Il ruolo della Russia nella Seconda Guerra Mondiale

Lo scoppio della guerra non colse di sorpresa la Russia. Vent'anni di controrivoluzione scavarono profondissime tracce nel tessuto economico dell'ex repubblica dei Soviet. La contraddizione di fondo che aveva attanagliato la giovane rivoluzione bolscevica nei suoi primi anni di vita: l'esistenza di uno stato proletario nato come condizione politica per una trasformazione economica in senso socialista, ma impossibilitato a realizzarla nell'isolamento da altre esperienze analoghe nell'Europa occidentale, non poté risolversi che nello sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, nei modi e nelle forme che l'eredità della fallita rivoluzione e la linea di tendenza del capitalismo internazionale poterono consentirle. Il ripristino dell'economia mercantile, l'estorsione pianificata del plusvalore, il rispetto più ferreo delle leggi dell'accumulazione furono il contenuto, il rafforzamento dell'istituzione statale, la concentrazione economica e la centralizzazione politica, ovvero l'apparato economico politico staliniano, la forma attraverso la quale si espresse e crebbe il capitalismo di stato in Russia.

Lo svolgersi di questo processo di sviluppo capitalistico contrabbandato per socialismo in un solo paese e corredato da una revisione "ab imis fundamentis" [dalle fondamenta, dalle radici] della strategia rivoluzionaria, non avvenne senza inciampi, lotte intestine e purghe, sia all'interno che all'esterno dei confini sovietici. Nel partito bolscevico Stalin iniziò sin dal 1926 ad eliminare suoi avversari politici sino a distruggere completamente tutta la vecchia guardia bolscevica nel "biennio rosso" 1936-38. (1) Su scala internazionale, attraverso lo strumento del Komintern, operò perché anche all'interno dei vari partiti comunisti si facesse altrettanto.

Così, dopo la grande crisi (1929-33), quando le prime avvisaglie del conflitto mondiale iniziarono a manifestarsi con progressione geometrica, la Russia poté entrare nell'arengo imperialistico a pieno titolo, con una economia capitalistica ormai assestata, con una opposizione interna pressoché nulla e con una struttura ideologico-organizzativa internazionale delle più ossequienti. In pratica la Terza Internazionale con la sua corte di partiti centristi sparsi in tutta Europa, si preparò a compiere nei confronti della seconda carneficina mondiale il ruolo che giocò la Seconda Internazionale nei confronti della "grande guerra", con l'enorme differenza di camuffare la guerra imperialista in momento di difesa del "suo" socialismo a cui tutto era subordinato sia da un punto di vista diplomatico che tattico-strategico.

In questa chiave vanno letti i passi obbligati che la Russia compì nella guerra di Spagna, la politica di aggressione nei confronti della Finlandia, l'alternarsi dei rapporti diplomatici prima con Francia ed Inghilterra, poi con la Germania di Hitler che culminarono con gli accordi russo-tedeschi del 23 agosto 1939.

Abbandonata ogni preoccupazione di presentarsi agli occhi e alle esigenze del proletariato internazionale come momento propulsore di fermenti rivoluzionari, e al contempo, preoccupato di costruire una rete di alleanze all'interno del contraddittorio muoversi degli interessi capitalistici europei, l'imperialismo russo uscì allo scoperto.

Nel 1934 entrò trionfalmente nella Società delle Nazioni, organismo internazionale che più volte Lenin definì "covo di briganti". Un anno dopo, in occasione degli accordi italo-francesi di Roma (gennaio 1935) stipulati da Laval e Mussolini, secondo i quali si dichiarava solennemente di comporre ogni diaspora tra i due paesi per fronteggiare insieme il riarmo tedesco e le sue mire espansionistiche nei confronti dell'Austria (2), Stalin ebbe a dichiarare che "comprende e approva pienamente la politica di difesa nazionale della Francia"

In altri termini, nel momento in cui l'imperialismo russo accettava l'incontro-scontro con le altre potenze, non aveva più senso negare la necessità della guerra, spendere parole inutili contro gli armamenti e il militarismo con tutti gli annessi e connessi. È dello stesso anno la direttiva del Komintern ai partiti comunisti di appoggiare i rispettivi governi, di operare concretamente sul terreno della salvaguardia degli interessi nazionali, sottacendo, come nel caso di Francia, Inghilterra e Italia, il carattere capitalista delle loro economie e il ruolo imperialistico perpetrato in Asia ed in Africa. L'ammiccamento russo-francese ebbe immediate ripercussioni sul proletariato parigino. Organizzato uno sciopero contro i salari di fame e contro i continui aumenti della produttività, il 9 giugno, 700 delegati di base si scontrarono con i membri del PCF e della CGT, ciechi interpreti delle "nuove" direttive provenienti da Mosca. Lo scopo del PCF era quello di far cessare lo sciopero, l'occupazione delle fabbriche, di far riprendere il lavoro per incrementare la produzione in funzione dell'imminente conflitto con la Germania. Con lo scoppio della guerra civile spagnola, che da tutte le forze che scesero in campo, sia in difesa del fronte popolare che a favore del Generalissimo Franco, fu considerata come il prologo della guerra mondiale, si manifestò palesemente il ruolo controrivoluzionario della Russia. Nella prospettiva di Stalin il ruolo delle Brigate Internazionali come il contenuto politico dello scontro, non avrebbe dovuto travalicare il falso antagonismo fascismo-democrazia, in altri termini doveva essere chiaro ai "comunisti" spagnoli ed europei che la lotta era antifascista ma non anticapitalistica, che quanto si stava giocando sulla pelle del proletariato spagnolo era una questione tra fazioni borghesi e non uno scontro di classe. Negli anni che precedettero lo scoppio della guerra, anni di rapina e di intese, di prevaricazioni e di trattati, la Russia intervenne come imperialismo tra gli imperialismi nel complesso scacchiere geografico degli interessi nazionali.

La progressione degli avvenimenti fu tragicamente impressionante.

Mentre nel 1936 Mussolini inviava truppe italiane al comando del generale Badoglio alla conquista dell'Etiopia, Hitler ne approfittava per riarmare la Renania e agganciare l'Austria nell'orbita tedesca.

Il Giappone, dopo che le forze militariste ebbero preso il sopravvento, stipulò con Hitler il patto anti-Komintern (novembre 1936) si accinse ad invadere la Cina. La Germania nel marzo del 1938 annette definitivamente l'Austria e dopo gli accordi di Monaco nel settembre dello stesso anno stipulati con Mussolini, Deladier e Chamberlain, procede alla occupazione della Cecoslovacchia, concedendo all'Italia di invadere l'Albania in vista degli accordi del "Patto d'Acciaio" del 22 maggio. A questo stadio di sviluppo degli avvenimenti appare insostenibile la tesi secondo la quale Stalin fosse all'oscuro di quanto stava accadendo sotto gli occhi di tutti e tanto meno che tentasse di giovarsi in qualche modo della situazione. Sottacere, infatti, le mire imperialistiche tedesche significava giustificare le proprie. In effetti, quando la Germania di Hitler operò sul piano della forza dichiarala.

Senza mezzi termini, invadendo in pochi giorni la Polonia (9-28 settembre), dando ufficialmente inizio alla seconda guerra mondiale, la Russia di Stalin si affrettò ad occupare la restante parte della Polonia e grazie a un nuovo trattato russo-tedesco, installò una sorta di vassallaggio militare ad Estonia, Lettonia e Lituania le quali cedettero senza opporre resistenza. Lo stesso trattamento fu imposto alla Finlandia, che dopo mesi di dura resistenza (novembre 1939 - marzo 1940) cedette all'imperialismo russo.

Nella prospettiva imperialistica russa era presente una sola preoccupazione: fare in modo che i preliminari, quanto la guerra, le arrecassero, sul terreno della conquista, il massimo dei vantaggi.

Il trattato Stalin-Ribbentrop che certa storiografia di parte cercò di giustificare in mille modi, ebbe un solo scopo: permettere all Russia, nell'eterno gioco del "do ut des", di spartire con la Germania i brandelli della Polonia, di avere mano libera in Finlandia, anche a costo di sciogliere o addirittura di mandare al macello interi partiti comunisti, come quello polacco.

Il problema non era più dunque quello di denunciare la guerra, di lottare contro l'imperialismo ma di scegliere il campo, stabilire alleanze a medio e lungo termine, dare contenuto al proprio imperialismo. Imboccata la strada, Stalin non esitò a percorrerla sino in fondo. Il 29 settembre dello stesso anno firmò un nuovo trattato con la Germania "Patto di amicizia e di reciproco rispetto della frontiera" che gli permise di allungare le mani su Estonia, Lettonia e Lituania. La contropartita consisteva nell'abbandonare la polemica antifascista e antinazista per passare alla più spudorata difesa dei misfatti hitleriani.

Solo pochi mesi dopo l'ultimo trattato russo-tedesco Stalin, rimangiandosi i deliberati del VII Congresso del Komintern, emanò una circolare a tutti i partiti comunisti imponendo loro di cambiare registro, di sospendere ogni propaganda contro il fascismo, di non organizzare forme di boicottaggio contro "l'amica Germania".

