Le crisi capitalistiche all'esame del marxismo

Il fenomeno delle crisi capitalistiche è stato analizzato da molti scrittori marxisti ed ha dato origine a violentissimi dibattiti sia per determinare le cause reali che provocano le crisi, sia per tentare di prevedere le conseguenze sociali che queste crisi provocano.

Ciò è dovuto al fatto che Marx non ha fatto una trattazione completa e sistematica di questo fenomeno, per quanto ne abbia fatto delle descrizioni vivissime nel corso della sua trattazione della circolazione del capitale.

È dovuto inoltre al fatto che, nella stesura del Capitale, Marx indica come causa della crisi due ragioni, che nello studio dei critici post-marxisti, non vengono esaminate assieme, ma si afferma che l'una o l'altra è la principale. Noi esamineremo più avanti queste due ragioni e vedremo a quali conseguenze porta l'analisi quando si parte da una sola premessa. Per comprendere il fenomeno delle crisi noi non ci possiamo basare sul solo ragionamento economico; noi dobbiamo sempre tener presente il carattere dell'evoluzione dei rapporti di produzione.

Noi sappiamo che il sistema di produzione capitalistico divide la società in due classi: la classe capitalistica ed il proletariato. Noi sappiamo anche che il numero dei capitalisti diminuisce mentre quello dei proletari aumenta. Noi non giudichiamo il fenomeno economico con gli aggettivi buono o cattivo in assoluto (il che equivarrebbe a porsi sul terreno dell'ideologia borghese) ma lo esaminiamo dal punto di vista di classe. Per cui noi non diremo che la crisi è un male, diremo che la crisi porta sofferenze e miseria al proletariato, il che è evidente, ma dal punto di vista della classe capitalistica, in quanto elimina le forme produttive arretrate, la crisi è un fenomeno progressivo produttivo come il boom; se invece arresta il processo produttivo diventa un fenomeno negativo per l'ulteriore sviluppo del capitalismo.

Le due teorie che prima del 1914 si contrastavano ferocemente per definire la crisi si possono riassume così: la prima la spiega con la contraddizione fra produzione e consumo della classe operaia, la seconda con la contraddizione fra il carattere sociale della produzione ed il carattere privato dell'appropriazione. La prima quindi spiega il fenomeno con il sottoconsumo; la seconda con l'analisi della produzione. Prese a sé sia l'una che l'altra sono sbagliate: l'analisi esatta è quella che tenendo conto di tutti e due questi ragionamenti analizza i rapporti di produzione tra capitalisti e salariato.

In sostanza noi dobbiamo tener sempre presente: le crisi si sviluppano in una società umana e non in un'astrazione scientifica. Se noi restiamo nel campo dell'astrazione scientifica - sviluppando la teoria della crisi - noi arriviamo a due diversi atteggiamenti di principio nei riguardi del capitalismo. Spiegando la crisi con l'impossibilità di realizzare i prodotti, con la contraddizione tra produzione e consumo, si giunge alla negazione della realtà, si arriva alla conclusione che la via seguita dal capitalismo non è conveniente, che una è via "falsa" e ci si rivolge alla ricerca di altre "vie". Attribuendo la crisi a questa contraddizione, siamo costretti a pensare che quanto maggiormente essa si sviluppa, tanto più difficile è uscirne. Al contrario, se noi spieghiamo la crisi con la contraddizione fra il carattere sociale della produzione ed il carattere individuale dell'appropriazione, riconosciamo che la via di sviluppo capitalistico è un fatto reale e rappresenta un progresso e respingiamo la ricerca di altre vie come un assurdo romanticismo. Riconosciamo con ciò che quanto più si sviluppa questa contraddizione tanto più facile è uscirne e che la via di uscita sta precisamente nello sviluppo di quel determinato regime economico. Portando alle sue estreme conseguenze il primo punto di vista arriveremo ad accettare il principio della "competizione pacifica" tra diversi sistemi per vedere qual è quello migliore, accettando il secondo diventeremo dei sostenitori della classe capitalistica stessa. Ed a queste conclusioni ci arriviamo perché noi abbiamo fatto un'analisi proiettata nel tempo senza tener conto di un grande assente: la classe proletaria.

Ogni progresso del sistema produttivo porta una variazione nei rapporti di produzione, così pure ogni regresso del sistema produttivo, oppure una concentrazione di capitale, o una polverizzazione di industrie esistenti. La nuova fase del ciclo capitalista riprende tenendo conto di questa variazione nei rapporti sociali.

Ciò premesso iniziamo l'analisi del fenomeno delle crisi partendo sul piano della pura astrazione economica, ossia ammettendo che la classe lavoratrice sia un fattore completamente inerte nelle mani dei capitalisti.

