Il capitalismo ripercorre il sentiero obbligato della guerra imperialista

L'invasione dell'Afghanistan da parte dell'armata rossa, la disputa fra l'Iran e gli Stati Uniti hanno determinato un clima di gravissima tensione internazionale, tanto che una nuova guerra mondiale appare ormai quasi l'ineluttabile punto di arrivo, lo strumento risolutore di tutti i problemi che angustiano la vita del capitalismo. Le responsabilità dell'attuale situazione, come per ogni guerra, vengono attribuite alla protervia dell'uno o dell'altro dei contendenti mentre viene del tutto ignorato l'humus in cui affondano le radici del possibile nuovo disastro in cui l'umanità rischia di essere trascinata.

L'economia capitalistica nella sua fase decadente, caratterizzata dal dominio del capitale finanziario e dalle forme di gestione corrispondenti all'elevata concentrazione dei mezzi di produzione e di centralizzazione dei capitali, quali le grandi imprese monopolistiche, porta con sé, come condizione della sua sopravvivenza il periodico ricorso alla guerra. Nell'alternarsi del ciclo economico, intima espressione delle contraddizione immanenti al processo di accumulazione del capitale, si configura, ad un certo punto, un panorama in cui il processo economico appare del tutto ingovernabile. Mali come l'inflazione, la recessione, la miseria crescente di vaste masse conseguente al dilatare della disoccupazione ed alla riduzione dei salari reali, appaiono e vengono presentati come il frutto dell'azione perversa di questo o quell'avversario se non come fenomeni propri della vita dettati da leggi naturali ad essa sovrastanti.

La guerra assume così, pure nella sua tragicità, un fascino enorme capace di attrarre nella sua logica interi popoli e, quel che più conta, il proletariato internazionale. Essa non appare tanto come il prodotto specifico di un mondo in decadenza, quanto l'unico strumento idoneo a trar fuori la società, nel suo insieme, dal tunnel in cui si trova. L'esperienza storica ci mostra che due guerre mondiali sono state possibili soltanto in quanto la classe dominante é riuscita a livello internazionale a motivarle in tal senso. In realtà, al di là delle diverse motivazioni adottate, rispondenti alla necessità di coinvolgere in esse in modo compatto settori sempre più ampi della classe operaia e in generale di lavoratori, entrambe furono il risultato del modo di essere proprio al capitalismo maturo. Tanto il primo quanto il secondo conflitto mondiale giunsero infatti a seguito di travagliate crisi economiche da cui emergeva il dramma di un sistema dilaniato dalla contraddizione insanabile che lo vedeva costretto a sviluppare senza sosta le forze produttive senza poterle dominare nell'ambito dei rapporti di produzione vigenti. Poiché il fine del capitale é il suo continuo accrescimento, mediante l'estorsione di plus-valore dalla forza-lavoro impiegata, si determina permanentemente nell'ambito del processo produttivo la formazione di una "eccedenza" la cui trasformazione in nuovo capitale e quindi in nuovi mezzi di produzione ha costituito per tutto un periodo storico la leva dell'enorme sviluppo che il capitalismo ha impresso alle forze produttive.

Il continuo accrescimento del capitale determina la necessità che anche il plus-valore estorto si accresca in misura corrispondente. Questa condizione viene soddisfatta, in parte, dall'immissione stessa di nuovi mezzi di produzione, che si presenta, oltre che come allargamento della base produttiva, come introduzione nel processo produttivo di tecnologia sempre più avanzata che innalza la produttività nel lavoro; in parte con l'allargamento della produzione che consente un aumento della massa del profitto totale. La ricerca di nuovi sbocchi di mercato per la crescente massa di merci prodotte e la modificazione della composizione organica del capitale sono per il capitalismo processi di vitale importanza come la nutrizione per l'uomo.

