Il "marxismo" nell'ideologia contemporanea

Ideologia e rivoluzione

Il marxismo e gli eclettici

Sartre

Il marxismo si è trovato sin dalla sua origine, e in special modo nei tempi più recenti, a dover combattere non solo contro gli avversari tradizionali e dichiarati, ma anche (e soprattutto) contro tentativi di contaminazione provenienti dalle sfere più o meno alte della filosofia e della scienza. Nell'immediato dopoguerra si ebbe, di una certa importanza e di largo fascino, il pensiero sartriano, tendente a conciliare la soggettività del singolo con l'apriorità storico-economico-sociale.

L'esistenza nell'uomo precede l'essenza, una natura umana costituita "a priori" non esiste, egli è ciò che diventa, ciò che va "facendosi" con la cosciente scelta di valori, norme, idee, etc.; l'uomo deve avere il coraggio di costruirsi, la forza di "diventare" senza ricorrere puerilmente alle tradizioni, agli "imperativi" precostituiti, alle facili attenuanti ipocrite. Quindi, l'uomo "è" ciò che è andato facendosi e che sta per farsi, è avvenire di se stesso, all'inizio era "nulla".

Si coglierà oggettivamente la "realtà umana" come ciò che è stato, mai (o quasi mai) come ciò che è. Fortemente polemico nei confronti delle "morali imperative (Kant, Nietzsche, etc.), tentativi di spiegazione dell'esperienza morale, tentativi di unificare le prescrizioni empiriche del loro tempo, tentativi di rimaneggiare le "tavole dei valori" o gli imperativi, oggettivando sotto forma etica (quindi universale) impulsi soggettivi e singolari" ( "Determinazione e libertà", in "Morale e Società", Roma 1966, pag. 31). il suo invito alla responsabilizzazione (o autodeterminazione), privo com'è di agganci storico-sociali, vaga in un "cielo" sì "vuoto" ed umano, ma totalmente avulso dalla realtà. E benché in seguito Sartre abbia attribuito maggior valore ai condizionamenti ambientali, alle coercizioni sociali, alle inibizioni della realtà oggettiva (e sempre minor attenzione all'autodeterminazione "libera"), benché si sia "storicizzato e calato "in situazione" (l'uomo possiede una "essenza", è il suo io storico, "l'io in situazione"), e "impegnato" per il marxismo, non è riuscito ad approdare interamente ad esso e ad acquisirlo nella sua completezza. Sartre, lasciando la sua posizione romantico-utopica, si avvicina al marxismo e si batte per esso, ma la contaminazione sentimentale, dovuta in parte alle precedenti "speculazioni teoretiche", è sempre presente in lui, non lo abbandona (né lo abbandonerà). Per cui se Sartre sa vedere (e vede giusto) che "quel socialismo in nome del quale i soldati sovietici hanno sparato sulle masse in Ungheria, (...) non è fatto per gli uomini né da loro, è un nome che si dà ad una nuova forma di alienazione", pur tuttavia ciò non lo esime, in virtù di quel pathos su accennato, di affermare che "se l'Unione Sovietica vale né più né meno l'Inghilterra capitalista, allora, davvero, non ci resta altro da fare che coltivare il nostro giardino. Per conservare la speranza", bisogna "riconoscere, attraverso gli errori, le mostruosità e i crimini, gli evidenti privilegi del campo socialista e condannare, con tanta maggior energia, la politica che mette in pericolo questi privilegi" ("Il fantasma di Stalin", in "Il filosofo e la politica". Roma 1964, pagg. 94, 98).

Così Sartre esce dall'ambito rigoroso dell'analisi marxista per scadere in posizioni sentimentali e. di conseguenza, errate. Considerare l'Unione Sovietica un paese retto ad economia socialista e non capitalista (e quindi non imperialista) soltanto per non mettersi a "coltivare il giardino", è quanto di peggio possa capitare a chi voglia considerarsi marxista. Di qui "il socialismo in un solo paese, o stalinismo, non costituisce una deviazione del socialismo: è la svolta che gli è imposta dalle circostanze; (...) circostanze esterne alla socializzazione che la obbligano (l'URSS) continuamente a transigere sui suoi principi" (op. cit.. pag. 65). Significa, in ultima analisi, cadere nel più vieto "nominalismo", nell'anti-marxismo, sia pure in buona fede.

