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Cultura e rivoluzione
Sia che si contrapponga al “partito di quadri” quello di “massa” o, sia che al “partito di massa” a struttura più o meno effettivamente centralista-democratica si contrapponga un partito “a struttura indiretta” (corporativo-federalistica), sia si riprendano tesi care alla socialdemocrazia ed all'anarchismo, nonché al radicalismo piccolo-borghese (sulla “consequenzialità” dello stalinismo dal bolscevismo) - in tutti questi casi, ed in altri ancora, lo spettro del o giacobinismo o (accentuato - nei casi più “colti” e sottili - della qualifica “blanquista”) viene agitato davanti agli occhi di coloro i quali sentono profondamente ed in tutta la sua tragicità il problema della formazione di un partito rivoluzionario degno di questo nome.
Nostro intento è, lo diciamo preliminarmente perché il nostro è un lavoro non culturalistico ma di ricerca e studio ed anzitutto di polemica dottrinale e politica per eccellenza, quello di sottolineare positivamente l'elemento “giacobino” (nel senso traslato leniniano, beninteso) e o “blanquista” (con riferimento alle esperienze del primo tentativo di dittatura proletaria semi-inconscia, la Comune di Parigi) inscindibile non soltanto dal bolscevismo, ma anche da un marxismo non contraffatto. Questo compito implica una serie di note documentarie la cui pubblicazione, per ovvi limiti di spazio, non può avvenire su un solo numero della nostra rivista: perciò, ci limitiamo ora a indicare una serie di punti notevoli, o, se si vuole, di “tesi” che continueranno poi in ulteriori trattazioni, che potranno costituire un saggio dotato di organicità ed ispirato ad un'impostazione tradizionale della sinistra comunista italiana - quella impostazione che si riallaccia alle fonti classiche del marxismo e che attualmente è svisata e pervertita tanto in revisioni libertarie o democratico-metafisiche, quanto nella metafisica “mistica” anti-democratica Cher alles (feticismo verbale) del cosiddetto “centralismo organico” bordighiano, parodia quietistica, fatalistica, liquidazionistica dell'insurrezionismo permanente teorizzato ed eroicamente praticato da Anguste Blanqui e dai suoi compagni.
Dovrebbe essere inutile precisare che noi rivendichiamo integralmente l'eredità di Lenin e del bolscevismo senza mitologizzazioni di nessuna sorta, e segnatamente ben consci che la “prometeica” volontà di chicchessia, così come la più acconcia organizzazione, non può foggiare a suo piacere il congiunto contraddittorio delle circostanze esteriori, in altre parole, la situazione mondiale in tutti i suoi sviluppi. Donde il nostro preciso rifiuto di scendere sul terreno limaccioso cd equivoco oltre misura della “caccia al tiranno” oppure o “al fellone”, o “al traditore” visti come individualità perverse per “accidente fisiopsicologico”, o anche per influenza ambientale, atavica, paterna, ecc. Trattandosi di grandi movimenti storici, che hanno improntato di sé lo stesso tempo posteriore al loro esaurimento effettuale, i cui riflessi dottrinari o ideologici cioè permangono e sopravvivono, anche se come astrazioni e magari mistificazioni, che hanno trascinato o in ogni modo toccato intimamente masse considerevoli, il ruolo della personalità, v. Plekhanov, può bensì essere in date situazioni decisivo, ma non mai, comunque, primario e causale. Spiegare il bolscevismo con l'“anima russa” o l'“asianismo”, o la socialdemocrazia del terrore bianco con l'aver fatto Noske il garzone macellaio, può parere puerilità estrema, cui molti raffinatissimi “sociologi” non sanno rinunciare: invero applicate al bolscevismo, le cui ragioni strutturali vanno ogni giorno più evidenziandosi nell'espansione imperialistica mondiale; alla socialdemocrazia, che accede in mezzo mondo al governo borghese, ecc. tali aberrazioni, già mostruose per il blanquismo o per il robespierrismo, diventano apertamente controrivoluzionarie.