In particolar modo, la composizione del capitale modificandosi in modo da incrementare la produttività del lavoro, determina un accrescimento della sua parte costante proporzionalmente più grande di quella variabile. Da una parte vi é la spinta alla ricerca di combinazioni produttive ad alto contenuto tecnologico e quindi con capitale costante preponderante rispetto a quello variabile, dall'altra la quota del capitale variabile, l'unica produttrice di nuovo valore, che tende progressivamente a diminuire inaridendo così la fonte di accrescimento del capitale stesso. Dall'analisi critica di questo processo Marx ha tratto

legge della caduta tendenziale del saggio del profitto come fenomeno che segna la transitorietà del capitalismo al pari di tutte le altre forme economiche che lo hanno storicamente preceduto. La legge ha trovato la sua piena conferma nel corso storico dello sviluppo del capitalismo che ha visto prevalere, appunto, quelle forme più idonee atte da un lato a contenere nell'ambito dei rapporti di produzione borghesi lo sviluppo impetuoso delle forze produttive, dall'altro ad attenuare gli effetti della tendenza alla caduta del saggio del profitto.

La grande industria con i suoi bassissimi costi unitari, le società azionarie come strumento di raccolta di capitali, remuneratili ad un saggio di profitto al di sotto del saggio medio e, con entrambe, il controllo monopolistico sul processo di formazione dei prezzi in modo tale che essi potessero risultare più elevati del valore delle merci espresso in quantità di lavoro in esse contenuto, hanno dato per lungo tempo la sensazione che il capitalismo avesse in sé la capacità di eliminare gli effetti delle contraddizioni operanti all'interno del processo di accumulazione, ma nella realtà sono state solo accentuate.

Infatti quando la diminuzione del saggio del profitto, per effetto della continua espulsione di forza-lavoro dal processo produttivo, non é stata più sufficientemente compensata con l'incremento della produttività del lavoro e con tutti gli altri fenomeni di controtendenza; il marchio della decadenza ha permeato ogni cellula del mondo borghese. Il parassitismo, segno tipico delle società morenti, e le attività ad esso collegate si sono sviluppate a dismisura. In particolar modo, la figura del capitalista originario é stata soppiantata dal rentier, ovvero dal possessore di capitale finanziario che si appropria di plus-valore mediante il "semplice distacco" di una cedola" (Lenin). La stessa impresa industriale si é modificata, attrezzandosi in modo da assicurare un intreccio tra l'attività produttiva vera e propria e quella finanziaria. Le società multinazionali ne costituiscono, in tal senso, l'esempio più illuminante, Esse muovendosi tanto sul piano produttivo che su quello finanziario a livello internazionale, riescono ad esercitare un controllo pressoché totale su interi rami della produzione al fine di moltiplicare, con il ricorso alla speculazione, le occasioni per la realizzazione di quote crescenti di extra-profitto.

Con la definitiva affermazione di questo tipo di impresa, la ricerca dell'extra profitto ha perduto il carattere della occasionalità e si é imposta come una attività di vitale importanza. Il complesso di rapporti politici, finanziari economici e militari che costituiscono la base dell'imperialismo come strumento di dominio, mediante l'esercizio della violenza si é storicamente determinato come il mezzo necessario per assecondare i movimenti del capitale finanziario alla ricerca di plus-valore ovunque e sulla pelle di chiunque. Gli stati più forti con il controllo di aree economiche più deboli, si assicurano la possibilità di esportarvi capitale-finanziario a saggi di profitto sufficientemente remunerativi che non sarebbe possibile realizzare all'interno del sistema economico di provenienza. Ma l'intreccio di interessi che ne deriva vede lo Stato dominante e quello dominato legati fra loro da un rapporto in cui le esigenze del primo si realizzano soltanto in quanto il secondo o viene letteralmente spogliato di ogni sua risorsa, o sviluppa un apparato produttivo capace di produrre merci in quantità sufficiente a far fronte agli impegni che gli derivano dalla importazione di capitali pertanto in entrambi i casi il territorio di caccia tende ad esaurirsi rapidamente.

Come i cacciatori di bisonti erano costretti per vivere, a distruggere la fonte della loro sopravvivenza, così il capitale finanziario esaurisce le aree in cui esercita il suo controllo Per questa ragione la concorrenza che per effetto dell'azione monopolistica, appare attenuata all'interno delle economie più avanzate, in realtà si accentua a livello internazionale.

Ogni angolo del mondo diviene motivo di contesa fra i diversi centri imperialistici ed in particolar modo le aree che per posizione geografica o per la presenza in esse di particolari materie prime rivestono maggior importanza, sono sottoposte ad una vera mattanza. Il mondo di oggi, segnato da circa un secolo di politica imperialistica offre di sé uno spettacolo a dir poco raccapricciante, dove la vita degli uomini conta al pari del più inutile dei sassi. In questo mondo tre quarti dell'umanità sono ridotti all'indigenza e 25 milioni di bambini muoiono ogni anno per denutrizione.