Lévi-Strauss

All'inizio degli anni cinquanta, al susseguirsi di frazionamenti continui fra le varie branche della conoscenza "umana", da più parti si cominciò a parlare di "filosofia e scienze umane" ("Le scienze umane dovranno essere filosofiche per essere scientifiche"; Goldmann, "Scienze umane e filosofia", Milano 1961, pag. 6), in seguito si ricorse ad altre formule finché inevitabilmente alcuni. in un determinato contesto intellettuale, approdarono a quella di maggior effetto: "Marxismo e scienze umane". Ora il marxismo è scienza umana per eccellenza con la sua predominante di interessi sociali e con il suo peculiare carattere anti-metafisico ("la religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fino a che questi non si muove attorno a se stesso" e "l'uomo è, per l'uomo, l'essere supremo" inoltre "imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, asservito, abbandonato e spregevole"; "Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel". in "Annali franco-tedeschi", Milano 1965, pagg. 126, 134-135), dunque perché la formula "marxismo e scienze umane"? Chi può trarre vantaggio da ciò? Al tentativo operato da Sartre si aggiunge, con aspetti alquanto differenti, ma con il medesimo fascino, quello di fusione del marxismo con un'antropologia "strutturale" (e sociale). Lévi-Strauss, per dimostrare la validità del suo metodo strutturale, si richiama in più occasioni al marxismo. Nell'enucleare il concetto di struttura in etnologia egli tiene a sottolineare che "la società comprende un insieme di strutture corrispondenti a diversi tipi di ordini. Il sistema di parentela offre una maniera di ordinare gli individui secondo talune regole; l'organizzazione sociale ne fornisce un altro; le stratificazioni sociali o economiche, un terzo. Tutte queste strutture di ordine possono essere anche a loro volta ordinate, a condizione di scoprire quali relazioni le uniscano, e in quale modo esse reagiscano le une sulle altre dal punto di vista sincronico" ("Antropologia strutturale", Milano 1966, pag. 347). Questo "ordine degli ordini" deve essere così inteso come "l'espressione più astratta dei rapporti che hanno fra loro i livelli in cui l'analisi strutturale può esercitarsi, a tal punto che le formule debbono talvolta essere le stesse per società storicamente e geograficamente lontane..."; egli intende "dunque le proprietà formali dell'insieme composto da sotto-insiemi ciascuno dei quali corrisponde a un dato livello strutturale" ( op. cit., pag. 366). Sull'avverbio "geograficamente" si può anche concordare ma è sullo "storicamente" che non ci siamo, e ne vedremo il motivo. Egli stesso pone due validi quesiti (pag. 367), che poi non risolve: "se ogni società è afflitta da una stessa tara che si manifesta sotto il duplice aspetto di disarmonia logica e di iniquità sociale, perché mai i suoi membri più lucidi dovrebbero faticosamente sforzarsi di cambiarla? Il cambiamento avrebbe solo il risultato di sostituire una forma sociale con un'altra, e se tutte si equivalgono, a che serve?".

Ma Lévi-Strauss, denunciando il relativismo statico di taluna antropologia, rivendica la bontà del proprio metodo: "la mia soluzione è costruttiva, poiché fonda, sugli stessi princìpi, due atteggiamenti in apparenza contraddittori: il rispetto per società molto diverso dalla nostra, e la partecipazione attiva agli sforzi di trasformazione della nostra particolare società" (op. cit., pag. 368). Senonché tre pagine dopo afferma: "ma io non sono un sociologo e non mi interesso, se non in maniera sussidiaria, della nostra società". Così scrivendo e pur citando più volte Marx ed Engels, cade in un errore di valutazione fondamentale (per il marxista), che consiste proprio nella contraddizione da lui stesso espressa. Che Marx ed Engels pensassero "che, nelle società extra-capitaliste o pre-capitaliste, i legami di consanguineità avessero maggior importanza dei rapporti di classe" (pag. 373), è pur vero, ma quando hanno scritto che "la storia (scritta-postilla di Engels in seguito alle scoperte e dimostrazioni riguardo organizzazioni sociali a carattere comunistico in società primitive effettuate da Haxthausen, Maurer, Morgan, etc.) di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi" ("Manifesto del Partito Comunista", Roma 1955, pag. 11; Milano 1967, pag. 39; etc.) intendevano semplicemente questo: perché si possa effettivamente operare una decisiva svolta nella storia umana, dall'analisi storico-dialettica di quelle società la cui struttura fosse legata all'esistenza di classi si deve partire per concepire il trapasso al socialismo, e non dall'analisi, fine a se stessa, di strutture sociali fissate in legami di consanguineità. Il marxismo, proprio perché ha come obbiettivo il radicale mutamento della società capitalista, analizza questa come il portato delle società (o della fase storica) in cui alla struttura di parentela è già subentrata l'esistenza della divisione in classi, e quindi di determinati modi di produzione basantisi sullo sfruttamento di una classe. Poiché tutto ciò è riscontrabile oggi più che mai, affermare, come fa Lévi-Strauss, il proprio disinteresse (o anche interesse "sussidiario") per l'attuale società, non significa altro se non il proprio contributo "sussidiario" ad essa. Non si tratta di accusare la scienza etnologica (di cui si riconoscono obbiettivamente i meriti), ma solo di porre in rilievo il fatto che detta scienza qualora non si risolva nello studio delle società divise in classi (e delle contraddizioni in esse situate), è, come detto, meramente fine a se stessa, senz'alcun aggancio valido ad una determinata realtà storica (quale, ad es., quella che noi viviamo). Inutili, stando così le cose, tutti i richiami a Marx ed Engels (giacché se si fossero limitati a studi teorici di carattere etnologico, non si avrebbe ora un socialismo scientifico, bensì la solita utopia sociale di un vago ritorno alle origini, alla purezza, alla natura, etc.). È con l'etnologia e l'antropologia strutturale (e sociale) così come viene intesa da Lévi-Strauss che il marxismo non ha niente a che fare; tutto qui. Comunque, per concludere, Marx (in "La concezione materialistica della storia", pubblicata a sé stante, Roma 1966, pag. 35) tiene a precisare che "il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre"; questo soprattutto per ciò che concerne la validità di un metodo come quello storico-dialettico così differente dall'altro abbastanza statico ed astratto di Lévi-Strauss, anche nei riguardi di quelle società cosiddette primitive. E, assolutamente, non si tratta di "condannare le scienze umane all'oscurantismo (come afferma Lévi-Strauss, op. cit., pag. 374), bensì di riportarle ad una vera dimensione "umana", cioè porle coi "piedi in terra", perché contribuiscano anch'esse alla denuncia delle esistenti reali contraddizioni ed al superamento "concreto" di esse.

