L'euro c'é ma non paga né salari, né pensioni

Farà più ricchi i già ricchi mentre i proletari andranno in guerra

Andiamo in macchina quando ormai più dell'80 per cento delle transazioni commerciali correnti nei dodici paesi dell'Ue in cui ha corso legale vengono regolate in euro per cui non è difficile prevedere che dal primo marzo, data in cui è prevista in tutti i paesi aderenti la fine del regime di doppia circolazione, si arriverà al 100 per cento.

Nella storia moderna non era mai accaduto che una moneta nascesse senza uno stato unitario di riferimento. L'unico precedente che si potrebbe richiamare è quello della Zollverein, l'unione doganale realizzata nel 1833 sotto l'impulso della Prussia dai vari stati tedeschi per contrastare la concorrenza della potente Gran Bretagna e che poi condusse alla loro unificazione.

Il contesto storico però è talmente mutato che pronosticare per l'Europa un epilogo analogo appare alquanto azzardato non potendosi ancora neppure escludere sia un fallimento del progetto sia un suo ridimensionamento che in qualche modo sarebbe in ogni caso un fallimento.

Nondimeno siamo lo stesso in presenza di un evento di portata storica.

Se è, infatti, vero che alla nuova moneta manca uno stato unitario di riferimento e la sua stessa costruzione tecnica presenta non poche contraddizioni e limiti, come per esempio lo scarso coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio dei vari stati aderenti, è anche vero che alle sue spalle vi è l'area economica che produce la quota maggiore del Pil mondiale e che già ora, nonostante non abbia corso legale in tutti i paesi dell'Ue, ha dato vita alla seconda area monetaria del mondo. Certo, da qui a diventare la prima ne corre, ma è proprio perché la sua nascita costituisce il primo mattone di un nuovo sistema dei pagamenti internazionali che si può parlare appunto di evento di portata storica.

Dalla fine della seconda guerra mondiale tutta l'economia occidentale e quella giapponese e dopo il crollo dell'Urss, l'economia mondiale è ruotata attorno al dollaro.

Per questo fatto gli Usa hanno goduto e godono tuttora di immensi privilegi economici e finanziari che si concretizzano nell'appropriazione di una gigantesca rendita con cui finanziano il loro debito sia pubblico sia privato, il mantenimento della loro potente macchina bellica e, cosa forse ancora più importante, consente alle loro grandi imprese transna-zionali di integrare i saggi di profitto industriali che da almeno trent'anni a questa parte tendono inesorabilmente ad assottigliarsi. Ora, l'euro per il semplice fatto che esiste mette in discussione questo primato. Per ogni scambio internazionale, a cominciare da quello del turista in giro per il mondo per finire alla concessione e alla regolazione dei debiti e dei crediti fra gli stati che saranno regolati in euro e non più in dollari, gli Usa perderanno una quota della loro gigantesca rendita finanziaria. Più saranno numerosi i regolamenti in euro e minore sarà la rendita appan-naggio degli Usa.

La partita che si è aperta ha come posta in palio, dunque, proprio la liquidazione del monopolio del dollaro quale mezzo di pagamento internazionale: cosa questa né facile né scontata. Una moneta per svolgere questo ruolo deve innanzitutto essere riconosciuta come tale anche al di fuori della sua area di riferimento. Il dollaro lo è perché alle sue spalle vi è la più grande potenza del mondo, cosa da cui l'Ue è ben lontana dall'esserlo e anche dal divenirlo in quanto priva di uno stato centrale unificato, di un corrispondente apparato militare e perfino di un governo centralizzato dell'economia essendo a tutt'oggi deputata al governo della stessa nuova moneta la sola Bce (Banca Centrale Europea).

Si tratta di questioni di tale portata che fanno sì che ancora oggi i cosiddetti euroscettici siano molto numerosi. Negli Usa, per esempio, proprio in considerazione di queste difficoltà, fino a qualche anno fa, a credere nell'euro erano in pochissimi e ancora oggi la maggioranza degli osservatori gli pronostica un futuro al massimo di moneta d'area, al pari dello yen, ma non la conquista dello status di mezzo di pagamento internazionale in concorrenza con il dollaro se non del tutto alternativo a esso. Sfugge però a costoro che l'euro non è stata una scelta, ma si è reso necessario per fronteggiare l'instabilità del mercato dei cambi conseguente alla rottura del sistema monetario internazionale fondato sulle parità fisse (costruito con gli accordi di Bretton Woods alla fine della seconda guerra mondiale) decisa nel 1971 proprio dall'allora presidente degli Usa, Nixon. Anche per gli Usa non si trattò di una scelta, ma dell'unica via di uscita che si offriva loro per superare la gravissima crisi in cui versavano a causa di una verticale caduta del saggio medio del profitto industriale manifestatasi come prodotto delle contraddizioni insite nel processo di accumulazione capitalistica e nei termini previsti dalla critica marxista dell'economia politica.