Il capitalismo maturo si presenta assillato dalla permanente necessità di impedire che il saggio del profitto scenda al di sotto delle capacità di compensazione del sistema, ma gli strumenti, a sua disposizione, per quanto affinati, determinano, in ultima istanza il riproporsi delle contraddizioni operanti all'interno del processo di accumulazione, su scala sempre più ampia.

Periodicamente, infatti, il limite del capitale si manifesta apertamente. L'urto fra le forze produttive, la cui crescita é inarrestabile, e i rapporti di produzione vigenti esplode in tutta la sua asprezza, risultando, le prime, eccedenti rispetto alla capacità del sistema di utilizzarlo nell'ambito della legge del profitto. Si aprono cosi periodi in cui gravissime crisi economiche si susseguono senza sosta. Il ciclo di accumulazione rallenta, le merci prodotte non vengono vendute e in genere l'apparato produttivo rimane sotto utilizzato.

Il capitale finanziario fugge il mondo della produzione e gli investimenti rallentano, Di contro si accentua la speculazione e la concorrenza inter-imperialistica tende a trascendere dal terreno commerciale a quello bellico. Nonostante i salari reali scendano vertiginosamente, anche al di sotto del minimo necessario alla sussistenza, essi appaiono sempre troppo alti per il capitale. La disoccupazione e l'inflazione risultano essere un vero flagello per le masse lavoratrici ed in genere per tutti i percettori di redditi fissi.

Di tanto in tanto si registrano sussulti che fanno credere che il peggio sia passato, ma durano lo spazio di un mattino. Alla fine l'alternativa fra il riconoscimento del carattere sociale delle forze produttive e quindi il superamento dei rapporti di produzione borghesi, o il loro arretramento, mediante la distruzione di gran parte di esse, si pone senza mezzi termini. La guerra imperialista é pertanto guerra del capitale contro il mondo del lavoro e qualunque soluzione essa abbia che non sia l'instaurazione di nuovi rapporti di produzione, rappresenta sconfitta per la classe operaia internazionale.

Tanto la prima quanto la seconda guerra mondiale furono precedute da periodi di profonde crisi economiche caratterizzate dall'insorgere dei fenomeni appena descritti. In particolar modo la crisi del 1929 evidenziò l'inevitabilità ai fini della conservazione capitalistica del ricorso alla distruzione sistematica delle forze produttive, mediante la guerra. Nonostante che nell'intervallo di tempo fra l'insorgere della grande crisi e lo scoppio della guerra fossero stati compiuti i più audaci tentativi per offrire nuovi sbocchi al ca pitale, quest'ultima si impose necessaria, priva di alternative reali. Le vecchie teorie liberistiche vennero soppiantate dal keynesismo che rompendo la tradizione secondo cui una buona amministrazione dello Stato é quella che assicura il pareggio del bilancio, suggerì il finanziamento in deficit della spesa pubblica come stimolatore del sistema economico. Negli Stati Uniti si inaugurò il New Deal; in Italia i intervento dello Stato nell'economia trovò istituzionalizzazione nella nascita dell'IRI. In Germania furono realizzate imponenti opere pubbliche e la costruzione di una grande rete autostradale; dappertutto la corsa agli armamenti assunse ritmi vertiginosi. Nonostante ciò la produzione industriale tornò ai livelli precedenti il 1929 soltanto a conflitto chiuso quando fu avviata la fase della ricostruzione. Di pari passo con l'evidenziarsi dell'impotenza degli strumenti offerti dalla scienza economica per tar fronte alla crisi, andavano costituendosi fra gli stati, gli schieramenti che poi si sarebbero dovuti contrapporre; e con questi anche l'impalcatura ideologica entro cui inquadrare il proletariato internazionale per spingerlo al macello. Democrazia contro dittatura da una parte; stati "poveri" contro le cosiddette plutocrazie anglosassoni dall'altra, costituirono la maschera dello scontro fra il capitale e la storia che premeva verso il suo superamento; fra borghesia e proletariato.