La Sociologia

Si giunge così necessariamente a quella branca delle conoscenze che sì tanto piace ad alcuni che si professano marxisti: la sociologia.

Nasce in Francia per opera del padre del positivismo, Auguste Comte ("ora che lo spirito umano ha fondato la matematica, l'astronomia la fisica, la chimica, la biologia, gli resta da completare il sistema delle scienze fondando la fisica sociale"). Di chiaro indirizzo eclettico, come afferma lo stesso Comte, ha come fine "la liberazione della società dalla sua fatale tendenza alla dissoluzione imminente e condurla direttamente ad una nuova organizzazione". Ma ciò attraverso una evoluzione naturale verso la solidarietà, una evoluzione naturale verso una condizione di benessere generale e di perfezione spirituale e non attraverso l'unica alternativa possibile: la rivoluzione che affranchi il proletariato dal giogo produttivo borghese-capitalistico. Anzi, secondo Comte, il proletariato è con lui concorde nel benefico influsso della scienza positiva quale risoluzione dei problemi di tutti. L'umanità viaggia verso un pacifico costante perfezionamento e non ha bisogno di mutare alle fondamenta lo status quo. Non stupisce perciò la subitanea acquisizione di questa scienza da parte del sistema capitalista, come non stupisce il grande incremento dato ad essa (ovvio, mi pare); stupisce invece il tentativo di molti di integrare il marxismo con la sociologia (a scapito di chi, inutile scriverlo) e la difesa appassionata che di questa alcuni "marxisti" tentano. Non si dimentichi che l'evoluzionismo positivista, avendo come propria "essenza" l'esaltazione del progresso tecnico-scientifico e della capacità dell'uomo di controllare e dominare il mondo naturale e sociale, appoggia (coscientemente!) l'ordinamento sociale-politico determinato da quelle forze di produzione che più permettono il cosiddetto "stadio positivo" (oggi anche "tecnocrazia", la decantata vittoria tecnologica) e quindi non ha alcuna volontà a mutare il sostrato economico, che mira ad un sempre maggiore perfezionamento tecnico ad evidente, totale svantaggio della classe sfruttata: il proletariato. Subito, la sociologia si allarga, si sviluppa e trova validi epigoni nell'evoluzionista Spencer ( "i membri di una società. perché si raggiunga un grado perfetto, devono darsi reciproco aiuto nel conseguimento di tutti i fini"), in Durkheim ("noi siamo costretti dalle istituzioni e noi troviamo il nostro vantaggio nel loro funzionamento e nella stessa costrizione"), in Pareto (caro al fascismo, che lo nominò senatore) e in quel Max Weber, che così tanto influenzerà gli sviluppi ulteriori della disciplina. La scienza sociale, per Weber, affinché la sua conoscenza sia veramente oggettiva, deve dedicarsi allo studio dell'uniformità dell'atteggiamento umano e, soprattutto, allo sviluppo della indagine empirica, ricercando le tecniche più corrispondenti ai due fattori. Egli, situando "la propria posizione a mezza strada fra il misconoscimento del determinismo sociale del pensiero sociologico, che è proprio dei durkheimiani, e la sua integrale, accettazione, che è propria dei marxisti" (come rileva esattamente Goldmann, op. cit., pagg. 36-37), prevedeva, tra l'altro, la liberazione dall'irrazionalità attraverso un razionale dominio dell'uomo sull'uomo (ed è tutto quanto chiedono e desiderano i vari sistemi capitalistici). Posta la sua scienza sociale come mediatrice fra l'economia e la "idea", egli ritenne irreale nel mondo industriale occidentale una rivoluzione e non si considerò mai (neppure idealmente) un socialista (infatti, fu definito in più occasioni il "Marx borghese", in virtù dell'attenta analisi svolta nei confronti della struttura economica e dei conseguenti fenomeni sovrastrutturali). Lo stato è così dunque "un rapporto di potere di uomini su uomini, fondato sul mezzo dell'uso della forza legittima" (si veda "Economia e Società", Milano 1961). Per quanto riguarda l'attuale sociologia (in special modo quella anglo-americana, giustificatrice anche se in senso riformistico della società capitalista), si veda soprattutto Wright Mills ("Colletti bianchi", Torino 1966; critica al medio borghese americano ed alla sua "libertà" ed "indipendenza" nella società) e Bottomore ( "Èlite e società", Milano 1967; critica alla "uguaglianza di possibilità" in seno al contesto capitalista); si vedano pure le varie teorie funzionalistiche. Per quel poco che ne sappiamo, riguardo tutto ciò è nel vero Lukàcs quando afferma: "Con lo sviluppo della sociologia moderna diventa possibile una tecnica della manipolazione nei suoi diversi aspetti e una riconciliazione tra liberalismo e democrazia nell'ideologia borghese sulla base della manipolazione" ("Conversazione con Lukàcs", Bari 1968, pagg. 134-135). E in questa branca delle scienze tipicamente borghesi si inserisce, trovandovi posizione di rilievo, la cosiddetta "scuola di Francoforte" (la quale deve molto, più di quanto i suoi stessi membri pensano, al pensiero di Weber).