Si arrivò al paradosso quando Beria ordinò ai carcerieri dei Gulag di non chiamare "fascisti" i prigionieri politici. Nella stessa circolare, Stalin sosteneva che la causa prima dello scoppio della guerra era da imputarsi all'imperialismo anglo-francese, mentre la Germania, paladina della pace, era costretta a difendersi. Toccò a Molotov, nel novembre del 1939, inventare una giustificazione a questo ennesimo ed apparentemente assurdo cambiamento di rotta nella politica del Komintern:

Nel corso degli ultimi mesi, i concetti di "aggressione" e di "aggressore" hanno acquistato un nuovo contenuto concreto, un altro significato. Ora è la Germania che sta operando per una rapida finge del conflitto, mentre la Francia e l'Inghilterra, che solo si erano pronunciate contro l'aggressione, sono oggi per la continuazione della guerra e contro la conclusione della pace. I ruoli, come vedete, cambiano... L'ideologia hitleriana, come ogni altra ideologia, può venir accettata o respinta; questo è un problema che riguarda le idee politiche personali. (3)

Persino i socialdemocratici gridarono allo scandalo denunciando la Russia di aver tradito i più elementari principi della solidarietà internazionalista. Ma l'imperialismo stalinista continuò imperterrito sulla sua strada sino al giugno del 1941, quando cioè la Germania lo mise di fronte al fatto compiuto. Anche in questo caso va sfatata la tesi della solita storiografia di parte che pretende di rappresentare uno Stalin del tutto impreparato allo scontro frontale con Hitler. Se è vero che l'assurda cecità politica di Stalin arrivò al punto di non tenere in nessuna considerazione gli avvertimenti di Roosevelt (4) né dei servizi di sicurezza dello Stato (NKGB) (5), secondo i quali quattro milioni di soldati tedeschi si stavano ammassando ai confini russi, se risponde a verità la notizia che il capo supremo dello stato Russo, all'atto della dichiarazione di guerra da parte della Germania, sconvolto dalla notizia, non si fece vedere al Kremlino per quasi una settimana, creando ulteriore confusione nello scompiglio, è anche vero che a Stalin va imputato solo un errore di calcolo. In effetti egli si aspettava un attacco tedesco, solo che lo datava al 1942, quando cioè fosse caduta anche la resistenza inglese, permettendo così ai due futuri rivali di spartirsi con calma le zone di influenza. Fu in questa prospettiva che Stalin iniziò dei negoziati "segreti" con Hitler per tutto il 1940, mentre nello stesso periodo aumentò l'organico dell'esercito del 250% , spostò ingenti quantità di truppe sui confini occidentali, incrementò notevolmente la produzione bellica. Quindi la sorpresa ci fu ma solo parzialmente. Il giovane imperialismo sovietico poteva permettersi il lusso di sbagliare le date ma non di essere impreparato a una guerra di rapina e di aggressione di cui si era sentito, sin dalle prime battute, parte integrante. La cecità di Stalin e la sua ottusa ostinazione a non prendere in considerazione gli avvertimenti che da più parti gli giungevano (6), sembrano essere dettate più da un errore di prospettiva nel calcolare i tempi e i modi dell'evolversi degli accadimenti imperialistici che dalla convinzione di poter giovarsi della guerra senza esservi partecipe in prima persona.

L'unico errore della politica imperialistica di Stalin non fu quello di non aver previsto un attacco da parte della Germania, ma di non averlo previsto in tempo... nonostante gli avvertimenti diretti ed indiretti.

Anche in questi frangenti così controversi e contraddittori il Komintern assolse pienamente il suo ruolo di cinghia di trasmissione delle "esigenze" dello Stato russo, adeguando al suo mutevole orientarsi politico-diplomatico i partiti centristi che operavano nell'occidente europeo.

Il partito comunista d'Italia, come sempre, da quando Togliatti e compagni ne assunsero la direzione, eseguì puntualmente le virate di prua senza porsi minimamente il come e il perché di simili sbandamenti. Accettato il principio che "lavorare" per la rivoluzione in occidente significava appoggiare il potenziamento dello Stato russo, che la rivoluzione comunista non sarebbe stata opera del proletariato europeo, ma il prolungamento di quello russo esportato con la forza della guerra di conquista, ne discendeva come corollario nefasto, il concetto del tutto pragmatico, che qualunque mossa, qualsivoglia atto o trattato di politica internazionale, fossero i momenti di una tattica necessaria per l'affermazione dello Stato "socialista" e quindi della "rivoluzione" internazionale.

Per cui il PC d'Italia fu con Stalin nella politica di avvicinamento al vecchio imperialismo europeo anglo-francese contro la Germania nazista agli inizi del 1935, fu sempre con Stalin alla fine del 1939 quando la politica del Komintern lo indirizzò verso Hitler e la sua politica di aggressione. Furono questi gli anni della confusione e del disorientamento più assoluti. Furono gli anni che videro "L'appello ai fascisti" uscire su "Stato operaio" del 1936 (7) e tre anni più tardi, in occasione del trattato russo-tedesco, videro Togliatti arrestato in Francia dal Governo Deladier, come "fiancheggiatore" della politica filo-hitleriana. (8)

Contemporaneamente il PCI, avulso da qualsiasi prospettiva rivoluzionaria, ripudiato ogni "residuo" di bolscevismo, completamente assoggettato alle manovre di Mosca, non trovò di meglio che rinverdire vecchie polemiche contro i militanti rivoluzionari.

Anche sotto questo aspetto, il partito di Togliatti, non fece altro che mimare, con un copione da operetta, le tragiche epurazioni del PC russo. Non meraviglia, quindi, la dichiarazione del CC del dicembre 1938 in cui si ribadisce che:

I bordighiano-trockisti debbono essere allontanati spietatamente e senza ritardo e denunciati pubblicamente come agenti del nemico, in modo che le masse li respingano come la peste. Gli elementi conciliatori verso i bordighiano-trockisti, che resistono a rompere i rapporti con questi nemici, devono essere espulsi dal partito.

Sempre nel 1938, dalle pagine de "Lo Stato Operaio" si continua ad avere più paura degli elementi della sinistra rivoluzionaria che del fascismo. Dalle presunte critiche politiche si passa all'insulto e alla delazione, prendendo come capro espiatorio la figura di Bordiga e dei suoi epigoni anche, se il primo si era autoescluso da quasi dieci anni dalla vita politica attiva e i secondi operavano prevalentemente all'estero in un mare di difficoltà organizzative. Ciò nonostante G. Berti ammoniva:

I compagni sanno che il bordighismo, il quale era nel passato una corrente antileninista del movimento, operaio, é diventato attualmente un vivaio controrivoluzionario, di spie e di disgregatori, al servizio del fascismo. (9)

Paradossalmente la campagna contro la sinistra era l'unica strada praticabile dal PCI in quegli anni. Il continuo ondeggiare di Mosca da un polo all'altro dello schieramento imperialistico europeo rendeva titubante l'atteggiamento del partito di Togliatti che, nel dubbio di sbagliare obbiettivo, preferiva "rilavare i panni sporchi in casa" evitando di mettere il naso fuori dalla finestra.

Le opposizioni di sinistra e la guerra

A parte il trotzkismo che con lo scoppio della guerra sancì il suo definitivo passaggio sul terreno della controrivoluzione, scegliendo di scendere in campo a fianco della Russia, facendo del momento tattico il fulcro di ogni suo operare e subordinando ad esso la stessa prospettiva strategica, solo i gruppi della Sinistra comunista Internazionale di cui la Frazione italiana fu l'anima ispiratrice, cercarono di non cadere nel calderone guerrafondaio che l'imperialismo, complice la stessa Russia, stava organizzando. Gli anni che immediatamente precedettero lo scoppio della guerra, tragicamente intensi di avvenimenti e di episodi premonitori, permisero alla F.I. di fare una analisi compiuta delle inevitabili prospettive dell'imperialismo e di circoscrivere, entro i capisaldi del marxismo rivoluzionario, il terreno d'azione delle forze che agivano, o avrebbero dovuto agire, in una prospettiva classista. In questo senso, tutto ciò che venne prodotto in sede di elaborazione teorica, di confronto e di scontro con organizzazioni sedicenti rivoluzionarie, rimane ancora oggi un punto di riferimento importante.

La F.I. seppe prendere tempestivamente le distanze non solo dal naufragio politico della Terza Internazionale e dal suo codazzo centrista, ma anche da quelle forze, prima fra tutte il trotzkismo, che, pur dichiarandosi fedeli all'esperienza bolscevica dell'ottobre sovietico, cedettero di fatto, prima con la guerra di Spagna e con il conflitto cino-giapponese poi, nell'interventismo anche se camuffato da aggettivazioni tattiche, quali "critico" o "progressivo".

Fu così che il trotzkismo consumò sino in fondo il suo tradimento.

Allo scoppio della guerra cino-giapponese, Trotzky, in progressione con quanto era andato sperimentando in Spagna, operò una serie di sottili "distinguo" sul concetto di guerra che lo convinsero ad elaborare la teoria secondo la quale non tutte le guerre sono uguali, ma che ce ne sono di buone e di cattive, di giuste ed ingiuste, di progressive e non. Se c'è una guerra giusta, è quella del popolo cinese contro i suoi conquistatori per cui:

tutte le organizzazioni operaie tutte le forze progressive della Cina, senza nulla cedere del loro programma e della loro indipendenza politica, faranno sino in fondo il loro dovere in questa guerra di liberazione, indipendentemente dal loro atteggiamento nei confronti del Governo di Chang Kai-Shek. (10)

Come se non bastasse Trotzky tentò di dare una veste teorica alla sua enunciazione di appoggio alla borghesia cinese, al suo fronte unito con il partito di Mao, muovendo dal fatto che la guerra in questione avrebbe rimosso la Cina dall'arretratezza economica tipica di rapporti di produzione semi feudali per sospingerla verso uno sviluppo capitalistico delle forze produttive, per questo "progressiva" e per questo da appoggiare senza tanti tentennamenti.

Noi non abbiamo mai messo e non metteremo mai sullo stesso piano tutte le guerre... Il Giappone e la Cina non si trovano sul medesimo piano storico... Il patriottismo cinese è legittimo e progressivo. (11)

Questo come preludio all'appoggio del trotzkismo alla "giusta" guerra della Russia nel secondo conflitto mondiale come se, a parte l'enorme errore di considerare ancora la Russia come un paese socialista, fosse possibile basare l'evolversi rivoluzionario in Europa ed altrove sul rafforzamento dello Stato russo e non sulla necessità di favorire, là dove se ne presentasse l'occasione, focolai di lotta di classe che si ponessero su di un piano autonomo e non al traino degli interessi delle rispettive borghesie.

Non si poteva non cogliere la palese contraddizione e la prospettiva controrivoluzionaria a cui era giunta l'opposizione trotzkista. In queste analisi, pregne di un tatticismo deteriore, false nelle analisi che negli obiettivi di fondo, Trotzky negava sé stesso, facendo proprie le tesi che dieci anni prima aveva ferocemente combattute contro Stalin e Bukharin. (12) La F.I. seppe cogliere tutto ciò. Seppe cogliere il maturare degli eventi, ebbe la capacità di analisi per non cadere nell'errore di considerare lo Stato russo recuperabile agli interessi del proletariato internazionale, seppe prevedere il ruolo che avrebbe giocato la Russia sul piano imperialistico con le sue appendici trotzkiste e centriste. (13) Ma soprattutto seppe prevedere la guerra, i suoi schieramenti e l'ideologia nefanda sotto la quale il capitalismo mondiale avrebbe chiamato il proletariato a pagare il prezzo delle proprie insanabili contraddizioni.

