Antagonismo sociale o riformismo antico?

Nonostante i durissimi colpi che riceve, qui in Italia, come altrove, non sa, se non in maniera sporadica e comunque insufficiente, accennare una risposta che possa in qualche modo almeno attenuare gli attacchi feroci cui è sottoposta; peggio ancora, è andata via via smarrendo anche la propria identità di classe, di una classe che ha interessi immediati e storici del tutto opposti a quelli di questa società. In pratica, finora la borghesia è riuscita a plasmare e condizionare la mentalità e i comportamenti del proletariato, tanto che ciò che un tempo era semplicemente l’ABC della lotta di classe, ora deve essere completamente reimportato nella classe stessa. Questo è oggi il compito primario dei comunisti, di coloro cioè che si prefiggono il superamento rivoluzionario dell’attuale ordine sociale; occorre dunque preliminarmente fare estrema chiarezza su quella area politica cosiddetta antagonista - apparentemente molto variegata - che in qualche modo si crede rappresentante dell’opposizione al sistema.

In realtà, dal nostro punto di vista, essa non può assumersi questo compito: erede più o meno diretta della controrivoluzione staliniana e di tutte le correnti opportuniste del movimento operaio, è totalmente incapace di comprendere la reale natura del capitalismo, assolutamente inetta nel maneggio dell’unica arma, il marxismo, che consente di far saltare per aria il modo di produzione capitalistico.

In particolare, quella che una volta era l’Autonomia operaia e che oggi, di fatto, egemonizza i Centri Sociali, è forse l’esempio più puro dello stravolgimento teorico (dunque pratico) del marxismo.

Nata, come espressione ideologica, una trentina di anni fa dal filone dei Quaderni Rossi, pretendeva (soprattutto da parte di Tronti che, tra l’altro, è sempre appartenuto al PCI) di aver scoperto un nuovo modo di essere del capitalismo, un capitalismo che aveva superato le proprie mortali contraddizioni là dove hanno origine, cioè nella produzione, grazie a un fantomatico “piano del capitale”, per cui, se antagonismo ci fosse stato, questo si sarebbe espresso nella sfera della distribuzione, ossia nella lotta tra padroni e operai per strapparsi a vicenda quanto più reddito possibile.

Era così rifiutata la visione, che noi crediamo tuttora scientificamente valida, secondo la quale il capitalismo va verso crisi sempre più gravi proprio perché non può, per sua stessa natura, governare e curare se stesso: certamente può rallentare la marcia verso la catastrofe economica (che non necessariamente ha uno sbocco rivoluzionario...), ma alla lunga non è in grado di arrestarla.

Agli occhi di tanti può sembrare strano, ma quelle teorie che negano l’oggettività delle leggi del capitale o per lo meno la loro validità per la nostra epoca, sono le stesse, nella sostanza, dei padri del riformismo e dell’opportunismo classici che già all’inizio del secolo lavoravano attivamente per integrare il movimento operaio nell’ordine sociale borghese.

Ci sembra giusto, a questo punto, spendere qualche parola su questioni di carattere teorico, non per una sorta di civetteria culturale, malattia che eternamente appesta la piccola borghesia radicaleggiante, ma perché crediamo indispensabile mostrare, per combatterle, le teorie e le prassi politiche che da sempre accompagnano il movimento operaio e che tendono a cancellarne la carica sovversiva.

Aveva cominciato per primo - a cavallo fra 1800 e 1900 - E. Bernstein, il quale affermava esplicitamente che il capitalismo, grazie alle trasformazioni subite in quegli anni, era diventato qualcosa di diverso rispetto a quello analizzato da Marx, perché aveva trovato la ricetta giusta per superare le crisi e aumentare in maniera costante il tenore di vita della classe operaia, in virtù anche del fatto che la crescente influenza dei lavoratori e delle loro organizzazioni avrebbe via via attenuato i caratteri illiberali dello stato e permesso, dopo una serie di pacifiche e democratiche tappe di avvicinamento, la conquista del potere politico. Anzi, quest’ultima, in quanto presupposto della successiva trasformazione in senso socialista della società, non era più necessaria: proprio perché la nuova (e per Bernstein definitiva) fase del capitale permetteva l’occupazione di spazi sempre più larghi di “socialismo” (stavamo per dire “contropotere”...) all’interno della società borghese, la classe operaia doveva convogliare tutte le sue energie verso questa direzione e non abbandonarsi a utopistici progetti rivoluzionari. D’altra parte ciò non era possibile perché, contrariamente a quanto credevano Marx ed Engels (e noi con loro), il modo di produzione capitalistico non aveva leggi oggettive a cui obbedire, ma la sua dinamica interna era condizionata solamente dai rapporti di forza tra le classi.

Per quanto riguarda il salario, ad esempio, il padre di tutti i riformisti esprimeva posizioni non molto diverse da quelle di chi oggi pensa di essere - spesso in assoluta buona fede - un antagonista radicale, proprio perché non credeva ai limiti oggettivi, a quelle che in altro modo vengono definite le compatibilità del sistema economico:

“La massa dei beni di consumo prodotti annualmente cresce in maniera costante; non esiste una legge economica naturale [che non sia naturale in assoluto è evidente, così come è evidente, per noi, che il capitalismo ha delle leggi naturali sue proprie] che prescrive quale parte di essi debba andare agli strati sociali che producono e forniscono servizi, e quale debba andare come tributo ai possidenti. La distribuzione della ricchezza è stata in ogni epoca una questione di potere e di organizzazione. [...] Il problema del salario è un problema sociologico che non si potrà mai spiegare in termini puramente economici.” (E. Bernstein, citato in Il futuro del capitalismo, Laterza, 1970, pag.449)

Se così stanno le cose (ma così non stanno!) va da sé che è sufficiente avere forti organizzazioni sindacali - ed eventualmente crearne di nuove se si sono burocratizzate... - per migliorare le condizioni della classe operaia, indipendentemente dallo stato di salute dell’economia, cioè da quello che essa può o non può permettersi di dare su pressione (sempre) delle lotte operaie.