Quando è possibile una crisi

Fintantoché lo scambio dei prodotti era basato sulla formula del baratto

M-M

la crisi era una cosa impensabile. Lo scambio avveniva in base a due precisi bisogni, ben conosciuti nel tempo, sotto la forma di merce contro merce. Con la produzione mercantile più sviluppata, con la formula

M-D-M

si presenta la prima possibilità di crisi. Infatti funzione e scopo del denaro è separare l'atto dello scambio in due parti, che in pratica possono essere separate nel tempo e nello spazio. Il detentore di denaro (commerciante) tiene separati e sconosciuti l'un l'altro due possessori di merce. Se per una ragione qualsiasi egli non inette in circolazione il suo denaro, i due proprietari di merce, pur avendo bisogno l'uno dell'altro, non sono in grado di scambiare i loro prodotti. Siccome a noi interessa l'analisi della crisi capitalista, trascuriamo l'analisi della crisi mercantile in quanto i risultati a cui possiamo arrivare non servono affatto a questo studio. Sia che la formula M - D - M dia origine ad una crisi (come noi abbiamo affermato) sia che non dia origine a questa crisi (il che significherebbe che ci siamo sbagliati) non porta alcuna conseguenza all'esame delle crisi capitalistiche. Abbiamo accennato a questo processo soltanto per tenere un legame storico nel passaggio delle formule di scambio.

Nella società capitalistica la formula di scambio come ben sapete è la

D-M-D'

in cui D' è maggiore di D, per cui diremo che D' = D + dD.

È chiaro che se dD diventa nullo o negativo, il capitalista non troverà alcuna ragione nel processo di circolazione, egli terrà il capitale fermo, la circolazione si arresterà e si avrà una crisi. Questa crisi ha già il suo nome che deriva automaticamente dal fenomeno descritto: si tratta di una crisi derivante da declino del saggio del profitto.

Noi sappiamo che qualsiasi capitale può assicurarsi un certo saggio di profitto mediante l'acquisto di Buoni del Tesoro; in Italia questi buoni danno un interesse annuo del 5 %. È chiaro quindi che nel caso di un capitalista italiano, egli non ritirerà il suo capitale dalla circolazione quando il saggio del profitto annuo tende a zero, ma lo ritirerà molto tempo prima, ossia quando il saggio del profitto tende al 5 %. Per altri paesi il metro sarà un po' più alto o un po' più basso, ma in ogni caso si aggirerà attorno a quel valore.

Ora il semplice processo meccanico di accumulazione del capitale porta di conseguenza ad una caduta del saggio di profitto. Possiamo dire che la crisi è provocata in conseguenza diretta del processo di accumulazione di capitale.

L'aumento delle forze produttive (nuovi impianti) porta di conseguenza ad una produzione non controllata di merci (la produzione anarchica di Engels). I capitalisti si vengono a trovare nell'impossibilità di realizzare il pieno valore delle merci, sono obbligati a vendere al di sotto del valore, il profitto viene annullato e si va in perdita. Queste sono le "crisi di realizzo". Le discussioni che si sono avute sulla natura delle crisi sono sempre partite o dalla prima o dalla seconda ipotesi, ma va da sé che per noi l'origine della crisi deve ricercarsi nel processo di accumulazione del capitale. Ossia la crisi, vista da economisti, fa parte della natura del processo di produzione capitalista. Non può essere evitata nè trovando il sistema di garantire al capitalista un giusto guadagno, né trovando il sistema di abolire l'anarchia della produzione, ossia pianificando la produzione. La crisi è un bene o un male, come si vuole, del processo di produzione capitalista e sarà abolita con l'abolizione del sistema capitalistico.

A questo punto noi abbiamo precisato diverse cose, abbiamo cercato di rendere chiari diversi concetti, abbiamo inquadrato il problema, ma siamo ancora al punto di partenza: perchè cade il saggio del profitto? Perchè i valori non possono essere realizzati? Soprattutto perché questi fenomeni si verificano con tanta subitaneità e con tanta violenza?

Cercheremo di rispondere il più semplicemente possibile a queste domande.

Crisi derivanti da cadute del saggio del profitto

Marx dice che una produttività aumentata del lavoro significa diminuzione proporzionale del capitale variabile ed aumento proporzionale del capitale costante, anche quando tutte e due crescono in assoluto. Questo graduale incremento del capitale costante rispetto al variabile comporta una graduale diminuzione del saggio generale del profitto.