Ma accanto a tutto questo, accanto cioè al processo di analisi, certamente parziale ma comunque rilevante riguardo all'evolversi della struttura economica dell'ex repubblica dei Soviet, al determinarsi caotico, a volte convulso, di opposizioni di sinistra alla ricerca di nuovi quanto falsi orientamenti, la F.I. commise una serie di errori che la condussero organizzativamente impreparata e politicamente incerta verso quel fenomeno che essa stessa aveva previsto: la guerra. Vale la pena ricordare come la Frazione vedesse proprio nella guerra il momento cardine della propria strategia, il momento in cui le masse si sarebbero mosse su di un piano di maggiore radicalizzazione permettendo alle minoranze rivoluzionarie di effettuare il salto qualitativo, di passare cioè dalla mera difesa dei sacri principi (frazione) alla guida delle lotte proletarie (partito). (14) Crisi del capitalismo, guerra e ripresa delle lotte di classe quindi erano i momenti oggettivi e soggettivi attorno ai quali si sarebbe dipanata la matassa della storia facendo cadere gli ultimi veli all'equivoca Russia, il ruolo controrivoluzionario del centrismo, spianando la strada ad una soluzione rivoluzionaria: "prima, durante o dopo l'evento bellico, a seconda dell'evolversi del complesso rapporto avanguardie rivoluzionarie-masse-centrismo". Il bilancio che le frazioni di sinistra devono trarre è di conseguenza, un bilancio storico. Le contraddizioni del mondo capitalistico, nella sua fase imperialista, sono destinate a precipitare nella rivoluzione o nella guerra. Dopo la vittoria del centrismo all'interno del partito, solo la frazione di sinistra potrà ridare il partito al proletariato, riconquistandolo per guidare il proletariato alla rivoluzione. Nel caso in cui le frazioni non pervengano a condurre, proprio grazie al centrismo, il proletariato alla vittoria, nessuna volontà individuale potrà evitare l'altro sfogo delle situazioni: la guerra; ed è solamente nel corso di questa, o dopo, che la frazione, trasformandosi in partito, potrà condurre il proletariato alla vittoria.

Fu proprio in questa aspettativa che la Frazione commise il suo primo, grande errore. Mentre si interpretavano correttamente i mille segni che accompagnavano il maturare degli eventi verso la conflagrazione bellica:

In tutti i paesi è la comune voce degli Stalin, dei Vandervelde, degli Hitler, dei Mussolini, che si alza e che provvisoriamente lega le masse al capitalismo mondiale. Ma non siamo che alla prova generale. A quando la guerra? Nessuno la può predire. Ciò che è certo è che tutto è pronto. (16)

Si continuava ad insistere sul concetto politico di frazione demandando l'immane compito di costituzione del partito a "tempi migliori":

D'altra parte, la situazione di guerra imperialistica che noi viviamo, impone alle frazioni di sinistra di ciascun paese di uscire dalla fase precedente d'isolamento in cui vivevano e dove, seguendo Marx, gli era possibile vivere una vita internazionale... Il compito della Frazione italiana è quello di fare uno sforzo, non per sostituirsi al proletariato dei vari paesi, ma di dissipare la confusione esistente, di permettere alle forze proletarie esistenti di riconoscersi, di ritrovarsi e di collegarsi per costituire la frazione di sinistra. (17)

L'insistenza sulla necessità della frazione e non della costruzione del partito come risposta politico-organizzativa al maturare della situazione internazionale, ebbe nella frazione, una travagliata quanto contraddittoria vita. Sino al 1935 la funzione e il ruolo della frazione erano intimamente legati al processo di degenerazione che divorava i partiti centristi, i quali se non erano più gli organi politici della lotta di classe non erano ancora gli strumenti dichiarati del nemico di classe. Dopo il 1935 (congresso della F.I.), dopo cioè che emerse l'irreversibilità del processo degenerativo in atto, la Frazione, sotto la spinta elaborativa di Jacobs e Vercesi andò maturando la tesi della permanenza storica di questa particolare forma organizzativa delle avanguardie rivoluzionarie nelle fasi controrivoluzionarie per collocare la trasformazione in partito solo ed esclusivamente nei momenti di ripresa della lotta di classe, quando fosse all'ordine del giorno la presa del potere da parte del proletariato. (18)

Divise così le due fasi storiche, quella rivoluzionaria e quella controrivoluzionaria, fu conseguenza logica collocarvi le due forme organizzative e la delimitazione dei rispettivi compiti.

Nei momenti meno favorevoli i militanti comunisti avrebbero dovuto operare come "frazione" preoccupandosi soprattutto di salvaguardare i principi fondamentali del marxismo preservandolo dalla contaminazione opportunista della costruzione dei quadri politici e della elaborazione tecnica, senza preoccuparsi eccessivamente o del tutto del problema intervento. Nelle fasi di ripresa della lotta di classe avrebbero dovuto "trasformarsi in partito" per guidare il proletariato alla conquista del potere, ergendosi nelle lotte stesse a punto di riferimento politico.

L'errore di fondo fu quello di concepire la lotta di classe, i suoi sbalzi, le sue impennate, alternate a più o meno lunghe fasi depressive, non come il portato politico del perenne scontro di interessi tra capitale e forza lavoro, determinato nelle sue fasi di stanca o di repentino risveglio dal maturare delle contraddizioni del sistema produttivo, ma come somma di momenti eccezionali che solo come tali possono essere presi in considerazione dalle "avanguardie" politiche. Secondo questa prospettiva la lotta di classe, ed il suo alterno andamento, divengono un lungo periodo storico in cui "non c'è nulla da fare", alternato da fasi di risveglio nelle quali, e solo in esse c'è posto per l'operare del partito rivoluzionario.

Se è vero che solo nei momenti di crisi economica è possibile il determinarsi della radicalizzazione delle masse, la loro disponibilità a battersi contro l'avversario di classe, ed è più facile stabilire un rapporto organico tra le esigenze spontanee, parziali e contingenti del proletariato e la prospettiva strategica del partito, è anche vero che il partito non decide di eclissarsi nei momenti meno favorevoli seguendo la classe nella sua sconfitta. Il partito, proprio perché strumento politico permanente della lotta di classe, ha il compito di rappresentarla in tutte le sue fasi, subendo sì gli alti e bassi del procedere contraddittorio del divenire capitalistico, ma sforzandosi di esserne in ogni momento un punto di riferimento.

Non è il partito che determina o sceglie le situazioni per intervenire, ma saranno le situazioni a limitare o ad ingigantire i suoi compiti. Mai, comunque l'organizzazione politica dei rivoluzionari può ridursi alla stregua di un gruppo di studiosi dediti alla meditazione senza porsi il problema di intervenire all'interno della lotta di classe indipendentemente dal livello col quale essa si esprime. Pensare ed operare altrimenti, teorizzare cioè l'impossibilità della permanenza del partito nelle fasi controrivoluzionarie, sostituito dall'organismo frazione, che ha come caratteristica peculiare quella di poter fare tutto (?) meno che di essere là dove dovrebbe, significa rinunciare al proprio ruolo nei momenti difficili e precludersi la possibilità di intervenire tempestivamente nelle situazioni favorevoli. La storia ha ampiamente dimostrato che le soluzioni rivoluzionarie, anche se si determinano e si risolvono soltanto in presenza di momenti particolari, se non c'è alle spalle un lungo lavoro preparatorio, che solo un partito può svolgere, il tutto si accartoccia su sé stesso aprendo la strada ad una soluzione borghese.

Questa concezione meccanicistica che delega la formazione del partito alla questione della presa del potere o alla ripresa della lotta di classe, già espressa dalla Frazione al suo congresso del 1935 (a proposito va ricordato che non tutti i suoi membri erano d'accordo sulla risoluzione adottata):

Possiamo affermare che il partito possa fondarsi al di fuori di una prospettiva storica in cui si pone il problema del potere? È evidente che poiché il partito si fonda sulla nozione della lotta contro lo Stato capitalistico, se le condizioni per questa lotta scompaiono momentaneamente o per un periodo dato, il problema del partito non si pone... (19)

venne riproposta, aggravata nella formulazione e dalla vicinanza della guerra nel febbraio del 1938, in occasione della costituzione del "Bureau International" formato dalla Frazione italiana e da quella belga: (20)

Il Bureau proclama che la costituzione dei nuovi partiti e la fondazione della IV Internazionale non possono risultare che dallo sbocciare di movimenti proletari che si orientano verso la Rivoluzione comunista. Alla formula: occorre fondare un partito per creare la lotta di classe, il Bureau oppone l'altra formula: occorre la lotta di classe per fondare il partito. Solo la maturazione della classe fornisce la base di massa indispensabile alla trasformazione della frazione in partito. Costruire un partito di "massa" indipendentemente da questa maturazione vuol dire distruggere la base ideologica dello stesso partito: la Frazione di sinistra. (21)

I tre punti programmatici meritano un esame approfondito non solo perché denunciano palesemente una errata impostazione nell'affrontare il problema del partito ed il suo rapporto con la classe, ma anche perché in essi è possibile trovare la chiave del fallimento politico della frazione nei confronti della guerra e del ruolo che i rivoluzionari devono compiere nella prospettiva di questo tragico evento. Le analisi servono a ben poco se non si traducono in prassi quotidiana, in momenti di verifica politica e di agitazione all'interno del contraddittorio muoversi dei fenomeni sociali; tanto peggio se le analisi sono viziate da difetti d'impostazione.

Con il primo punto viene ripresa la nozione partito legato alla ripresa della lotta di classe. In altri termini si estremizza in senso meccanicistico il rapporto dialettico tra condizione obiettiva e soggettiva, demandando al maturare degli eventi tutti quei problemi politico-organizzativi che invece avrebbero dovuto essere affrontati per tempo, anche se nei limiti di condizioni date. L'ipotesi di fondo è caratterizzata dalla aspettativa che le crisi economiche, oltre a muovere le masse permettano a un gruppo di studiosi che si sono autoconvinti di dover vivere la lotta di classe come un fatto di letteratura politica, di trasformarsi in partito della classe operaia e di colmare, nello spazio di ventiquattro ore, la distanza politica tra il proletariato e la sua avanguardia.