Pur essendo unanime il riconoscimento della interdipendenza fra guerra e crisi, si sostiene che la medicina adottata fu peggiore del male, ma intanto anche oggi come allora, nessun rimedio si é mostrato idoneo a fronteggiare la crisi economica che dall'inizio degli anni '70 angustia il capitalismo.

In realtà il capitalismo non aveva alternative. Sulle macerie della guerra, sulle innumerevoli vittime, il processo di accumulazione capitalistica poté riprendere. Le più avanzate tecnologie produttive, grazie agli sbocchi offerti dal processo di ricostruzione, poterono essere immesse nel processo produttivo senza che risultassero incompatibili con la legge del profitto.

Le potenze uscite vincitrici procedettero alla spartizione del mondo in due grandi blocchi contrapposti, all'interno dei quali le due maggiori, USA e URSS, si assicuravano il diritto di compiere ogni sorta di sopruso. Le aree non comprese negli accordi di Yalta furono considerate campo aperto per le contese inter-imperialistiche.

Le vecchie potenze europee, dovettero, perché non in grado di competere con i colossi russo e americano, abbandonare progressivamente le aree rimaste sotto il loro controllo, e rassegnarsi al ruolo di comparse. Il mondo in questi ultimi quaranta anni - nonostante la concorrenza inter-imperialistica non sia mai cessata e ciò abbia dato luogo ad una infinita serie di guerre locali quali quelle di Corea e Vietnam - si é retto sull'accordo sostanziale fra Stati Uniti e URSS teso ad impedire che altri potessero in qualche modo limitare l'influenza sui vasti territori rimasti a loro disposizione. Ma come abbiamo visto, per quanto grandi possano essere questi territori, sono sempre insufficienti a soddisfare le crescenti esigenze del capitale. Cosi, puntualmente, mentre la borghesia celebrava i funerali del marxismo, una nuova ondata di crisi ha cominciato a imperversare sconvolgendo completamente un sistema ritenuto quasi perfetto. Con la rottura degli accorti di Bretton Woods del 1971, gli Stati Uniti hanno di fatto dichiarato chiusa la fase di relativa stabilità che fino ad allora era stata mantenuta aprendo così una nuova fase nei rapporti inter nazionali coincidente con le accresciute esigenze di allargare ulteriormente la propria area di influenza.

Grazie al controllo delle più importanti fonti di materie prime (soprattutto quelle petrolifere) sono riusciti a più riprese a scaricare sui paesi "alleati" Europa e Giappone, gran parte degli effetti della crisi che hanno cominciato a rodere dalle fondamenta la loro sviluppatissima economia. Mentre all'interno l'apparato produttivo rimane sottoutilizzato dal 20 fino al 40 per cento, nel settore metallurgico valanghe di dollari si spostano da un mercato valutario all'altro nella frenetica ricerca di pingui guadagni di natura speculativa.

Tramite un'accorta politica di imboscamento delle materie prime e del petrolio le grandi imprese multinazionali americane sono riuscite negli ultimi cinque anni ad imporre aumenti di prezzi anche superiori al cento per cento ed in alcuni casi anche del 250 per cento.

La conseguenza immediata dell'azione speculativa del grande capitale finanziario é il dilagare dell'inflazione che, con tassi che vanno dal 12 per centro negli stessi Stati Uniti a oltre il 20 per cento in paesi come l'Italia e l'Inghilterra, scuote fin nelle fondamenta anche i paesi più industrializzati.

La guerra commerciale scatenata da Nixon prima e portata avanti da Carter poi interessa ormai tutti i paesi, impegnati l'uno contro l'altro nella ricerca di spazi di mercato più ampi per le proprie merci che spesso rimangono invendute. Per parte russa si sa per certo che l'inflazione interessa tutti i paesi del patto di Varsavia, ma quel che più conta é anche la "patria del socialismo" in questi ultimi anni non ha perduto occasione di rafforzare la propria sfera di influenza e di estenderla anche su nuove aree. In Africa i cubani, nel sud-est asiatico i vietnamiti, sono intervenuti militarmente per conto di Mosca al fine di assicurarle il controllo su aree di rilevante importanza strategica. Infine, l'intervento diretto, in Afghanistan delle truppe russe (mentre nel vicino Iran gli americani rischiano di perdere definitivamente il loro gendarme in quella importante parte del mondo, ha impresso al movimento (alimentato dalla crisi economica) verso un nuovo conflitto mondiale, una brusca accelerata. Nel 1979 sono stati spesi nel mondo 500 miliardi di dollari (pari a 480 mila miliardi di lire) in armamenti e nei primi giorni del 1980, in seguito all'invasione russa dell'Afghanistan le industrie belliche hanno visto i loro titoli quotati in borsa subire rialzi dell'ordine del 15 per cento, segno evidente che gli operatori finanziari ritengono ormai questo settore l'unico capace di offrire prospettive di lauti guadagni.