Saggio del plusvalore : pv / v Saggio del profitto : pv / (c + v)
c = 20 Mil." v = 1200,000 p' = 57 %
120" 12,000,000 p' = 10 %
240" 12,000,000 p' = 5 %
1,200" 12,000,000 p' = 1 %

Ora, ammesso che la caduta tendenziale del saggio di profitto, sia causa di crisi, come mai un fenomeno che apparentemente si verifica con gradualità, dà origine ad un fenomeno esplosivo come la crisi? La risposta sta in tre fattori: l'ideologia capitalista che domina le decisioni dei singoli capitalisti, considera tutti gli esseri umani come potenziali clienti; i piani di sviluppo della produttività del lavoro e la conseguente accumulazione che li accompagna fa sì che il capitale si espande con rapidità e non con gradualità; questa espansione viene accelerata dal sistema creditizio che mette a disposizione della produzione un capitale fittizio, capitale che deve essere ancora creato; il primo fattore è quindi la speculazione, ossia la previsione azzardata; l'espansione del capitale richiede l'utilizzazione completa o quasi dell'esercito di riserva: i salari aumentano non perché i lavoratori sono più combattivi, ma semplicemente perché i capitalisti se li contendono. Ed in tal modo il plusvalore diminuisce. Il secondo fattore è l'aumento della massa del capitale variabile. Infatti Marx ha fatto notare che tutte le crisi sono sempre precedute da un periodo in cui i salari universalmente crescono e la classe lavoratrice realmente riceve una maggior partecipazione alla parte del prodotto annuo destinato al consumo. Si potrebbe fare uno studio interessante sulle ideologie "neo-capitalistiche" dimostrando con facilità che queste ideologie sono state sempre enunciate prima di una crisi. Il terzo fattore è l'imponderabile: è quel fattore che capovolge la fiducia del primo fattore in pessimismo; esempio: si prevedeva che la chiusura del Canale di Suez nel 1956 sarebbe durata un anno; gli investimenti furono fatti su questa base; il Canale venne aperto al traffico dopo pochi mesi; gli investimenti in corso risultarono sbagliati e si dovette procedere allea loro liquidazione. A ciò si aggiunse un inverno mite in Germania con pochissimo consumo di carbone. I piani di investimento di beni di produzione furono ridotti e ciò portò ad una catastrofe in tutti i rapporti sociali.

Vogliamo ricordare che con questi tre fattori noi non spieghiamo la crisi: spieghiamo soltanto la sua violenza. La crisi è parte del processo capitalista, deriva dall'accumulazione del capitale e dalla caduta del saggio del profitto. Se il capitalismo si sviluppasse gradualmente noi vedremmo gradualmente i lavoratori estromessi dal lavoro e sostituiti da macchine, e gradualmente vedremmo la diminuzione del loro salario reale. Ma la forma di sviluppo della produzione capitalista è oggettiva e soggettiva nello stesso tempo, per cui la fase di espansione viene allargata oltre i suoi termini dalla volontà o dalle speranze degli uomini, mentre la fase di contrazione viene accelerata dalla paura e dal panico.

Alla fine del capitolo precedente avevamo posto tre domande: perché cade il saggio del profitto'? Perché i valori non possono essere realizzati? Perché questi fenomeni si verificano con violenza? Alla prima abbiamo risposto citando la legge generale di caduta tendenziale del saggio del profitto; alla terza enunciando tre fattori. Resta la seconda.

Realizzo del valore

La risposta a questa domanda è un po' particolare; e la ragione è che la domanda non si sarebbe mai dovuta porre, ossia è una domanda inesistente. Perchè non si realizzano i valori? Perché essendo interrotto il processo di circolazione la merce non può essere venduta. Sul mercato ci sono solo venditori e non ci sono compratori, i venditori offrono al ribasso o sono costretti a vendere da fallimenti e sequestri. Il ribasso del valore della merce è una conseguenza della crisi, non ne è la causa. I sostenitori della teoria delle crisi di realizzo contestano questa spiegazione, in quanto la premessa era che le merci erano state prodotte in quantità eccessiva. Ma anche la premessa è una premessa falsa perchè nella società capitalista non è la produzione che segue il consumo, ma è il consumo che si adegua alla produzione. La società capitalista non è una società produttrice di beni di consumo necessari agli uomini che si può trovare nei guai per una produzione sbagliata; la società capitalista è una società produttrice di plusvalore, il suo scopo è l'espansione di questo plusvalore.

Il maggior realizzo di plusvalore questa società lo trova nella produzione di mezzi di produzione, ed il consumatore di questi beni è il capitale stesso.