Se è storicamente verificabile che non tutte le crisi economiche hanno il potere di smuovere le masse, ma che non c'è muoversi del proletariato senza che alla base non vi sia una situazione di tracollo economico che lo determini, è anche vero che quest'ultimo può rappresentare la condizione necessaria ma non sufficiente alla sua risoluzione in senso rivoluzionario.

La storia è ricca di episodi di crisi economiche e di sommovimenti, più o meno spontanei, della classe operaia, ma tremendamente povera di rivoluzioni comuniste. Ciò non in funzione del fatto che il capitalismo mondiale, nella ormai secolare gestione del suo rapporto con la forza lavoro, sia riuscito a trovare un rimedio efficace per eliminare le proprie contraddizioni, sino a tollerare o ad assorbire senza danno le crisi economiche, né che il proletariato non abbia saputo rispondere per tempo con lotte acute e radicali, ma proprio perché è venuto meno il partito, la guida politica, quell'organizzazione della lotta di classe che sapesse trasformare, nelle condizioni favorevoli, la spontaneità proletaria, gli infiniti episodi di radicalizzazione delle lotte, in rivoluzione sociale.

Non bastano le crisi, non è sufficiente che le masse scendano spontaneamente nelle piazze perché si possa parlare di evento rivoluzionario in senso comunista. Accanto a questi due fenomeni, necessari, imprescindibili, occorre la presenza di una tattica, di una strategia, di un programma e di una coscienza unitaria del fine che non si ritrovano per incanto finalistico o per una correlazione meccanica né nelle crisi, come bruto fatto economico, né nell'insorgere delle masse, come spontanea risposta alle aggravate condizioni di vita. Ma anche la terza condizione (presenza del partito) perde di efficacia, se la sua presenza operante è legata ad un momento particolare, anche se significativo, dell'evolversi della lotta di classe, come se fosse una questione dell'ultima ora, un avvenimento accessorio che nasce nelle fasi montanti e scompare nei periodi di riflusso. Il partito proprio perché espressione politica della lotta di classe, e non di un suo momento particolare, ha la funzione di concrescere con gli avvenimenti economici e sociali, di rappresentare, nel perdurare del rapporto capitale forza lavoro, un punto di riferimento politico riconoscibile sia nelle fasi storiche in cui è palese il predominio della borghesia, sia nelle fasi più propizie dove si pone all'ordine del giorno la presa del potere. Anzi, se ne deve concludere che la possibilità, da parte della avanguardia politica di imprimere una svolta rivoluzionaria al muoversi delle masse è direttamente legata al lungo, oscuro, e molto spesso, improbo lavoro che ha saputo svolgere nelle fasi precedenti. È solo attraverso la continuità politico-organizzativa, solo attraverso la sua sopravvivenza nei periodi controrivoluzionari e solo grazie al lavoro che ha potuto e saputo svolgere in queste fasi, che il partito può trasformare i contatti in legami, trasformarsi da piccola organizzazione di pochi e scelti militanti in partito che ha dietro di sé le masse. Potremmo dire, con una facile sintesi, che l'organizzazione dei rivoluzionari ha di fronte a sé il destino che ha saputo costruirsi.

Due cicli di accumulazione e due guerre mondiali hanno ampiamente dimostrato, esperienza russa a parte, come il capitalismo, pur nelle inevitabili differenze dovute al diverso grado di sviluppo delle proprie contraddizioni, sia costretto a ripetersi nelle crisi e nelle guerre, come il proletariato internazionale sia stato gettato alla ribalta delle lotte proprio in relazione con questi avvenimenti, o dalle loro immediate conseguenze, e come il ritardo storico nella costruzione dei partiti o la loro assoluta assenza, abbiano non solo impedito la soluzione rivoluzionaria, ma in mancanza di questa abbiano esposto il fianco all'inevitabile soluzione borghese.

Per cui la tesi che vuole spezzare la continuità della lotta classe e della sua espressione politica, attribuendo all'organizzazione dei rivoluzionari ruoli e compiti differenti a seconda della situazione (studio dei fenomeni sociali, elaborazione teorica e costruzione dei quadri, cioè Frazione, nei periodi controrivoluzionari, e sua trasformazione in partito, ovvero intervento attivo nella lotta di classe, solo in presenza della possibilità di pervenire alla presa del potere) pone tutte le premesse per una inevitabile sconfitta politica. A meno che non si voglia giocare sul piano della confusione delle definizioni, attribuendo alla Frazione il compito che è caratteristico del partito, o farne una questione di mero computo quantitativo. Nel caso preso in esame, invece, ne consegue che, nella fase di decadenza del capitalismo, i cicli di accumulazione devono svolgersi senza la pur minima opposizione politica organizzata, senza che la classe, nei suoi pur minimi conati di rivolta e di resistenza agli attacchi del capitale, possa trovare un punto di riferimento politico. Il partito, infatti, è caratterizzato non solo dalla capacità di preservare nel tempo i principi fondamentali del comunismo rivoluzionario, di portare a compimento, là dove nuove situazioni lo impongano, analisi e aggiornamenti, ma anche dalla necessità di tradurre tutto questo bagaglio storico di esperienze in soluzioni tattiche che abbiano come costante riferimento l'obiettivo strategico rivoluzionario, e ciò è possibile alla sola condizione che il partito intervenga sempre e comunque all'interno della lotta di classe qualsivoglia sia il grado di intensità o il suo livello di radicalizzazione.

Teorizzare la "necessità" della Frazione quando "non c'è nulla da fare" e del partito quando il radicarsi della situazione impone "il tutto e subito" è un errore carico di nefaste conseguenze.

La Frazione italiana all'estero non solo operò in questo senso, lasciandosi superare dagli eventi (secondo conflitto mondiale) ma tentò di codificarla sommando al primo errore, un secondo, per certi aspetti ancora più grave:

II Bureau dichiara che la costruzione dei nuovi partiti e la fondazione della IV Internazionale non possono risultare che dallo sbocciare di movimenti proletari che si orientano verso la rivoluzione comunista. (22)

Bisogna rileggere il passo due volte per essere certi di non aver capito male.

Alla impostazione meccanicistica secondo la quale partito e situazione oggettiva si legano indissolubilmente, se ne aggiunge una seconda di carattere idealistico per cui l'attesa del salto qualitativo da Frazione a partito viene spostata ancora più in là, a quando cioè le masse, sospinte dalla crisi si orientino verso una soluzione comunista. A questo punto viene spontaneo chiedersi perché non spostare a dopo la rivoluzione la nascita del partito se si parte dall'ipotesi che le crisi hanno, oltre al potere di muovere le masse, anche quello di orientarle verso la soluzione rivoluzionaria? Se il rapporto crisi-masse è di per sé ispiratore di "soluzioni comuniste", la funzione del partito diverrebbe un fattore accessorio, secondario, di cui se ne potrebbe benissimo fare a meno, ed è inutile esercitazione teorica la sua collocazione storica.

Una simile impostazione del problema implica, se portata sino in fondo, due conseguenze tra loro complementari, entrambe false sul piano dell'elaborazione e controrivoluzionarie su quello della prassi:

  1. che il tanto invocato e idealizzato "partito di massa", che tale diverrebbe solo al culmine della lotta di classe, quando ormai il proletariato avrebbe posto "autonomamente " le condizioni politiche e organizzative per una soluzione comunista della crisi o della guerra, cesserebbe nei fatti di svolgere un ruolo determinante nell'evolversi degli antagonismi di classe, di avere la funzione di avanguardia politica che gli compete, e sarebbe un elemento secondario della lotta di classe, per non dire inutile;
  2. che la soluzione rivoluzionaria delle crisi risieda all'interno della classe come fattore di coscienza che aspetta solo il momento propizio per crescere e svilupparsi (autocoscienza) per cui al partito non spetterebbe nessun ruolo se non quello marginale di fungere da momento acceleratore di questo "fattore -coscienza".

In entrambi i casi l'impostazione marxista del rapporto partito-classe viene ad essere completamente stravolta per lasciare ampi spazi alle masturbazioni anarcoidi e operaiste. (23) Va detto, anche se per inciso, che la tendenza Vercesi all'interno della Frazione, sul problema classe-coscienza-partito nella prospettiva della guerra (prima che questa si verificasse), non commise questo errore, (ne commise di ben altri) ciò non di meno la teorizzazione resta e come tale va confutata, anche perché non pochi sono gli epigoni che, dichiaratamente o in maniera velata, ad essa si richiamano. Anche se Vercesi si arrampicò sugli specchi nel tentativo di attribuire a Marx la paternità di queste tesi (24), il fondatore del socialismo scientifico si è ben guardato dal teorizzare la "necessità" delle Frazioni e di attribuire all'auto-coscienza delle masse il compito di risolvere in senso rivoluzionario le crisi o le guerre del capitale. Per Marx i tracolli economici sono la condizione "sine qua non" dell'acutizzarsi della lotta di classe, ma sulla spinta di queste situazioni obiettive, il proletariato si muove non perché ha coscienza del fine storico, bensì perché "non ha da perdere che le proprie catene".

Ed è proprio nel rapporto deterministico crisi-muoversi delle masse che Marx inserisce il problema della coscienza, ovvero la questione partito.

Il partito non è qualcosa di diverso o di estraneo alla classe né è identificabile con la sua totalità ma è una parte di essa, la più avanzata e cosciente che ne unifica le lotte che la dirige verso un unico fine, quello rivoluzionario.

Non è possibile, e con Marx la storia delle lotte di classe ce lo insegnano, che la spinta proveniente dalla struttura economica sia in grado di orientare il proletariato in modo autonomo verso una soluzione rivoluzionaria, senza che quest'ultimo non abbia espresso, tramite la sua avanguardia, una tattica, una strategia, una volontà cosciente dei modi e dei mezzi materiali per la trasformazione sociale in senso socialista. Senza una struttura politica determinata, senza un partito che per tempo riesca, oltre che a prevedere gli accadimenti, ad organizzarsi per risolverli, il capitalismo potrà avere mille crisi, fare mille guerre ed il proletariato scendere mille volte in piazza, che non una soluzione rivoluzionaria vedrà la luce.