Quel che ieri appariva possibile alla sola condizione che una ventata di follia collettiva, spingesse l'umanità verso il suicidio, appare oggi, alla luce delle scelte compiute dalle potenze che dominano il mondo e dalle obiettive esigenze del capitalismo di trovare una via di uscita dalla crisi, un percorso quasi obbligato. Per parte nostra rifiutiamo di farci profeti e porre alla storia scadenze che sono in gran parte imprevedibili; quel che ci interessa sottolineare é che l'imperialismo - giova ricordarlo - che é il prodotto ineluttabile dello sviluppo capitalistico e non un'anomala deviazione di esso, ripercorre gli stessi sentieri che dalla crisi del 1904-1905 portarono al primo conflitto mondiale e da quella del 1929 al secondo. L'alternativa barbarie o socialismo prende corpo in tutta la sua drammaticità. La lezione che ci viene dalla storia ci dice che un proletariato privo di una precisa strategia imperniata sulla esatta comprensione del carattere esclusivamente classista della guerra é condannato a subirne tutte le conseguenze.

Lenin, grazie alla perfetta comprensione di ciò fece del disfattismo rivoluzionario, delle necessità di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, il nucleo tattico e strategico che consenti al proletariato russo di liberarsi dalla trappola imperialistica e di imprimere alla storia una potente svolta nella direzione della costruzione del socialismo.

Di fronte all'imperialismo odierno, che può grazie alla mistificazione ancora perdurante sulla natura dei cosiddetti paesi socialisti, chiamare il proletariato alla guerra in nome degli ideali del socialismo, occorre più che mai averne sviscerato i suoi tratti caratterizzanti per non rimanervi in qualche modo impantanati. Se la guerra é l'unico strumento con il quale la borghesia può trarsi fuori dalla crisi avviando un nuovo ciclo di accumulazione del capitale, poco dovrà importare al proletariato internazionale quale dei blocchi imperialistici potrà uscirne vincitore, poiché, comunque, ad uscirne rafforzato sarà il sistema dello sfruttamento.

Vanno pertanto respinte, in quanto obiettivamente suscettibili di trasformarsi in interventiste, tutte quelle posizioni che operano fra i contendenti distinzioni al fine di accertare quale, eventualmente vincitore, possa rappresentare la soluzione meno sfavorevole per la classe operaia. Nessun appoggio va dato alle cosiddette guerre di liberazione nazionale.

Esse rappresentano, infatti, lo scontro per interposta persona, fra i diversi blocchi imperialistici per la spartizione dei mercati. Ciò tanto più in quanto é assente a livello nazionale ed internazionale il partito rivoluzionario, capace di orientare il proletariato indigeno e gli strati sociali ad esso assimilabili nella prospettiva degli interessi storici del proletariato, sulla base della netta demarcazione da quelli della borghesia locale inevitabilmente destinata a confluire fra le braccia di uno dei blocchi contrapposti.

Se pone dunque con rinnovata urgenza il problema di operare per la ricostruzione dello strumento capace di orientare nella giusta direzione il proletariato, sottraendolo a tutte le ideologie della guerra che gli vengono da ogni parte quotidianamente iniettate. Questo é il compito imperativo per coloro che si richiamano al marxismo-rivoluzionario, poiché se é vero che la guerra é lo strumento più efficace della conservazione capitalistica, é anche vero che essa segna il momento in cui, più che in altri, é possibile che si determinino situazioni favorevoli ad un'iniziativa di classe. Ma se questo compito fosse disatteso o rinviato in base alla perversa concezione che vuole giustificare l'esistenza del partito rivoluzionario soltanto nelle fasi di ascesa del movimento di classe, anche le occasioni più favorevoli si trasformeranno in altrettante sconfitte per il movimento operaio.

Giorgio

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.