Ma la parentela tra le basi teoriche dell’Autonomia e quelle del riformismo classico è più evidente, forse, se si va a prendere R. Hilferding, altro pezzo da novanta della socialdemocrazia dei primi decenni del secolo. Egli, infatti, nel Capitale finanziario, la sua opera maggiore, sosteneva che il nuovo periodo in cui era entrato il capitalismo, caratterizzato dalla affermazione dei grandi gruppi monopolistici, dei trust e dei cartelli [accordi tra le imprese per regolamentare -fino a un certo punto- la produzione e spartirsi le aree di mercato ] faceva sì che si andasse verso un unico grande cartello, il quale sarebbe prima o poi arrivato a pianificare e dunque controllare totalmente la sfera della produzione, eliminando di conseguenza la contraddizione primaria del capitale:

“Tutta la produzione capitalistica viene consapevolmente regolata da un organismo che decide del volume complessivo della produzione in tutti i settori.”

L’antagonismo non sarebbe scomparso, ma si sarebbe trasferito, un cinquantennio prima di Tronti, nel mercato, nella distribuzione:

“Siamo dunque alla società retta consapevolmente in forma antagonistica. Ma questo antagonismo è antagonismo nella distribuzione.” (citazioni tratte da R. Hilferding, Il capitale finanziario, Feltrinelli, pag. 308)

Ecco, anche per questo diciamo che c’è affinità profonda tra questi filoni del movimento operaio, che non è solo teorica ma anche pratica. I meno giovani dell’area ricorderanno senz’altro la pratica secondo la quale poiché il “piano del capitale” poteva non solo “anticipare (cioè controllare) l’insorgenza di classe che si esprimeva in fabbrica, ma addirittura servirsene per rafforzarsi, occorreva che “l’operaio sociale” (??) si costruisse spazi liberati, zone di contropotere (una specie di socialismo in un quartiere solo, insomma) in cui praticare il proprio antagonismo e dal quale -per i più estremisti...- partire, un giorno, per l’assalto al potere, un potere però dai contorni sempre più vaghi e scollegato, in fondo, dai reali rapporti tra le classi.

Era del tutto ovvio, allora, che il massimo del sovversivismo fosse “l’esproprio proletario”, cioè, guarda un po’, il prelievo senza pagare delle merci là dove sono generalmente esposte al pubblico, perché i rapporti di forza erano favorevoli.

Ma lo svuotamento di qualche negozio era ed è meno di niente per il sistema nel suo complesso, così come gli “spazi di contropotere” senza reali radici nella classe e senza un preciso indirizzo rivoluzionario possono essere tutto meno che effettive basi proletarie nel territorio nemico: anzi, si può anche tollerarle quelle pratiche (come i borghesi meno ottusi sanno: Leoncavallo insegna) se in questo modo si perviene a contenere la rabbia dei proletari giovani e meno giovani.

Avviene così che scambiando le proprie fantasie per la realtà, tutto può essere possibile anche se la materialità dei fatti è altra cosa. Ecco allora che i teorici dell’ “antagonismo sociale” si immaginano una classe operaia sempre forte, sempre all’attacco (per il semplice fatto di esistere) tanto da provocare le crisi del capitalismo e costringere quest’ultimo a ristrutturazioni radicali dell’organizzazione del lavoro. In questo modo, è bene ribadirlo, si fa strame dell’unica teoria conseguentemente rivoluzionaria, il marxismo:

“La lotta per un aumento salariale si scatena sempre in seguito a mutamenti avvenuti in precedenza (cioè nel mondo della produzione), essa è il frutto inevitabile di modificazioni precedenti..., dell’aumento o dell’intensificazione del lavoro strappato all’operaio.... si tratta, in breve, di reazioni del lavoro contro azioni precedenti del capitale.” (K. Marx, Salario, prezzo e profitto, Roma 1969)

Quindi, di norma, non è il capitale che subisce i contraccolpi dell’ “insubordinazione operaia”, ma è esattamente il contrario; e se proprio non si vuole rimanere attaccati a un metodo d’analisi ritenuto sorpassato, basterebbe guardare con la mente sgombra da pregiudizi due secoli circa di storia operaia o, più semplicemente, fare ricorso al banale buon senso per smontare quei deliri: come mai, se la classe operaia è sempre così forte, tanto forte da costringere il suo nemico a cambiamenti radicali, non riesce ad evitare di essere sfruttata, licenziata immiserita, massacrata nelle guerre che, in ultima analisi, ha provocato con la sua semplice esistenza? Si dovrebbero riporre ben poche speranze su un soggetto (sociale) che appare intrinsecamente afflitto da istinti suicidi e masochisti!

Questa specie di riformismo alla rovescia che sarebbe praticato da un proletariato smisuratamente potente e nel medesimo tempo enormemente idiota, secondo noi non esprime nient’altro che il riformismo viscerale del cosiddetto “antagonismo sociale”.