L'attendismo di Vercesi e compagni sembra più ispirato al confucianesimo che al marxismo: "siediti sulla sponda del fiume e vedrai passare il cadavere del tuo nemico". Ma aspettare messianicamente sulla sponda del fiume vuol dire, il più delle volte, farsi sorprendere alle spalle dal nemico e finire con la faccia nell'acqua. Così fu per la tendenza Vercesi. A furia di attendere la crisi, la guerra e l'orientarsi delle masse verso una soluzione rivoluzionaria, fu sorpresa da tutti questi fenomeni senza avere il tempo e l'opportunità di organizzare un intervento tempestivo.

Con l'ultimo punto della dichiarazione del Bureau Internazionale non si fa altro che rincarare la dose:

Solo la maturazione della classe fornisce la base di massa indispensabile alla trasformazione della frazione in partito. Costruire un partito di massa indipendentemente da questa maturazione significa distruggere la base ideologica del partito: la frazione di sinistra. (25)

Anche in questo caso il complesso rapporto crisi-partito-classe subisce la mortificazione di una impostazione meccanicistica che preferisce catalogare i fenomeni sociali in fissi metodi di comportamento piuttosto che seguirne la contraddittoria dinamica. Che significa, infatti, collocare la nascita del partito al termine di un "processo di maturazione delle masse" quando solo la operante presenza del partito può garantire questo processo? O le masse pervengono spontaneamente ai più alti livelli di coscienza maturando e sviluppando un modello di socialismo che è loro dato "a priori", come una sorta di "ricordo ancestrale" che viene rimosso in presenza di avvenimenti eccezionali, ed allora non ci sarebbe bisogno del partito, oppure la coscienza di questo fine (da non confondersi con la disponibilità alla lotta), è patrimonio di una parte ristretta della classe (la sua avanguardia) che ritorna sulla totalità per unificarne gli sforzi, per coordinarne verso un unico fine le molteplici istanze, per dare alla spontaneità un programma politico, ed allora il partito ha una sua ragion d'essere, è una necessità che accompagna la lotta di classe in ogni momento del suo manifestarsi e non soltanto a cose fatte.

Solo un partito che è presente quotidianamente nelle lotte, che ha saputo resistere nei momenti difficili, può determinare quel processo di maturazione delle masse che si vorrebbe avvenisse in sua assenza.

In altri tempi e sotto altre forme, anarchismo, spontaneismo e meccanicismo hanno dovuto ricorrere all'autocoscienza delle masse per negare o limitare il compito del partito rivoluzionario. Una delle analisi ricorrenti che viene prodotta come prova dell'inutilità o addirittura della nocività dell'organismo partito e, quindi della possibilità della classe in generale di maturare "autonomamente", risiede nella similitudine, per quanto riguarda questo specifico aspetto, tra la rivoluzione borghese e quella proletaria. In sintesi, secondo questa tesi, come la borghesia europea del diciassettesimo e diciottesimo secolo, nella sua mortale lotta contro le strutture economico-politiche del mondo della feudalità, è riuscita ad elaborare, in quanto classe, ancor prima dell'assalto rivoluzionario, una nuova concezione dello stato, dell'economia, del diritto, prefigurando le strutture fondamentali di un nuovo ordinamento sociale, senza organizzarsi in partito, od organizzandosi solo nel momento dello scontro finale, così il proletariato, inteso nella sua accezione più vasta, nelle sue lotte quotidiane e soprattutto in presenza di condizioni obiettive favorevoli, sarebbe in grado di fare altrettanto.

Niente di più falso. La borghesia ha potuto sviluppare una propria coscienza, darsi una cultura, prospettare una strategia politica senza ricorrere ad una struttura partitica centralizzata, se non nei momenti di attacco frontale, anzi ha mosso i primi passi come classe cosciente del proprio fine proprio sotto l'involucro politico-organizzativo della monarchia in quanto detentrice di capitale mercantile ed usuraio, perché, anche se "in nuce", era depositaria di un nuovo rapporto di produzione, e solo quando si convinse che il suo ulteriore sviluppo avrebbe definitivamente ed inconciliabilmente cozzato contro le vecchie strutture del feudalesimo, abbandonò il traballante carro della monarchia per rovesciarlo. Per la borghesia di quell'epoca, nuova classe economica emergente, sviluppo delle forze produttive e coscienza delle necessità di questo sviluppo procedettero su binari paralleli.

Per la classe operaia le cose stanno esattamente all'opposto. Con l'avvento del capitalismo il proletariato industriale ha assunto il ruolo di oggetto e non di soggetto economico, e più questa forma produttiva ha saputo svilupparsi, più l'ideologia dominante all'interno delle masse è risultata essere "l'ideologia della classe dominante". Non per niente il "materialista Marx" lega la ripresa della lotta di classe ai bruti fattori economici e non all'idealistica, quanto ipotetica, lievitazione delle coscienze. Con questo non si vuol affermare che il proletariato non possa "maturare" politicamente, si vuole soltanto sottolineare che i livelli di coscienza ai quali può arrivare la classe operaia, nel perdurare dei rapporti di produzione capitalistici, non vanno oltre i limiti del ribellismo e dello spontaneismo più o meno organizzato. La classe operaia, proprio perché oggetto sociale, necessariamente "mantenuta" dai ritagli economici e culturali della borghesia, non può pervenire nella sua totalità, al fine rivoluzionario ed ai mezzi tattici per raggiungerlo. Solo una parte di essa, la più preparata, la più avanzata politicamente, la più determinata per volontà e chiarezza del fine, può maturare la coscienza rivoluzionaria. Questa parte della classe i il partito. Se Lenin non avesse saputo magistralmente legare la rabbia delle masse, la spontaneità alla lotta, l'odio verso lo zarismo centuplicati dalle affamanti condizioni della crisi bellica al programma politico del partito bolscevico, ma avesse idealisticamente aspettato che questo programma con tutte le sue implicazioni tattiche uscisse, come per incanto, dall'autocoscienza di decine di milioni di oppressi, la storia non avrebbe potuto vedere nemmeno l'unico esempio di rivoluzione proletaria.

Quindi collocare la nascita del partito o, se si preferisce, la trasformazione della frazione in partito, ovvero inserire l'avanguardia politica, soltanto nel momento in cui si ridesta la lotta di classe con la relativa maturazione della coscienza, significa abbandonare Marx per correre dietro a Confucio. Vercesi si sedette sulla sponda di "quel fiume". Qualche tempo dopo lo ritrovarono a valle, bagnato fradicio dalla cima dei capelli- alla punta dei piedi.

La guerra e le capriole di Vercesi

Prima di entrare nel merito della questione occorre caratterizzare il clima che andò delineandosi all'interno della Frazione, sia per ciò che concerneva l'evolversi degli accadimenti internazionali, sia per ciò che riguardava l'organizzazione interna, tenendo conto di tre ordini di fattori:

  1. A che punto era pervenuta l'analisi della Russia e della guerra e che ruolo avrebbe giocato la prima nella seconda.
  2. Con lo scoppio della guerra la Frazione cessò quasi completamente qualsiasi attività politica, si allentarono i legami organizzativi tra la sezione che risiedeva in Francia e quella belga, anche tra i singoli compagni, all'interno delle rispettive sezioni, i contatti andarono allentandosi. Cessarono le più importanti pubblicazioni (26). Lo stesso Bureau International si sciolse al primo colpo di cannone.
  3. Per tutto il periodo bellico, ed in modo particolare tra il 1943 e il 1945 vanno scisse le responsabilità politiche tra ciò che restava della Frazione e la "corrente Vercesi" (27).

Russia e centrismo furono per anni al centro delle analisi della Frazione. Ciò le permise di sbarazzare il campo dagli equivoci più grossi nei quali precipitarono molte delle opposizioni di sinistra, prima fra tutte, il trotzkismo. La lunga polemica condotta in prima persona contro lo stalinismo e le sue appendici centriste sparse in tutta Europa, le consentì di concludere definitivamente con quella esperienza che, dopo quasi vent'anni di controrivoluzione, non poteva più rappresentare gli interessi del proletariato russo, nè tanto meno, quelli dei proletariato internazionale:

... il centrismo è diventato una delle forze essenziali per la dominazione del capitalismo in tutti i paesi. È certo che il centrismo, nel corso dei futuri movimenti rivoluzionari, avrà un ruolo controrivoluzionario di primo piano e c'è da prevedere che esso si farà carico di organizzare spedizioni punitive per massacrare i militanti rivoluzionari. Le rivoluzioni che hanno determinato nel centrismo la terza forma di dominazione della borghesia, impongono ai marxisti conclusioni che interessano non solo l'avvenire dello stato proletario di domani, per determinarne i fondamenti sulla base critica dell'esperienza sovietica, ma anche il processo attuale di ricostruzione del partito della classe operaia. (28)

Se chiara, quanto radicale, era in Vercesi l'analisi del centrismo tanto da collocarlo, giustamente, accanto alle altre due forme della conservazione borghese (fascismo e democrazia), non altrettanto preciso era il giudizio sulla struttura economica dell'ex repubblica dei soviet:

Il centrismo in Russia è l'espressione politica di una struttura economica che, essendo basata sulla legge dell'accumulazione capitalistica, determina uno sfruttamento sul proletariato. Il fatto che il beneficiario di questo sfruttamento, la classe che può utilizzarlo nell'interesse dell'organizzazione sociale che gli è propria, non si trova all'interno delle frontiere dello Stato Sovietico, ma sia il capitalismo internazionale, non cambia gli effetti di un meccanismo produttivo fondato sull'estrazione crescente di plusvalore... D'altra parte, il fatto che la natura di classe dello Stato, dipendente dalla forma di società fondata sempre sulla socializzazione dei mezzi di produzione, non era cambiata nell'interesse della restaurazione borghese, ha permesso a questo Stato d'intervenire in misura sempre più massiccia nel processo della lotta di classe dei vari paesi. La funzione reazionaria dello Stato russo poteva accompagnarsi al mantenimento della sua natura di classe, mentre il movimento operaio restava sulla posizione precedente, che la forma dell'organizzazione sociale (proprietà privata o socializzazione) conteneva in sè le esplosioni del contrasto di classe e del suo scoppio. (29)