Alla base di tutto, naturalmente, sta il rifiuto di vedere la storia, in ultima analisi, come storia di classi. L'idealistica continuità giacobinismo-bolscevismo presupporrebbe una continuità senza rovesciamento violento, un'evoluzione pacifica dalla dittatura borghese e da una delle sue prime ideologie alla dottrina della dittatura proletaria, nata in base proprio alla lotta per abbattere la borghesia. Si è fatto notare da opportunisti ed anarchici di ogni tempo che i “figli della borghesia” da essa transfughi rovesciavano in pro' del proletariato gli strumenti teorico-organizzativi ereditati dai padri “giacobini”, o meglio, continuavano a fare i “dittatori” sul proletariato medesimo, attraverso l'organizzazione partitica, con la prospettiva di divenire classe privilegiata egemonica dopo la rivoluzione (cioè l'abbattimento della borghesia “vecchia”). Sostituite “ giacobini” con “tecnici” ed avrete un romanzo nero, come quello tessuto da Burnham. Ed è precisamente contro questa tesi che vogliamo ricordare alcuni tratti fondamentali di una polemica ormai secolare, e che considereremo però solo per quanto si riferisce al bolscevismo (provvisoriamente rimandando ad altro saggio il problema delle critiche al marxismo pre-leniniano, soprattutto bakuniste). Anzitutto, ogni accento antiautoritario risente di un falso umanismo che non tiene conto del piccolo fatto dell'esistenza delle classi. L'anarchico, di natura “ immediatista” caldeggia piuttosto il gradualismo nella società borghese (formazioni di “gruppi di liberi” indipendenti dalle ferree leggi economiche), che quello post-rivoluzionario. Per lui la Rivoluzione continua ad essere un terrorismo individuale concentrato in una giornata ed esteso in dimensioni, intendendo terrorismo individuale, secondo il celebre popolista Morozov, come il sistema “alla Guglielmo Tell” per eliminare i “cattivi”, i “tiranni” ed instaurare la pace sociale. La base materialistica dell'unica possibile scienza storica è allegramente ignorata (come già da Bakunin, che pur ne lodava Marx). Per altro verso, la costrizione, volontaria, l'auto-limitazione del rivoluzionario al fine di conseguire il suo obiettivo - attingibile solo mediante violenza, cioè autorità, costrizione, oppressione su tutta una classe, appaiono “controrivoluzionarie” all'individualismo piccolo-borghese anarchico, preoccupato della conquista soggettiva della “libertà” senza determinazioni. In realtà, non volendo mai conoscere la necessità per operare sì da potere in base ad essa stessa trasformare il mondo e creare una necessità nuova, l' “antiautoritario” sarà sempre schiavo, incatenato a quel mozzicone di personalità che gli elargisce la società sfruttatrice, e, per non perdere le briciole - alla pari del socialdemocratico - si inibirà la conquista di quella libertà autentica che sta nell'interdipendenza e reciproco condizionamento di quella individuale e di quella collettiva.
La stessa borghesia rinnega il giacobinismo, e volentieri - in persona, o per bocca dei suoi agenti “socialisti” - lo imputa al bolscevismo. Ma lo rinnega non certo per estraneità od opposizione di classe. In realtà il giacobinismo corrisponde precisamente ad un'iniziale stadio di duplice funzione, rivoluzionaria e conservatrice-reazionaria della borghesia, di poi divenuta, vinto l'Ancien régime, esclusivamente conservatrice-reazionaria: anzi, alleata alle stesse forze pre-capitalistiche, ormai da lei dominate e strumentalizzate in funzione antiproletaria. Stadio, quello giacobino, superato, cui la borghesia non può tornare perché la sua evoluzione insieme espansionistica (socialità della produzione), e, contraddittoriamente, concentrazionistica (appropriazione privata, individuale, è irreversibile - né che il movimento operaio può in sé “imitare”, ma di cui deve assumere, ad un più alto livello storico, con immane salto di qualità, la funzione storica di abbattimento violento dell'Ancien régime, ora borghese, e di conduzione della distruzione del medesimo dopo la prima decisiva rottura rivoluzionaria. Naturalmente il proletariato, unica classe della storia, è esclusivamente rivoluzionario ed elimina, insieme con la sua soggezione, (quindi con se stesso come proletariato) le classi, il che è risaputo. Nessuna funzione tampoco conservatrice gli è delegata, perché la conservazione della sua dittatura è la permanenza della distruzione delle classi tutte e quindi dell'estinzione degli stessi strumenti (Stato anzitutto) connessi al dominio di classe, e quindi mantenendo la sua dittatura per distruggere l'ultimo resto di borghesia, il proletariato distrugge se stesso come proletariato, distrugge la sua dittatura stessa nella misura in cui ne viene a mancare la necessità per eliminazione della classe nemica - con essa e col proletariato si estingue infatti lo stato medesimo, che di dittatura di classe è appunto strumento. Dialettica che i metafisici delle “idee platoniche” di democrazia pura (per tutti), Stato “al di sopra delle classi” ecc., mascherati eventualmente da sociologi e cultori in genere di “scienze umane”, non riusciranno a comprendere - o meglio non vorranno, - più di quanto non ci riuscissero i socialsciovinisti di mezzo secolo fa.