La Scuola di Francoforte

Riguardo i tentativi di contaminazione da cui il marxismo ha dovuto e deve guardarsi con attenzione, quello operato dai collaboratori del "Frankfurter Institut für Sozialforschung" (Istituto per le ricerche sociali, trasferitosi per lungo tempo negli Stati Uniti e ritornato poi nel 1949 a Francoforte) è stato fra i più risonanti per vastità ed ascendente. Fra i collaboratori, ve ne fu uno (Marcuse) che rimase per molto tempo pressoché sconosciuto in Europa e i suoi testi vennero tradotti con grande ritardo, pur tuttavia quando lo si conobbe ebbe un'esplosione clamorosa. Ogni giovane (e non) appartenente alla borghesia più o meno "illuminata" si affrettò a leggerlo ed egli trovò (purtroppo) felice riscontro in talune frange cosiddette marxiste-rivoluzionarie. Il pensiero di Marcuse sostanzialmente non si allontana dagli altri appartenenti alla "Scuola francofortiana" (Adorno e Horkheimer): forte polemica nei confronti del neopositivismo (Wittgenstein, Carnap, Schlick, etc.) e dello scientismo, piena rivalutazione della filosofia hegeliana quale elemento negativo contrapposto alla realtà totalitaria capitalista, innesto della psicologia freudiana nel materialismo storico, critica al sistema burocratico sovietico e prospettive decisamente utopiche. Ma ciò che fece la sua fortuna (perlomeno commerciale), fu anche una certa coerenza tra pensiero e modus vivendi (a differenza dei sigg. Adorno e Horkheimer). Questi avevano avuto intorno agli anni cinquanta vasta eco con l'opera "Dialektik der Aufklrung" ("Dialettica dell'illuminismo o rischiaramento", Torino 1966), che li segnalò per il negativismo filosofico in essa profuso e per la vena romantico-"contestatrice" (ante litteram), di cui diciamo in breve. "Poiché l'illuminismo è totalitario più di qualunque sistema" ormai "ha accantonato l'esigenza classica di pensare il pensiero... perché essa lo distrae dall'imperativo di guidare la prassi," di qui "il procedimento matematico è assurto, per così dire, a rituale del pensiero". Esso "trasforma il pensiero in cosa, strumento" e pertanto "l'equazione di spirito e mondo finisce per risolversi, ma solo perché i due membri di essa si elidono reciprocamente" (op. cit., pagg. 33, 34, 35). Consacrato il "mondo a misura di sé medesimo", si viene così ad avere "la docile sottomissione della ragione a ciò che è dato senz'altro", allora "l'estraniazione degli uomini dagli oggetti dominati non è il solo prezzo pagato per il dominio: con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni fra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso" (pagg. 35, 36). Se "l'animismo aveva vivificato le cose; l'industrialismo reifica le anime" di modo che "l'espulsione del pensiero dalla logica ratifica, nell'aula universitaria, la reificazione dell'uomo nella fabbrica e negli uffici" (pagg. 36-37, 39). E dato che "pater sanctus" dei due è Hegel, per logica si deve evidentemente "intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero" (G. W. F. Hegel, "Scienza della logica", Bari 1925, pag. 31). Perciò se "questo regno è la verità, com'essa è in sé e per sé senza velo", "il pensiero" deve tendere necessariamente al suo proprio regno e affinché lo acquisisca nella sua completezza deve familiarizzarsi "coll'astratto" ed acquistare "con ciò il potere inconscio di riempire colla sostanza d'ogni verità quell'astratta base logica già acquistata per mezzo dello studio, e di dare all'elemento logico il valore di un universale, che non sta più come un particolare accanto a un altro particolare, ma si impone sopra a tutto questo ed è la sua essenza, l'assoluto-vero" ("Scienza della Logica", pagg. 31, 41-42). Per cui l'espulsione del "pensiero" (o "universale attivo") dal regno "della ragione pura" (o "idea pura" ovvero "logica") provoca "la reificazione dell'uomo nella fabbrica e negli uffici". Ben dentro lo spiritualismo e lontani dal materialismo storico-dialettico, non sono sfiorati minimamente dal dubbio che la reificazione dell'uomo si possa spiegare con la struttura economica borghese il cui ambito sovrastrutturale (culturale, etico, religioso, etc.) viene adoperato perché le garantisca (dove la stessa struttura non arrivi direttamente o a sufficienza) l'incolumità, coniando, qualora si renda necessario, valori, norme, etc. (In breve: il rischiaramento, riducendosi ontologicamente al semplice calcolo scientistico-utilitaristico, "si compie" ribaltandosi obbligatoriamente nel dominio più fine, "assoluto", totalitario, nel mito della "ratio calcolante" ed oppressiva). Venendo meno alla familiarizzazione coll'astratto" e riducendosi totalmente al calcolo utilitaristico, il "pensiero" (espulso ormai dalla logica) abbandona l'uomo a se stesso, "a misura di sé medesimo". Infatti, per i due, "la regressione delle masse, oggi, è l'incapacità di udire colle proprie orecchie qualcosa che non sia stato ancora udito, di toccare colle proprie mani qualcosa che non sia stato ancora toccato" (op. cit., pag. 45). Quindi "mentre la storia reale è intessuta di sofferenze reali, che non diminuiscono affatto in proporzione all'aumento dei mezzi per abolirle, la prospettiva, per realizzarsi, può contare solo sul concetto" (pag. 48). Ma la prospettiva non è nel socialismo perché "elevando la necessità a "base" per tutti i tempi a venire, e degradando lo spirito - alla maniera idealistica - a vetta suprema, esso ha conservato troppo rigidamente l'eredità della filosofia borghese. Così il rapporto della necessità al regno della libertà resterebbe puramente quantitativo, meccanico, e la natura, posta come affatto estranea, come nella prima mitologia, diventerebbe totalitaria e finirebbe per assorbire la libertà insieme col socialismo" (pag. 49). La tristezza, lungi dall'interrompersi, insiste: "Il mitico rispetto scientifico dei popoli per il dato che essi stessi producono continuamente finisce per diventare, a sua volta, un dato di fatto, la roccaforte di fronte a cui anche la fantasia rivoluzionaria si vergogna di sé come utopismo e degenera in passiva fiducia nella tendenza oggettiva della storia" (pag. 50). Per cui la "dialettica" romantico-aristocratica dei due. non altro potendo fare, finisce coll'inveire nei confronti della "passività delle masse" (pag. 218), le quali permetterebbero la struttura economica reificante, e del "sofisticato meccanismo della società industriale moderna" ("mondo da cui è sparita l'arte il pensiero, la negatività - pag. 270). In un momento storico in cui i valori borghesi tradizionali di morale e cultura sono entrati in crisi, essi rappresentano la voce "spirituale", il "pessimismo pensato" dell'antica aristocrazia ( insofferente e della tecnica e delle masse) che ritorna a farsi sentire; giacché non la tecnica, non l'automazione (considerate a sé stanti) minacciano "l'umanità dell'uomo", ma l'uso "sociale" (e quindi ai fini del profitto capitalista) a cui esse vengono volutamente sottoposte. In conclusione, in maniera del tutto involontaria, una valida affermazione critica dei nostri due: "I filosofi, in ciò veri borghesi, vengono a patti nella prassi con le forze che hanno condannato in teoria" (pag. 94); ed è tutto quanto hanno fatto i bravi Herrn Adorno ed Horkheimer (si vedano a questo riguardo le loro vicissitudini).