La confusione è palese. Da un lato si continua a considerare la "socializzazione" elemento caratterizzante dello stato russo, dall'altro si constata l'esistenza operante delle leggi dell'accumulazione capitalistica con la relativa estorsione di plus-valore. Conclusione: la contraddizione esistente all'interno dello stato russo tra il permanere di un rapporto sociale basato ancora sulla socializzazione e uno sviluppo capitalistico dei rapporti di produzione, mentre avrebbe consentito lo spostamento dello stalinismo, inteso come organismo statale degenerato, sul terreno della controrivoluzione borghese, non avrebbe permesso la nascita della borghesia, intesa nel senso tradizionale, che fosse in grado di amministrare la quota di plus-valore che scaturiva dallo sviluppo sempre crescente dei meccanismi economici capitalistici, per cui l'appropriazione del plus-valore sarebbe stata una questione del capitalismo internazionale. In questo caso l'errore non fu di prospettiva ma di analisi. Totalmente estranea fu a Vercesi l'analisi delle forme organizzative che lo stato russo era andato costruendosi nella fase storica che andava dallo strangolamento della rivoluzione d'ottobre alle soglie della seconda guerra mondiale: il capitalismo di stato. Vercesi, nel tentativo di dare, in sede di analisi, una risposta al "fenomeno" Russia, alla sua contraddittoria esistenza, al rapporto tra lo stato russo ed il mondo capitalistico circostante, ed al punto di approdo dell'imperialismo alla fine degli anni trenta, privilegiò l'uso di vecchi metodi di indagine, di superate categorie d'analisi che se erano valide per il capitalismo pre-monopolistico, stentavano a dare una soluzione corretta alle più complesse determinazioni dell'imperialismo nella sua fase più matura, in altre parole, preferì voltarsi indietro piuttosto che guardare in avanti. Ecco perché Vercesi, e con lui una parte della Frazione, si attardò sul falso problema socializzazione-sviluppo del capitalismo e commise l'errore di giustificare "l'anima capitalistica" dello stato russo andando alla ricerca di una classe borghese, tradizionalmente intesa, che non poteva trovare. (30)

Per andare al fondo del problema bisognava legare il fallimento della rivoluzione d'ottobre alla linea di tendenza del capitalismo internazionale degli anni trenta, dopo cioè le devastanti conseguenze della "grande crisi" che determinarono radicali mutamenti nel tessuto economico capitalistico con l'abbandono delle teorie liberiste, nel campo della politica economica, per un intervento sempre più necessario dello stato all'interno dei rapporti di produzione. Questa tendenza, non scelta ma imposta dall'evolversi delle contraddizioni del capitale, non poteva consentire all'economia russa, uscita devastata dalle guerre civili e dalla stessa rivoluzione bolscevica, impossibilitata a progredire in senso socialista per l'isolamento da altre esperienze rivoluzionarie, un decorso "normale". Il fallimento della rivoluzione russa non poteva che spianare la strada al suo opposto: il ripristino e lo sviluppo del capitalismo, ma nelle forme e nei modi imposti dall'imperialismo internazionale.

Per il nascente capitalismo russo, ancor debole nelle strutture, in enorme ritardo nei confronti delle economie occidentali, non si poteva prospettare uno sviluppo tradizionale. Era illusorio, oltre che antistorico, aspettarsi dallo sviluppo del capitalismo in Russia la nascita di una classe borghese, espressione di una capacità imprenditoriale privata, che percorresse le tappe storiche delle borghesie ottocentesche (dal padrone delle ferriere al capitalismo di stato passando dall'economia liberista al monopolio, dal monopolio privato al capitalismo monopolistico di stato, ecc.), per due essenziali motivi:

  1. Se la Russia di Stalin, sulla base delle strutture portanti della NEP (31) voleva dare il “la” al processo di industrializzazione e colmare, anche se parzialmente, il divario tecnico e produttivo che la separavano dai capitalismi più avanzati, non poteva sperare nelle capacità imprenditoriali di una micro-borghesia, peraltro già esautorata dalla “socializzazione”, ma affidarsi all'intervento dello stato nei rapporti di produzione, di uno stato che assumesse in prima persona quel ruolo economico e politico che il mondo capitalistico esterno imponeva, e che nessuna borghesia, tanto meno quella russa, sarebbe stata in grado di realizzare.
  2. Per fare ciò occorreva uno stato forte, centralizzato, monolitico nella struttura ideologica, capace di pianificare e di far rispettare i tempi di pianificazione; uno stato, insomma, che rispondesse alle necessità strutturali della concentrazione economica con una centralizzazione politico-burocratica. Il fallimento della rivoluzione d'ottobre fornì alla controrivoluzione staliniana tutto questo.

In pratica, con la chiusura, nella seconda metà degli anni venti, di una fase rivoluzionaria apertasi con l'ottobre bolscevico, in Russia si manifestarono, sia in senso economico che politico-amministrativo, le condizioni per lo sviluppo del capitalismo di stato.

L'errore di Vercesi fu quello di prescindere completamente da questa analisi, di cercare, secondo i vecchi modelli capitalistici, la tradizionale classe borghese e, non trovandola, di attribuire al capitalismo internazionale il compito di amministrare il plus-valore estorto alla forza lavoro del proletariato russo. Una corretta analisi del rapporto deterministico tra la linea di tendenza dell'apparato produttivo capitalistico, nella sua fase più avanzata, e il nascente sviluppo del capitalismo russo, ovvero l'inserimento di una "nuova" economia nel tessuto sfibrato del "vecchio" imperialismo, avrebbe dovuto concludere con la constatazione di come la prima fosse condizionata dal secondo, sino al punto di anticiparne alcuni aspetti fondamentali, e non, come fece Vercesi, di comprimerla entro vecchi schemi di sviluppo tipici di un capitalismo progressivo. Nella fase di decadenza dei rapporti di produzione capitalistici, espressa dal dominio incontrastato del capitale finanziario, dal monopolio, dalla esasperata concentrazione dei mezzi di produzione, dal sempre più massiccio intervento dello stato nei rapporti economici come fattore dilazionante dell'esplodere delle contraddizioni economiche, creare le condizioni di una autonoma sopravvivenza economica, il più possibile competitiva, di una struttura imperialistica già data, significa assumerne le forme e i contenuti, anticipare i passi di questa tendenza, non tornare su di essi. Se la linea di tendenza del capitalismo degli anni trenta-quaranta si esprimeva già in termini di capitalismo di stato, come pretendere di trovare una borghesia in grado di assolvere a questi compiti con un comportamento economico e politico superato dalle stesse leggi del capitalismo? Sarebbe come pretendere che un neo-imprenditore capitalista avesse la presunzione di inserirsi competitivamente nell'arengo del mercato senza adeguarsi alle leggi del monopolio. Dire che il capitalismo è pervenuto alla fase del monopolio maturo, significa affermare che i rapporti capitalistici sono rapporti monopolistici e sono proprio questi ultimi a scandire il ritmo del processo di accumulazione del capitale globale. II problema non era quindi quello di ricomporre i tasselli di un vecchio mosaico ma di aggiungerne di nuovi.

Ma se l'errore di Vercesi sulla Russia non ebbe, al momento, ripercussioni rilevanti, ben più grave fu quello sulla guerra. Come abbiamo già avuto modo di documentare nella prima parte di questo lavoro, (32) sino al 1935 Vercesi, in sintonia con le posizioni internazionaliste, vedeva nella guerra il mezzo attraverso il quale il capitalismo internazionale tende a risolvere le contraddizioni del proprio sistema produttivo sul piano della violenza. Parlare di guerra significa riandare [ritornare] alla sua matrice economica, vuol dire legare l'effetto devastante alla sua causa prima. Il marxismo ha sufficientemente mostrato come le guerre non cadano a casaccio nella storia del capitalismo ma che si collocano necessariamente al termine dei grandi cicli di accumulazione, quando al capitale, o ad una parte rilevante di esso viene meno "l'ossigeno" del profitto. L'impossibilità o soltanto la difficoltà da parte dei settori trainanti dell'economia capitalistica di ottenere profitti remunerativi, in rapporto alla quantità di capitale impiegato nella produzione, esasperano la concorrenza tra capitale e capitale, tra monopolio e monopolio, tra i vari schieramenti dell'imperialismo per la conquista di nuovi mercati dove reperire materie prime, mano d'opera a minor prezzo e, soprattutto, dove collocare capitale finanziario. Accumulazione, crisi economiche, guerre commerciali, aumento degli armamenti e conflitti logistici sono il presupposto della guerra aperta senza tante aggettivazioni di comodo. Da sempre, ma in modo particolare nella fase di decadenza dei rapporti di produzione capitalistici, la guerra è l'unico mezzo attraverso il quale l'imperialismo può scaricare il peso delle proprie contraddizioni economiche attraverso una lotta "fratricida" per la conquista di spazi economici "vitali", che gli consentano, con la relativa distruzione dei mezzi di produzione, le condizioni di un nuovo ciclo di accumulazione. Accumulazione-crisi-guerra-accumulazione sono le leggi immanenti alla fase monopolistica del capitalismo, in una espressione ancora più sintetica: distruggere per ricostruire.

È evidente che, a questo stadio dello sviluppo contraddittorio del divenire capitalistico, due sono le direttrici fondamentali entro le quali si muovono le preoccupazioni della borghesia:

  1. Operare tempestivamente sul piano dell'armamento e della militarizzazione (ricerca tecnologica, addestramento qualificato, finanziamento statale per le industrie che già operano nel settore, trasformazione di parte della produzione civile in produzione bellica, ecc.).
  2. Prevenire una possibile ripresa della lotta di classe perché alla crisi del capitale si possa rispondere con una soluzione borghese: la guerra.