Ne è scaturita una crescente corsa all'appropriazione parassitaria di plusvalore che ha il suo fulcro nel sistema finanziario e nella sua capacità di generare rendita mediante la produzione di capitale fittizio che tanto più ha successo quanto maggiore è la forza della moneta in cui viene espresso. Si tratta, però di un meccanismo fortemente contraddittorio che proprio per il fatto di essere incentrato sulla produzione della rendita finanziario accelera la centralizzazione dei capitali e favorisce quelli più grandi a svantaggio dei più piccoli.

Le crisi finanziarie che hanno travolto il Messico, il Brasile, la Russia, le cosiddette Tigri asiatiche e l'ultima che ha distrutto l'economia argentina sono il prodotto delle contraddizioni di questo sistema. Il serpente monetario europeo (1972), il Sistema monetario europeo (SME 1979) e il trattato di Maastricht, in vigore dal novembre del 1993, sono stati altrettanti sistemi di difesa che i paesi europei hanno adottato sia per non essere travolti dalle ricorrenti crisi finanziarie internazionali sia per non rimanere esclusi dai processi di spartizione e appropriazione della rendita stessa.

La forza dell'euro, paradossalmente, risiede proprio nello strapotere del dollaro e nel fatto che un'eccessiva dipendenza da esso può risultare esiziale. D'altra parte le dimensioni del mercato finanziario ormai globalizzato e deregolamentato sono tali che solo le monete che hanno un'area di riferimento almeno di dimensioni continentali hanno la possibilità di reggere il confronto internazionale e la forza di resistere alle crisi sempre più frequenti. Ed è proprio in questa chiave che va letto l'annuncio di molti paesi extraeuropei, a cominciare dalla Cina e dal Giappone, di voler modificare la composizione delle loro riserve valutarie aumentando la quota in euro. Perfino la Gran Bretagna, che finora ha guardato all'euro con sufficienza quasi fosse un capriccio o una stravaganza, è ora costretta a rivedere la sua posizione. La politica monetaria britannica, fin qui sempre in sintonia con quella statunitense, e protesa a mantenere la sterlina sopravvalutata è stata fin qui possibile, infatti, grazie al petrolio del Mar del nord. Ma ora quei giacimenti sono in via di esaurimento, già nel 2001 la produzione si è ridotta di ben 200 mila barili al giorno e viene stimato che nel volgere di dieci anni essa potrebbe non essere sufficiente a soddisfare neppure il fabbisogno nazionale. Peraltro la sterlina sopravvalutata ha ridotto la competitività delle merci britanniche e messo in gravi difficoltà il sistema industriale inglese tanto che a chiedere l'ingresso nell'euro è, con sempre maggiore insistenza, proprio la Confindustria.

In questo contesto le recenti dichiarazioni dei ministri italiani Tremonti, Bossi e Martino che hanno portato alle dimissioni del ministro degli esteri Ruggiero risulterebbero perfino ridicole se lette davvero come espressione di una volontà antieuropea piuttosto che come prodotte delle beghe interne della politica nazionale. L'euro può anche fallire, ma fuori dall'euro il fallimento è certo. Né maggior credito meritano le dichiarazione di coloro come il presidente della Repubblica Ciampi e della Commissione europea Prodi che assicurano che grazie all'euro si profila un'epoca di maggiore benessere e di pace. È vero proprio il contrario. Le ragioni stesse che ne hanno determinato la nascita lasciano invece prevedere un'ulteriore accentuazione di tutti i fenomeni connessi alla crescita della finanzia-rizzazione e fra questi quello per cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Per quanto riguarda la pace poi basti pensare che già ora, per esempio, il Fondo monetario internazionale, il cui regolamento prevede che debba aver sede nel paese che versa la maggiore quantità delle quote che lo costituiscono e a questo ne assegna, di fatto, la direzione, dovrebbe trasferirsi in Europa e rimane a Washington soltanto perché le quote dei paesi europei continuano a essere considerate come versate da paesi diversi seppure versate nella medesima valuta. Per quanto ancora un cavillo giuridico potrà avere il sopravvento sul dato di fatto tanto più che dire Fondo Monetario Internazionale significa di fatto esercitare il controllo della politica monetaria dei paesi indebitati con l'estero, cioè della stragrande maggioranza dei paesi produttori di petrolio e di materie prime?

Non è un caso se in coincidenza dell'entrata in circolazione dell'euro non sono state aumentate le pensioni o gli stipendi dei lavoratori europei, ma si è provveduto a costituire una forza militare europea di intervento: è che l'euro, proprio perché figlio di una crisi strutturale profondissima, è inevitabilmente anche l'ultimo pomo della discordia.

gp

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.