Mentre questi restauravano sempre più una "dialettica" disperante ed aristocratica fine a se stessa e consideravano ormai il "pensiero", la "filosofia" (hegelianamente, la filosofia, dato che il suo elemento è l'ideale, il pensiero, racchiude in sé un negativo, un'opposizione della realtà) come unica possibilità concreta d'incisione sulla realtà, sia pure in termini "negativi" (quindi, come abbiamo visto, una "dialettica" chiusa al reale), Marcuse dava uno sbocco alla sua analisi confidando, in senso rivoluzionario, nelle forze centrifughe che man mano vengono escluse dal "banchetto" borghese-neocapitalistico. E vediamo, infine, "L'uomo a una dimensione" (Torino 1967). L'analisi del neocapitalismo svolta da Marcuse è acuta e per taluni aspetti esauriente, ma da ciò egli trae un radicato pessimismo che termina per rifugiarsi in una prospettiva vaga, alquanto utopica. Comunque. qui l'attenzione di Marcuse alla realtà è a ben diverso livello dell'opera di Horkheimer ed Adorno (preoccupata soprattutto della passività delle masse e dell'impiego dei mass-media) e lo si coglie sin dall'inizio: "La minaccia di una catastrofe atomica, che potrebbe spazzar via la razza umana, non serve nel medesimo tempo a proteggere le stesse forze che perpetuano tale pericolo? Gli sforzi per prevenire una simile catastrofe pongono in ombra la ricerca delle sue cause potenziali nella società industriale contemporanea" (op. cit., pag. 7). E prosegue: "... questa società è, nell'insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l'esistenza. Questa repressione, (...) opera oggi non da una posizione di immaturità naturale e tecnica, ma piuttosto da una posizione di forza (... sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita)". Pertanto ne: "l'accettazione generale, dello scopo nazionale, le misure politiche avallate da tutti i partiti, il declino del pluralismo, la connivenza del mondo degli affari e dei sindacati entro lo stato forte", Marcuse vede "quell'integrazione degli opposti che è... il risultato" della capacità "della società contemporanea... di contenere il mutamento sociale" (ivi, pagg. 8, 10). In altri termini, egli vede in fenomeni tipicamente propri della società borghese capitalista la capacità della stessa di contenere il proprio mutamento sociale. Passiamo oltre: "L'unione di una produttività crescente e di una crescente capacità di distruzione; la politica condotta sull'orlo dell'annientamento; la resa del pensiero, della speranza, della paura alle decisioni delle potenze in atto; il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti costituiscono la più imparziale delle accuse, anche se non sono la raison d'être di questa società, ma solamente il suo sottoprodotto: la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e di sviluppo, è essa stessa irrazionale" (pag. 11). Nella sua analisi della società industriale borghese, Marcuse si dimostra molto attento, tracciando un vasto arco chiarificante dei diversi aspetti del contesto capitalista e delle sue contraddizioni: dalle "nuove forme di controllo" alla "chiusura dell'universo politico", sino alla "chiusura dell'universo di discorso". E dopo aver sottolineato che "una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico", Marcuse rileva giustamente che "in ultima analisi sono gli individui che debbono dire quali sono i bisogni veri e falsi, ma soltanto in ultima analisi; ossia solo se e quando essi sono liberi di dare una risposta. Fintanto che sono ritenuti incapaci di essere autonomi, fintanto che sono indottrinati e manipolati (sino al livello degli istinti), la risposta che essi danno a tale domanda non può essere accettata come fosse la loro" (pagg. 21, 26). Dunque "le tecniche dell'industrializzazione sono tecniche politiche; come tali, esse pregiudicano le possibilità della Ragione e della Libertà" e "la più alta produttività del lavoro può venire usata per perpetuare il lavoro e la fatica (anche dopo la cessazione della necessità Lavoro), e l'industrializzazione più efficiente può servire a limitare e a manipolare i bisogni", di qui "la razionalità tecnologica rivela il suo carattere politico allorché diventa il gran veicolo d'una dominazione più efficace, creando un universo veramente totalitario..." ( pag. 38). Così "la società industriale avanzata è veramente un sistema di poteri che si controbilanciano l'uno con l'altro. Ma queste forze si elidono a vicenda e finiscono per riunirsi a livello superiore, nell'interesse comune che esse hanno ad estendere la posizione acquisita, a combattere le alternative storiche, a contenere il mutamento qualitativo", infatti "anche il capitalismo più altamente organizzato serba il bisogno sociale di procedere alla appropriazione e alla distribuzione private del profitto come regolatore dell'economia. In altre parole, esso continua a legare la soddisfazione dell'interesse generale a quella di particolari interessi costituiti" (pagg. 70, 72). Più profondamente (pag. 74): "In entrambi i sistemi (il capitalista americano e il "socialista" russo) codeste capacità ("libertà, fardello della vita reso più leggero, etc.") sono oggi distorte sino ad essere irriconoscibili, ed in entrambi i casi la ragione è alla fin fine la medesima: la lotta contro una forma di vita che dissolverebbe le basi del dominio" (comuni). E "se il capitalismo fosse rigettato dal comunismo, ciò avverrebbe in virtù dei suoi risultati. La continuità è mantenuta tramite una rottura: lo sviluppo quantitativo diventa mutamento qualitativo se giunge a investire la struttura stessa di un sistema stabilito; la razionalità stabilita diventa irrazionale quando, nel corso del suo sviluppo interno, le potenzialità del sistema hanno soverchiato le sue istituzioni. Tale confutazione dall'interno pertiene al carattere storico della realtà, ed il medesimo carattere conferisce ai concetti che comprendono detta realtà il loro intento critico. Essi riconoscono ed anticipano l'irrazionale nella realtà stabilita - essi progettano la negazione storica" (pagg. 231-232).