Negli anni che seguirono (1936-39) Vercesi andò maturando una nuova analisi sulla guerra che ne stravolse le finalità:

La concezione corrente nel movimento socialista a proposito delle basi antagonistiche della società capitalistica, partendo sempre dalla considerazione di una duplice contraddizione iniziale, giungeva alla conclusione della nascita di due corsi contrastanti: quello che doveva opporre agli Stati che si disputano il dominio dei mercati e delle colonie, e l'altro che vede l'opposizione delle classi, e nell'ordine, tra borghesia e proletariato... La situazione attuale ci obbliga a riconsiderare gli avvenimenti passati per renderci conto della legge essenziale che è all'interno del regime capitalistico e per capire che, anche i fatti che avevano assunto la forma esclusiva di contrasti inter-imperialistici, in definitiva non erano che una manifestazione della lotta tra le classi, che esprimevano un momento dello scontro che capitalismo e proletariato si fanno sul problema centrale del mantenimento o della distruzione delle basi della società attuale. (33)

Saremmo così in presenza di un "fenomeno", la guerra, non più legata alle leggi della determinazione economica, bensì come evento sovrastrutturale, staccato da quelle, come un atto di cosciente volontà da parte della borghesia nella sua perenne lotta contro il proletariato. Secondo questa tesi, le condizioni economiche in passato avrebbero determinato la necessità delle guerre, pur permanendo come fatto obiettivo, non sarebbero più operanti, in quanto:

... l'obiettivo circostanziale del capitalismo non consiste più nella conquista dei mercati e nella distruzione violenta dei prodotti e dei proletari, per sbarazzare l'economia dà un eccesso che fuoriesce dai quadri del regime. Nelle situazioni attuali, il livello delle forze produttive rende inoperante la distruzione di una data massa di produzione e di forze umane di lavoro; benché il problema si riproponga nuovamente in tutta la sua ampiezza, come lo provano le crisi sopravvenute nel dopoguerra, dopo le distruzioni cicloniche del periodo 1914-18. Lo scopo delle guerre è un altro; avendo queste perso ogni possibilità di concludersi con un adattamento della struttura dell'economia borghese in rapporto allo sviluppo tecnico, non hanno altro significato che quello di deviare l'attacco rivoluzionario del proletariato. (34)

La tesi è palesemente errata. Se il capitalismo fosse in grado di sopportare, pur senza risolverle, le sue più acute contraddizioni economiche non esisterebbero nemmeno le condizioni per un ripresa della lotta di classe, e quindi, la necessità da parte della borghesia di arrivare, nel suo scontro con il proletariato, alle estreme conseguenze. Paradossalmente Vercesi nel configurare un nuovo "perché" della guerra, sulla base di una errata analisi economica, arriva a determinare la sua inutilità.

Ma indipendentemente da ciò, indipendentemente cioè dalla necessità di rifiutare l'erroneità teorica di questa tesi, esiste, come prova contraria, l'esperienza della seconda guerra mondiale. Né Hitler come Stalin, né il governo francese come quello inglese sono scesi sul sentiero di guerra con lo scopo di rintuzzare gli assalti delle rispettive classi operaie, né di prevenirne l'urto. Al contrario, se facessimo anche solo un fugace parallelo con la fase storica che ha condotto allo scoppio della prima guerra mondiale, dovremmo constatare la quasi assoluta mancanza di fermenti insurrezionali da parte del proletariato europeo. Se si esclude la guerra civile spagnola che andrebbe valutata da un ben altro angolo visuale, non fu certamente il proletariato tedesco, con la sua lotta, a costringere la Germania nazista ad invadere la Polonia, né l'alto livello della lotta di classe in Russia obbligò Stalin ad invadere con la forza la Finlandia e ad annettere, complice l'imperialismo internazionale, Lettonia, Estonia e Lituania. Lo stesso discorso e, a maggior ragione, lo si deve fare per i restanti paesi che furono coinvolti nel conflitto e, non da ultimi, Giappone e Stati Uniti. La classe operaia europea si scosse soltanto nel cuore della guerra. In Francia, Italia e Germania si manifestarono i primi segni di "ripresa" solo nella primavera-estate del 43 con una serie di scioperi contro i salari di fame, contro il contenimento del costo della forza lavoro e la guerra.

Se fosse valida la teoria vercesiana della guerra come mezzo per "deviare l'attacco rivoluzionario del proletariato", dovremmo trarre, come unico insegnamento del secondo conflitto mondiale, che l'imperialismo internazionale abbia confuso i tempi o che, nella foga di anticipare l'avversario di classe, si sia fatto prendere la mano. In realtà nessuna delle due ipotesi è verosimile. La seconda, come la prima guerra mondiale, fu l'espressione non tanto del livello raggiunto dalla lotta di classe, quanto della impossibilità dell'apparato produttivo capitalistico mondiale, indipendentemente dai gradi di sviluppo al suo interno, di dare altro sfogo al persistere della crisi economica, apertasi in America nel 1929 e mai superata definitivamente.

Guerra e rivoluzione sono sì il portato della lotta di classe, ma mentre la seconda può nascere come risposta alla prima, questa non può mai essere una conseguenza della seconda, perché se la borghesia fosse costretta ad un confronto diretto con il proletariato non avrebbe né il tempo né i mezzi per operare su di un secondo fronte. Rimarrebbe la seconda delle ipotesi, quella preventiva, ma anche in questo caso (ammessa per ipotesi di discorso la sua possibilità), la borghesia in esame sarebbe costretta negli schemi del primo esempio, a fronteggiare cioè l'avversario di classe sul terreno dello scontro civile, rinunciando così a quella che avrebbe dovuto essere, secondo Vercesi, la sua arma segreta. Due cicli di accumulazione e due guerre mondiali hanno dimostrato che l'alternativa guerra o rivoluzione come risposta borghese o proletaria alla crisi del sistema produttivo capitalistico non risiede nella formulazione astratta di "ipotesi di lavoro", ma nel concreto operare delle due classi antagoniste sull'ancora più concreto evolversi delle condizioni obiettive.

Seguendo la tesi di Vercesi, o meglio la sua metodologia di analisi, sia per quanto riguarda il problema frazione-partito che per la questione crisi-guerra o rivoluzione si perviene sempre ad una conclusione contraddittoria.

Si partiva dalla enunciazione teorica della indispensabilità del partito per poi dimostrarne l'accessorietà; si attendeva la guerra come momento culminante delle contraddizioni economiche in cui inserire l'alternativa rivoluzionaria, per poi trasformarla "nella forma estrema della lotta del capitalismo contro la classe operaia". (35)

In questa impostazione metodologica sta la premessa "teorica" all'ulteriore passo falso che Vercesi compì sul finire della guerra. Tra la fine del 1944 e il 1945, Vercesi con un gruppo ristretto di "collaboratori" aderì al Comitato di Coalizione Antifascista di Bruxelles. (36) In questo periodo si sommarono all'opportunismo personale una serie di funambolismi teorici aberranti che comportarono la sua espulsione dalla Frazione nel gennaio del 1945. (37)

Opportunismo personale e funambolismo teorico, se furono alla base del "terzo periodo" di Vercesi, trovarono negli errori precedenti la base teorica su cui esprimersi. Così la guerra, da momento più propizio per inserire l'assalto rivoluzionario e la trasformazione della frazione in partito, si trasformò in momento di massima espansione del capitalismo (produzione bellica), in rafforzamento dei governi borghesi e nella conseguente "scomparsa del proletariato come classe": per cui, nelle fasi belliche, il sillogismo vercesiano concludeva che la scomparsa del proletariato comportava l'annientamento della lotta di classe e la non necessità del partito. (38)

L'impossibilità della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile fu il presupposto del "rien à faire" per i rivoluzionari, per i quali tutto era rimandato al dopo guerra, ribaltando di 180 gradi l'impostazione del 1933:

... domani non si tratterà più semplicemente d'eludere o di schivare il problema, di rinviarlo a quando la guerra sarà finita. Nel momento in cui questa sarà effettivamente terminata si tratterà di passare all'azione; in quel momento il capitalismo che ci ha procurato la guerra lascerà il posto al proletariato che regalerà all'umanità il socialismo e la pace. (39)

Nel ribadire il concetto nell'ottobre del '45 Vercesi si chiariva in questi termini:

Durante la guerra io dicevo a tutti quelli che potevo toccare, ai militanti, agli operai: non fate niente! Si sono fatti degli scioperi. Se io avessi potuto impedire questi scioperi, io li avrei impediti. Mi hanno inviato delle lettere con una specie di gangsterismo politico per invitarmi a passare all'azione, ma io posi questo problema: è vero che durante la guerra il proletariato è nell'impossibilità assoluta di manifestarsi? Nessuno mi ha potuto rispondere. (40)

La risposta la ebbe dalla stessa Frazione:

L'indegna posizione politica di Vercesi è stata dichiarata come revisionista, nel momento della conferenza della nostra frazione nel maggio del 1944 e consegnata nei documenti sotto il titolo "dichiarazione politica". La forza rivoluzionaria del proletariato non risiede in una unità formale, ma nell'unità attorno ad un programma rivoluzionario del suo Partito contro la guerra imperialista, contro il capitalismo in tutte le sue forme, fascista, democratica o sovietica, per la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile per la presa rivoluzionaria del potere proletario. (41)

Ancor prima aveva risposto Lenin nel marzo del 1917 a proposito di guerre e di rivoluzione:

Come è stato possibile questo "miracolo": che in solo otto giorni, termine indicato da Miliukov nel suo presuntuoso telegramma a tutti i rappresentanti della Russia all'estero, sia crollata una monarchia che si era mantenuta per dei secoli e che, malgrado tutto, aveva resistito per tre anni dal 1905 al 1907, alle formidabili battaglie di classe del popolo intero? Nella natura e nella storia non avvengono miracoli, ma ogni svolta repentina della storia, compresa ogni rivoluzione, offre un contenuto così ricco, presenta combinazioni così inattese e originali delle forme di lotta, che molte cose devono sembrare miracoli ad uno spirito di filisteo. Perché la monarchia zarista crollasse in pochi giorni è stato necessario il concorso di una serie di condizioni d'importanza storica mondiale... Questa rivoluzione di otto giorni è stata "recitata" se è lecita la metafora, precisamente dopo una decina di prove generali; gli attori si conoscevano, conoscevano la loro parte, il loro posto, il loro palcoscenico in lungo e in largo a fondo e conoscevano, fino in ogni sfumatura di una qualche importanza, le tendenze politiche ed i mezzi d'azione. Ma se dopo 12 anni dalla prima, grande rivoluzione del 1905, condannata come una grande ribellione dei singoli GUTSKOV e Miliukov e dai loro accoliti, ha condotto alla "brillante" e "gloriosa" rivoluzione del 1917 (rivoluzione di febbraio N.d.R.) che i Gutsckov e i Miliukov proclamano gloriosa poiché essa (per il momento) ha dato loro il potere, a ciò è stato necessario un grande, un forte, un onnipotente "regista" il quale da una parte fosse in condizione di accelerare enormemente il corso della storia universale e dall'altra parte generare delle crisi mondiali, economiche, politiche, nazionali ed internazionali di incomparabile intensità... Questo "regista" onnipotente, questo acceleratore vigoroso è stato la guerra imperialista mondiale. La guerra imperialista, doveva, per necessità obiettiva, accelerare straordinariamente ed inasprire incomparabilmente la lotta di classe del proletariato contro la borghesia; doveva trasformarsi in guerra civile tra le classi nemiche. (42)

Fabio Damen

(1) Tra le decine di migliaia di vittime dello stalinismo in questo periodo vale la pena citare alcuni elementi della vecchia guardia che pagarono con la vita il tentativo di opporsi alle direttive di Stalin e dei suoi manutengoli. A parte Bucharin, Kamenev e Zinoviev nel 1937 trovarono la morte davanti al plotone di esecuzione della NKVD, vecchi militanti del 17 come Nazaretian, Bauman, Kosior, Kujbysev, Rikov e Ordzonikidze.