I punti primissimi in cui andrà articolato il nostro studio sono i seguenti:
- L'antigiacobinismo controrivoluzionario (da Bernstein, che imputava di “blanquismo” il marxismo tout court per la sua concezione delle “rivoluzioni locomotive della storia”, fino a Kautsky, ed alla sua polemica con Lenin, Trotzky, Radek).
- L'antigiacobinismo libertario non anarchico ma proprio di sfere marxiste: i "sinistri" critici di Lenin nel 1903: Rosa Luxemburg (che dà del blanquismo una brillante seppur parziale analisi, erroneamente identificandovi il blanquismo e sempre erroneamente - gli errori dell'aquila che si abbassa in volo a portata delle ali delle galline! - sopravvalutando lo spontaneismo) e Trotzky (che profetizza il “sostitutismo” con l'idea del “dittatore” scaturito dal Comitato Centrale, che affascina i Deutscher contemporanei, e quella ancor più stravagante di un Robespierre che ghigliottina Marx come “moderato”). Replica di Lenin: carattere del “giacobinismo” che contraddistingue il bolscevico, “tribuno proletario”.
- Posteriore deformazione della realtà storica operata da Trotzky nella sua interpretazione del giacobismo, affine a quella di certi radicali filorobespierristi: il Terrore del '93 come “dittatura plebea” - mentre era un “modo plebeo” di eliminare l'aristocrazia, che è cosa diversa, detenendo il potere capitalisti (ancor piccoli, semi-artigianali quelli giacobini, poi arricchitisi ed arrivati all'alta finanza termidoriana insofferente degli schemi egalitari-patriarcali dell'Incorruttibile) i quali sfruttavano forze plebee, dopo averne decapitato la direzione (hebertista).
Trotzky, che vede nello stalinismo non la controrivoluzione ma un "Termidoro" (politico rovesciamento di un gruppo governativo, nella realtà) per sostenere il parallelo violenta la storia. Vuol dimostrare due cose:
- che la controrivoluzione era politica e non sociale (vero in Francia, non in Russia);
- che un gruppo di governanti burocrati e corrotti s'impadronì della dittatura, levandola alle masse (la "dittatura delle masse" c'era stata in Russia, mai, neanche per masse plebee, non proletarie, in Francia, tanto meno sotto Robespierre: lì la dittatura era borghese).
Come si vede, è un errore “chiastico”, una diagnosi erronea ed una corretta, incrociate, per ogni "caso". In realtà la varietà e diversità di classe delle due situazioni è evidente. Da una parte, un movimento all'interno di una dittatura borghese, per cui borghesi "nuovi", più potenti, formano un nuovo efficace apparato governativo, consono alle strutture in evoluzione del capitalismo egemonico, ed a tal uopo utilizzano elementi del passato, non abbisognando più dell'aiuto popolare per abbattere il vecchio regime, anzi dovendo solo reprimere le masse proletarie e semiproletarie. Dall'altra, una dittatura proletaria soffocata, strangolata, una rivoluzione chiusa e asfissiata in un solo paese, con la controrivoluzione che si impadronisce del potere dando inizio a brutali epurazioni distruttive degli istituti rivoluzionari effettivamente mascherate da assestamento (termidoriano). Quando Trotzky spiega il “nuovo corso” come Termidoro, sembra non chiedersi se quanto avviene non sia effettivamente più di un “nuovo corso” involutivo della direzione politica di uno stato-comune di dittatura proletaria, con relative prime strutturazioni economiche tendenti al socialismo. La risposta è ora fin troppo facile.
Questi primi punti richiedono, come si vede, una precisazione sia pur schematica del “giacobinismo” come realtà storica, e del “giacobinismo proletario” come inteso da Lenin. Solo dopo aver chiarito tale problema - riesaminando anche le accennate polemiche luxemburghiane, trotzkyste, kautskiane, ecc. si potrà affrontare la funzione del blanquismo. Premettiamo che le nostre conclusioni sul giacobinismo e sul Termidoro, come in parte si è visto, si scostano in pratica opposizione da quelle del comp. Trotzky, ed essenzialmente coincidono con le minuziose analisi operate da Daniel Guérin, quando non si era ancora convertito ridevolmente allo anarco-Tito-castro-benbellismo, e rappresentava sostanzialmente il maggiore storiografo marxista della Rivoluzione Francese - non orientato verso il radicalismo degli Aulard, dei Mathiez, il moderatismo degli Jaurès, l'eclettismo generico del pur grandissimo e per certi lati insuperato Michelet -tanto da attirarsi, infatti, le velenose frecciate di M. Merleau-Ponty. Oggi che Guérin è passato al proudhonismo di seconda mano, tanto più valide restano le pagine con cui egli stesso andava tracciando la condanna scientifica, morale e politica delle sue future metamorfosi.
Fernando VisentinContinua
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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
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