Dunque, fino a questo punto ci siamo, Marcuse nell'analisi della società capitalista (qui molto abbiamo dovuto tralasciare) è preciso e quasi del tutto esauriente, eppure la sua "conclusione" è almeno utopistica, "unidimensionale" nella sua incapacità di comprendere l'alternativa storica (ideologicamente, contribuente involontario della "Advanced Industrial Society"). E lo scorgiamo subito: "Così, secondo Marx, il proletariato è la forza storica liberante solamente se opera come forza rivoluzionaria", ma visto che "il nuovo mondo tecnologico del lavoro porta in tal modo a indebolire la posizione negativa della classe lavoratrice" (la quale non fungerebbe più da "contraddizione vivente della società costituita") necessariamente "il regno dell'irrazionale diventa la sede di ciò che è realmente razionale - delle idee che possono "promuovere l'arte di vivere"" (ivi, pagg. 233, 51, 256). In una "società irrazionale e coatta" come quella attuale, ecco che "la razionalità tecnologica, spogliata delle sue caratteristiche sfruttatrici, è il solo criterio e guida valido per pianificare e sviluppare le risorse da porre a disposizione di tutti" perché "la trasformazione tecnologica è al tempo stesso trasformazione politica", infatti "la tecnologia comporta un rovesciamento politico" (pagg. 250, 2E0, 237, 243). E "nonostante ciò, i fatti che convalidano la teoria critica di questa società e del suo fatale sviluppo sono tutti presenti: l'irrazionalità crescente dell'insieme; lo spreco e la limitazione della produttività; il bisogno dell'espansione aggressiva (vedi U.S.A., URSS, Cina, etc.); la minaccia costante di guerra; lo sfruttamento intensificato; la disumanizzazione" (pag. 261). Malgrado questa obbiettiva ammissione, Marcuse conclude egualmente che "la liberazione delle possibilità inerenti non esprime più in modo adeguato l'alternativa storica" (pag. 263). Così se "il popolo", un tempo lievito del mutamento sociale, è "salito" sino a diventare il lievito della coesione sociale", permane ugualmente "al di fuori del processo democratico" e "al di sotto della base popolare conservatrice... il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze di altri colori, dei disoccupati e degli inabili" che "prova come non mai quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e istituzioni intollerabili. Perciò la loro posizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del gioco" e pertanto "può essere il fatto che segna l'inizio della fine di un periodo" (pagg. 264. 265). Considerando valida per un istante questa "alternativa", ovviamente si comprende (e anche lo stesso Marcuse comprende) che "le capacità economiche e tecniche delle società stabilite sono abbastanza ampie da permettere aggiustamenti e concessioni a favore dei sottoproletari, e le loro forze armate sono abbastanza addestrate ed equipaggiate per far fronte alle situazioni di emergenza". Così, nel suo pessimismo filosofico "pensato", pur convalidata dai fatti "la teoria critica (o anche marxismo, come in altra sede la definisce Marcuse) della società non possiede concetti che possano colmare la lacuna tra il presente e il suo futuro; non avendo promesse da fare né successi da mostrare, essa rimane negativa. In questo modo essa vuole mantenersi fedele a coloro che, senza speranza, hanno dato e danno la loro vita per il Grande Rifiuto" (pag. 265). Con tutto ciò, si comprende pure che Marcuse con le tesi dell'opposizione rivoluzionaria dei reietti e degli stranieri, etc. (o meglio: Lumpenproletariat, di cui Marx nega ogni coscienza di classe; quindi ogni coscienza e "posizione" rivoluzionarie), del futuro "rovesciamento politico" non meglio definito, del vago "Grande Rifiuto" ("senza speranza" ovviamente), cade esplicitamente nell'anti-marxismo e dà (pur non volendolo. come già detto) il proprio contributo alla "ideologia della società industriale avanzata". Lo Stato futuro (e attuale) diventa così uno Stato mediatore, assorbitore dei conflitti sociali, programmatore dell'economia, fondato sulla rappresentanza dei contrastanti bisogni; insomma, una vetta ineguagliabile dell'"astuzia della ragione" (neocapitalistica). Per cui, studioso di Hegel e Marx (evidentemente tralasciando di acquisire la "pars" economico-scientifica), discepolo di Freud, Marcuse (e con lui gli altri appartenenti alla "Scuola di Francoforte") ha un giusto debito nei confronti di Weber e, attraverso il suo confuso sincretismo, può affascinare soltanto i borghesi e gli sprovveduti. E si veda, en passant, "La fine dell'utopia" (Bari 1968), dove egli nella sua relazione, portando a termine il proprio processo involutivo, se ne esce, candidamente, in affermazioni tipo: "Ma io credo che anche Marx sia rimasto troppo attaccato al concetto di continuità del progresso, che anche la sua idea del socialismo non rappresenti ancora, o forse non rappresenti più, quella negazione determinata del capitalismo che dovrebbe in realtà rappresentare". Ciò implica "se non altro la necessità di porre in discussione una nuova definizione del socialismo e di chiedersi se la teoria marxiana del socialismo non appartenga a uno stadio di sviluppo delle forze produttive ormai superate". Perché "il fatto che il regno della libertà possa essere pensato e possa sorgere solo al di là del regno della necessità significa che quest'ultimo è destinato a rimanere tale, estraniazione del lavoro compreso. Quindi, (...) quest'ultimo ( il lavoro) rimane sempre un'attività compiuta nel regno della necessità e per il regno della necessità, dunque non libero". La risposta ai dubbi: "Io credo che una delle nuove possibilità in cui si esprime la differenza qualitativa tra una società libera e una società non-libera consista precisamente nella ricerca del regno della libertà già all'interno del lavoro e non al di là di esso". Così "noi dobbiamo almeno perseguire l'idea di una via al socialismo che dalla scienza porti all'utopia e non, come ancora credeva Engels, di una via che dall'utopia porti alla scienza" (op. cit., pagg. 9-10). Infine: "il marxismo deve avere il coraggio di elaborare una definizione del concetto di libertà che possa far sentire quest'ultima come un bene non ancora mai goduto"; nel frattempo si deve realizzare "da parte nostra una opposizione molto realistica e molto pragmatica", la quale "con la sua semplice esistenza sappia rendere manifeste le possibilità della libertà nell'ambito stesso della società esistente" (ivi. pagg. 18-19). Questo il programma "realistico e pragmatico", e soprattutto "rivoluzionario". Si è così dunque caduti allo stesso livello di Horkheimer e di Adorno. Ben poco resta da salvare se non: "quanto avviene laggiù (nell'URSS e negli altri paesi "socialisti") non è affatto socialismo" (pag. 82); dove Marcuse ha l'innegabile merito di aver compreso ciò che effettivamente "avviene laggiù" (a differenza, per es., di G. della Volpe, il quale oltre ciò mostra di non capire che cosa Marcuse intenda per "libertà, che è un "a priori" necessario della liberazione" - op. cit., Torino 1967, pag. 262 - concetto chiarito bene da Marcuse sin da pag. 60).