(2) Questi accordi prevedevano inoltre la regolamentazione delle rispettive esigenze imperialistiche nel Nord Africa, per cui l'Italia riconosceva di fatto l'ingerenza francese in Tunisia, i nuovi confini in Libia, mentre la Francia lasciava mano libera a Mussolini in Etiopia.

(3) Passo tratto dall'opera di Roy A. Medvedev "Lo stalinimo".

(4) Il servizio segreto americano in Germania era riuscito ad avere informazioni precise sulla data e sulle principali modalità dell'attacco tedesco, in codice "Operazione Barbarossa". Fu personalmente Roosevelt a passare tali informazioni all'ambasciatore sovietico Konstantin Umanskij.

(5) Nel 1939 i servizi segreti dello Stato erano suddivisi in due sezioni. La NKVD, riservata agli affari interni (polizia politica) e la NKGB per la sicurezza dello Stato (controspionaggio). Fu proprio la NKGB che il 6 giugno 1941 informò Stalin che quattro milioni di soldati tedeschi erano stati trasferiti ai confini della Russia.

(6) Nei mesi che precedettero l'attacco tedesco, le forze del controspionaggio vennero in possesso di un rapporto del Feldmaresciallo Walter Brauchitsch in cui si leggevano i dettagli del piano di invasione della Russia. Dal Giappone Richard Sorge fu in grado di far pervenire a Stalin la data dell'attacco e l'organico impiegato. Pare perfino che l'ambasciatore tedesco a Mosca, avversario politico di Hitler, Shulemburg, in una cena di lavoro, alla quale parteciparono tra gli altri, l'ambasciatore sovietico in Germania Decanozov e l'interprete ufficiale di Stalin Pavlov, volle informare Stalin dell'imminente attacco.

(7) Nello "Stato Operaio" N. 8 dell'agosto del 36, esce un articolo "Manifesto del PCI agli italiani" per "Per la salvezza dell'Italia, riconciliazione del popolo italiano!", in cui si invitano le forze sane del fascismo ad una sorta di fronte comune per la salvezza dell'Italia.

(8) Con il trattato Stalin-Ribbentrop dell'agosto 1939, in Francia il Governo Deladier mise fuori legge il PCF e tutti i rifugiati politici comunisti (fra í quali Togliatti) che sostenevano la politica di aggressione della Germania nei confronti della Francia. Fu in quei frangenti che il centro clandestino del PCI si trasferì da Parigi a Ginevra e infine in America sotto la direzione di G. Berti.

(9) Nei mesi di maggio e giugno del 1935 G. Berti scrisse una serie di tre articoli sui numeri 8-9, 10 e 11 dello "Stato Operaio" contro il bordighismo.

(10) Da "Lutte ouvriere" N. 37.

(11) Ibidem.

(12) Nel 1927, in occasione delle stragi di Kanton e di Shangai, favorite dalla politica compromissoria e capitolatrice di Stalin e Bucharin che consegnarono il proletariato cinese disorganizzato e disarmato alla reazione borghese di Chang Kai-Shek, Trotzky si oppose duramente confutando la tesi secondo la quale, nella Cina della seconda metà degli anni 1920, non ci fosse lo spazio per una soluzione di classe e che, quindi, bisognava operare per una prospettiva progressista, appoggiando le "forze sane" della borghesia indigena, precludendo così ogni possibilità autonoma del proletariato cinese. Negli anni precedenti Trotzky si oppose non solo alla falsa tesi della possibilità della creazione del socialismo in un solo paese, ma anche alla concezione, palesemente controrivoluzionaria, che il proletariato internazionale fosse subordinato, da un punto di vista tattico-strategico, agli interessi dello Stato russo.

(13) La Frazione italiana ebbe il merito di aver seguito passo passo il processo di degenerazione della III Internazionale, dei partiti centristi e di aver denunciato per tempo la strada imboccata dalla opposizione trotschista. Al riguardo vedere, tra gli altri, l'articolo di V. Vedaro (Gatto Mammone) "Un grande rinnegato dalla coda di pavone: Leone Trotski" apparso in Bilan N. 46 del gennaio del 1938.

(14) Per una migliore comprensione del problema frazione-partito vedere l'articolo "Frazione-partito nell'esperienza della sinistra italiana" apparso in Prometeo N. 2 del marzo 1979.

(15) Da Bilan N. 1 novembre 1933. In questo articolo "Verso l'internazionale due e tre quarti" la Frazione elabora una serie di possibilità per condurre, in prospettiva alla vittoria il proletariato internazionale. Tra le altre quella di recuperare i partiti centristi. Dopo il 1935, questa possibilità verrà scartata definitivamente, per cui si pose il problema della trasformazione della fi azione in partito.

(16) Bilan N. 29 manzo aprile 1936, dall'articolo "La corsa verso la guerra".

(17) Dal rapporto sulla situazione internazionale, presentato da Vercesi al Congresso della frazione italiana della sinistra comunista internazionale appai so in Bilan N. 41 del maggio-giugno 1937.

(18) Vedere Prometeo N. 2 marzo 1979.

(19) Dal resoconto del Congresso della Frazione. Bilan N. 23 1935.

(20) La Frazione belga nasce ufficialmente il 21 febbraio del 1937 con una scissione della Lega dei Comunisti Internazionalisti del Belgio (organizzazione trotzkista) sulla base dell'opposizione al partecipazionismo alla guerra civile spagnola. In pratica, come si legge in Octobre N. 1 del febbraio del 1938, dalla Lega uscì quasi completamente il gruppo di Bruxelles meno tre elementi (tra i quali Hennaut). La nascita della Frazione belga fu il coronamento del lungo lavoro politico della F.I. contro il trotzkismo. Un anno più tardi (febbraio del 1938) le due Frazioni presero l'iniziativa di costituire un Bureau dell'internazionalismo proletario, del disfattismo rivoluzionario e per la creazione della internazionale delle Frazioni, primo passo verso la vera internazionale di domani.

(21) Dalla risoluzione sulla costituzione del B.I. apparso in Octobre N. 1 febbraio 1938.

(22) Ibidem.

(23) Al riguardo vedere di Marx l'Ideologia tedesca nella parte che riguarda il problema della coscienza ed il rapporto partito-classe.

(24) Vedere in Bilan il richiamo di Vercesi alla lettera di Marx del 1860 e allo scioglimento della I Internazionale.

(25) Dalla risoluzione sulla costituzione del B.I.

(26) Con l'inizio delle ostilità la Frazione cessò ogni azione politica ed editoriale. Non pubblicò più Octobre, organo mensile del B.I. Stessa sorte toccò a Prometeo, giornale mensile in lingua italiana che si pubblicava in Belgio e al Seme, bollettino di discussione in lingua italiana.

(27) La stessa partecipazione di Vercesi al Comitato di Coalizione Antifascista di Bruxelles non era conosciuta dai compagni "francesi".

(28) Ripreso dal "Rapporto sulla situazione internazionale". Già citato.

(29) Ibidem.

(30) Lo stesso errore fu commesso da Bordiga con 15 anni di ritardo. Nella polemica con O. Damen sul problema della Russia Bordiga, non accettando la definizione di capitalismo di stato, si sforzò di definire l'economia russa in base all'esistenza della classe borghese tradizionalmente intesa. Fu così che Bordiga nel 1946 credette di vedere nel capitalismo internazionale la "classe" sfruttatrice del proletariato russo. Nel 1952, abbandonata questa tesi insostenibile, passò ad un altra, per molti versi ancora più assurda, secondo la quale la struttura capitalistica della Russia è provata non dall'esistenza di una classe "statisticamente definibile" ma dalla "materiale forma di produzione capitalistica" (dal dialogato con Stalin). In altre parole la Russia era capitalista perché era capitalista. Solo dopo il 1960 Bordiga pensa di aver individuato nella burocrazia di stato e nella piccola borghesia, la classe sfruttatrice, ed accetta la definizione di capitalismo di stato.

(31) Si vuole qui brevemente ricordare che Lenin, nel dare il via alla nuova politica economica (NEP), intesa come necessità vitale, mise in guardia il partito dai pericoli insiti nella riapertura dei meccanismi economici mercantili e che, comunque, questa misura economica eccezionale era adottata temporaneamente in attesa di eventi rivoluzionari nell'Europa occidentale che permettessero all'economia sovietica di riprendere il cammino interrotto verso una soluzione socialista, altrimenti impossibile.

(32) Prometeo N. 2 1979.

(33) Dal rapporto sulla situazione internazionale. Già citato.

(34) Ibidem.

(35) Ibidem.

(36) Il Comitato di Coalizione Antifascista di Bruxelles era un organismo sorto dall'iniziativa delle forze politiche "democratiche", in modo particolare dal PSI. per assicurarsi una base di consenso politico tra gli emigrati politici.

(37) Con una circolare del 21-01-1945 il CE della Frazione italiana espelle Vercesi dall'organizzazione con voto unanime.

(38) Vercesi approdò ad altre posizioni controrivoluzionarie sul problema dello stato di transizione e sul ruolo della violenza di classe. Questi due "atteggiamenti" politici si possono già trovare in Octobre N. 2 e 5.

(39) Tratto da un articolo di Vercesi apparso su "L'Italia di domani" N. 10 del 10 marzo 1945. L'Italia di domani era l'organo politico, in lingua italiana del Comitato di Coalizione Antifascista di Bruxelles.

(40) Dall'esposizione di Vercesi alla riunione del 6 ottobre 1945.

(41) Dalla circolare del 20-01-1945. Già citata.

(42) "Lettere da lontano" pubblicate sulla Pravda nel marzo del 1917.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.