Lo sviluppo completo di questa tesi è stato fatto da Lenin e noi non lo vogliamo ripetere. Comunque la conclusione a cui arriva Lenin è la seguente: è falso che il valore non può essere realizzato. É vero invece il contrario. Il valore può essere sempre realizzato nella società capitalista con riproduzione allargata del capitale perché i venditori sono compratori nello stesso tempo. Per cui il realizzo del valore non può mai dar origine ad una crisi e la domanda seconda è del tutto assurda.

Concludendo: le crisi sono parte integrante del processo di produzione capitalistica; la loro origine meccanica ha la sua legge generale di caduta tendenziale del saggio di profitto; la loro origine sociale deriva dalla contraddizione generale del sistema capitalistico tra la produzione sociale e l'appropriazione individuale; la loro violenza è in funzione di investimenti errati, aumento incontrollato del capitale variabile, esaurimento dell'esercito industriale di riserva, fattori imponderabili che fungono da catalizzatori; le crisi di realizzo non sono altro che crisi viste nella loro conseguenza e non nella loro origine.

La classe lavoratrice prima e durante le crisi

La conseguenza immediata della crisi è il licenziamento di una parte dei lavoratori, ossia la ricostituzione dell'esercito industriale di riserva ed il suo aumento in corrispondenza dell'aumento del capitale costante. La conseguenza economica è la pressione dei disoccupati sui posti di lavoro e la caduta dei salari accompagnata da un aumento del rendimento per operaio. La riduzione della massa del capitale variabile ristabilisce la vantaggiosità della produzione ed in tal modo riparte il processo della nuova accumulazione.

A questo punto la classe operaia - che durante il periodo del boom si era lasciata guidare passivamente dalle direzioni opportuniste del movimento operaio - riacquista coscienza della precarietà della sua situazione: l'operaio licenziato viene portato alla disperazione dalle condizioni economiche della sua famiglia, mentre l'operaio ancora occupato vive nel terrore che il prossimo licenziamento tocchi a lui; egli aumenta il suo ritmo di lavoro, si fa più diligente, ma la fatica fisica supplementare e l'assillo della paura ed anche il senso di tradimento che sente nei confronti dei compagni più disgraziati lo trasformano in un ribelle. Non può manifestare la ribellione apertamente, ma l'odio cova sotto le ceneri. Se la borghesia commette un errore, come il 9 gennaio 1905 con il massacro del movimento gaponista, la classe operaia è matura per un'insurrezione aperta sotto forma di sciopero politico generale non organizzato dai sindacati.

Se la classe borghese è capace di controllare lo scontento delle masse mediante promesse di lavori pubblici o di sussidi, la crisi lentamente si esaurisce, il processo di produzione riprende, ma il potenziale di rivolta della classe oppressa è aumentato. Da una parte perchè numericamente è aumentato l'esercito di riserva, dall'altra parte perchè l'esperienza passata diventa patrimonio dei lavoratori che rimangono nel processo di produzione.

In ogni caso è nel pericolo della crisi che il movimento operaio mostra i suoi genuini caratteri di classe ed è in questo periodo che i movimenti rivoluzionari d'avanguardia devono star attenti a cogliere ogni minimo segno di insofferenza delle masse, perchè in ogni momento la situazione può svilupparsi verso episodi di lotta di classe diretta.

Nei periodi di crisi gli scioperi non possono più essere orchestrati dalle direzioni opportuniste: essi vengono provocati dalla classe capitalistica sia per volontà propria sia per forza di cose. È pacifico che sempre si tratta di forza di cose, ma la divisione consiste in questo: che tra un'azienda che chiude per fallimento ed un'azienda che diminuisce il numero dei lavoratori per evitare una situazione fallimentare non c'è differenza dal punto di vista marxista: sempre chiude perchè il sistema capitalista non la tollera più nel suo processo produttivo. Ma agli occhi delle masse operaie la posizione assume caratteri diversi: nel caso di chiusura volontaria le masse accusano il padrone rinfacciandogli i passati profitti, nel caso di liquidazione forzata, tendono a difenderlo.

Questi scioperi, conseguenti ad azioni della classe capitalistica, non possono essere programmati nel tempo dalle direzioni dei sindacati opportunisti, e si verificano quindi situazioni in cui una manifestazione orchestrata, viene a coincidere con delle manifestazioni spontanee. In questi casi la direzione opportunista, è obbligata ad usare le stesse parole d'ordine per tutti i movimenti che hanno luogo contemporaneamente, la massa di operai in movimento è troppo grande per essere controllata ed essa tende a sfuggire ad ogni controllo.

In questi periodi avvengono episodi che possono provocare uno sciopero generale anche contro la volontà dei dirigenti sindacali. Ed uno sciopero generale è l'introduzione all'insurrezione politica.

G.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.