Riassumendo: la Scuola sociologica francofortiana (hegelo-marxista) ricava un notevole pessimismo dall'analisi dell'avanzata società borghese-tecnologica (analisi che per lo più non va oltre l'indagine psico-sociologica; soprattutto in Adorno, Horkheimer, Habermas), con la sola speranza di un futuro tecnocratico impolitico, dovuto alla completa automazione (la quale sarebbe, secondo i francofortiani, affrancatrice di ogni contrasto di classe, seppure alienante ed oppressiva). Senonché, "quasi un secolo prima che l'automazione divenisse realtà", Marx aveva compreso che il capitalismo, sprofondato nelle proprie contraddizioni, avrebbe controllato l'automazione e che questa avrebbe necessariamente inasprito (ai fini del profitto) il processo produttivo irrazionale (tipicamente proprio del capitalismo), scavando così più a fondo, in un estremo tentativo di conservazione, il solco esistente tra i detentori dei mezzi di produzione e i venditori (coatti) della forza-lavoro. La Scuola di Francoforte, dunque, nel tentativo (più che borghese) di conciliare in una sorta di sintesi l'idealismo hegeliano con il materialismo marxista, svolge appieno la funzione di giustificatrice ideologica del contesto borghese-capitalista (sia pure in termini contrastanti e riformistici). (Per Horkheimer vedasi pure: "Eclissi della ragione", Milano 1962).

