il grande corteo guidato idealmente dalle illusioni tipiche del riformismo - sintetizzabili nell'obiettivo di umanizzare il capitalismo e le sue articolazioni politiche – alla cui organizzazione concorrono con un ruolo di primo piano quegli organismi che, quando non sono apertamente complici con il nemico di classe, tendono a indebolire, fino a spegnerlo, il potenziale di lotta della prima e più diretta vittima dei “Grandi”, vale a dire la classe lavoratrice. Il riferimento, è scontato, va al sindacato.
Dall'altra, la rabbia e l'odio sacrosanti di giovani combattivi si disperdono nel vento come il fumo degli scontri con le forze borghese.
Qui, allora, sta il dramma. Il malessere sociale, l'indignazione, il rifiuto nei confronti di questa società serpeggiano, crescono, ma non trovano chi possa organizzarli, dando loro obiettivi e metodi di lotta coerenti, che possano dunque impostare una guerra di classe contro il capitale su di un terreno che non sia perso in partenza. Manca, in breve, l'organizzazione rivoluzionaria – il partito – senza la quale i sentimenti più generosi, la determinazione più coraggiosa si scaglieranno inutilmente contro le fortezze della borghesia. Da sempre, noi lavoriamo per la costruzione di questo riferimento politico-organizzativo, ma da soli siamo ben lontani dal poter bastare allo scopo: fatevi avanti!
CBBattaglia Comunista #09-10
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