Conseguente similitudine tra Comte e Marcuse

Se si volesse tentare un parallelo, da considerare con la dovuta cautela, potremmo affermare quanto segue: così come il pensiero di Comte rappresenta il prolungamento filosofico della rivoluzione industriale, affermatasi prima in Inghilterra e subito dopo in Francia, ed anzi di tale rivoluzione se ne fa interprete aderente ed "umano", l'indirizzo della Scuola di Francoforte (e di Marcuse in special modo) caratterizza filosoficamente il capitalismo contemporaneo (o neocapitalismo: termine ideato dalla pubblicistica anglo-americana) e di esso rappresenta l'attenuante ideologica e sociologica più valida (pur in termini palesemente contraddittori come nel caso limite di Marcuse). E così, secondo l'insegnamento di Marx (nella realtà storico-economico-sociale si debbono ricercare, per non cadere in valutazioni di carattere idealistico, i princìpi determinanti i valori morali, giuridici, religiosi, filosofici, etc.), non a caso il positivismo comtiano trova origine in Francia e si espande rapidamente in Inghilterra, paesi in cui l'industrializzazione nella prima metà del diciannovesimo secolo è un fatto più che concreto. Come non a caso la sociologia hegelo-marxista dei vari Adorno, Horkheimer e Marcuse si sviluppa e trova maggiore aderenza negli Stati Uniti e della grande trasformazione tecnologica, tendente ad una automazione "impolitica" operata da questo paese sulle basi dell'economia capitalista, ne è portavoce autorevole ed intelligente. Ci spieghiamo meglio: la trasformazione tecnologica dei mezzi di produzione tradizionali in mezzi produttivi automatici (e quindi con minore sforzo ed impiego del venditore della forza-lavoro e con maggiore disposizione di tempo libero per tutti) dovrebbe, secondo gli economisti e gli ideologi borghesi, attraverso un tangibile benessere, affrancare la società capitalista da ogni contrasto di classe e spoliticizzare completamente le masse sfruttate, il tutto in una sorta di regno tecnocratico "impolitico", privo cioè di una qualsiasi direzione "politica". Allora, nel diciannovesimo secolo, il progresso tecnico e le scoperte scientifiche, che avevano decisamente trasformato i metodi di produzione, fecero pensare a Comte il sistema più adatto per una durevole organizzazione economico-sociale; oggi, lo sviluppo tecnologico avanzatissimo e l'uso dell'energia nucleare hanno dato adito al pessimismo fortemente intellettualistico e piccolo-borghese dei collaboratori dello "Institut für Sozialforschung" di Francoforte. Altra caratteristica comune: ambedue gli indirizzi filosofici (il comtiano e il marcusiano) hanno previsto un sovvertimento politico (o addirittura un annientamento della politica) in nome del progresso scientifico al servizio della "umanità". E qui, senza scomodare Marx, si comprende tutta l'estrazione e la tendenza riformista del borghese lungimirante (più che "illuminato"): come se la politica non dipendesse direttamente e precisamente dal sostrato economico, unica struttura determinante! Ma se per Comte esistono attenuanti di un certo valore inerenti proprio il periodo storico-economico da lui vissuto (e senza dimenticare la posizione polemica che la sua filosofia positiva aveva assunto nei confronti delle tradizionali pretese dei filosofi di fornire verità e conoscenze metafenomeniche intorno alla realtà). per Marcuse e i suoi accoliti, tenendo anche conto dello studio del marxismo da essi intrapreso, le attenuanti sono meno valide e si riducono forse alla loro lunga esperienza del contesto sociale nel continente americano. Tuttavia per lo studioso marxista, che abbia adeguate conoscenze economiche, al processo produttivo capitalista si oppone - sempre e soltanto - l'antitesi storica, ovvero il proletariato, e rifiuta ogni proposta riformista e ogni prospettiva che non sia quella dello "abbattimento violento di tutto l'ordinamento sociale sin qui esistito" ("Manifesto del Partito Comunista", Roma 1955, pag. 58; Milano 1967, pag. 93; etc.). Agli ideologi più o meno progressisti la risposta più valida, più tangibile alle loro idee sarà data, in senso definitivo, dalla classe che, nata col capitalismo e lontana dall'estinguersi in un futuro sistema produttivo automatico-"impolitico", basato sullo sfruttamento della forza-lavoro, sbarazzerà la storia dalla borghesia e dai suoi strilloni: cioè il proletariato. "Esso non ha niente da perdere, se non le proprie catene. Ed ha tutto un mondo da guadagnare" (op. cit., pag. 58; pag. 93). E questo è tutto ciò che conta per il marxista.

Carlo Collini

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.