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Home ›La Cina alla conquista dell’Africa
La lotta per i nuovi equilibri imperialistici
L’impetuosa crescita economica della Cina nell’ultimo decennio pone alla ribalta del capitalismo internazionale un’imperialismo emergente dinamico, oculato e lungimirante, ma allo stesso tempo spregiudicato in tutta la sua esuberante aggressività.
Terreno di conquista del gigante orientale sono i paesi in via di sviluppo di Asia, America latina e Africa. Forte della sua tradizione terzomondista e di sostegno alle vecchie lotte di liberazione nazionale, fatti di grande rilievo politico-ideologico risalenti alla lontana epoca di Mao, la strategia del presente della leadership cinese si caratterizza per una fortissima accelerazione dell’espansione sul piano commerciale, a cominciare dalle aree della periferia capitalistica, e di crescente influenza politica nel mondo e nelle istituzioni internazionali.
Con un curriculum tanto compassionevole e di amicizia nei confronti dei più deboli, contrariamente al discredito dell’occidente accumulato in secoli di dominio coloniale e di sfruttamento perpetrato ancora oggi sotto le apparenti “libere” leggi del mercato globalizzato, è ovvio che molti paesi delle aree più arretrate del pianeta, pur consapevoli di una possibile nuova sudditanza, scelgano il male minore o comunque chi offre maggiori garanzie in questa fase storica sotto il profilo finanziario e imprenditoriale.
In una certa misura la penetrazione cinese in queste aree ha la parvenza della reciprocità, circa il 50% delle esportazioni cinesi sono qui allocate contro oltre il 60% delle importazioni provenienti dagli stessi territori. Inoltre i prestiti concessi da Pechino sono molto più flessibili e tassi d’interesse più bassi, a volte addirittura nulli, rispetto aquelli delle usuraie istituzioni occidentali, tanto che in alcune circostanze è stata la stessa Cina ad aiutare i paesi africani maggiormente in difficoltà saldandone il debito.
Naturalmente tanta generosità non è dovuta al cuore tenero della borghesia di stato o di quella privata cinese, le quali per brutalità e tirannia non sono seconde a nessun’altra, ma al fondo c’è una precisa strategia, che vede l’Africa in modo particolare, quale serbatoio di materie prime da sigillare e mettere in cassaforte, a garanzia della sostenuta presente e futura crescita industriale del paese.
Alcune cifre sulla penetrazione della Repubblica Popolare Cinese in Africa: l’interscambio commerciale alla fine del 2006 dovrebbe raggiungere i 50 miliardi di dollari. I progetti finanziati sono circa 800 in 49 stati africani, appaltati direttamente a ditte cinesi con manodopera quasi tutta proveniente dalla casa madre. Le opere riguardano i settori minerari e le più svariate attività produttive, ma anche strade, ponti, porti, ospedali e scuole.
La priorità assoluta, però, è garantirsi l’accesso alle fonti energetiche, petrolio e gas, per non dipendere eccessivamente dalla precaria situazione mediorientale, regione dalla quale attualmente proviene la metà delle importazioni cinesi di greggio. A tale scopo la Cina ha compiuto ingenti investimenti azionari nei giacimenti petroliferi esistenti e accordi per nuove prospezioni, oltre alla costruzione di oleodotti e raffinerie, stringendo solide alleanze con i paesi interessati: Angola, Sudan, Nigeria, Chad e Gabon.
Un tassello importante nella scalata imperialistica cinese è stata la creazione del Forum per la Cooperazione tra Cina e Africa nel 2000, fortemente voluto da Pechino, e giunto al terzo summit nel novembre dello scorso anno. L’incontro ha ulteriormente rinsaldato i legami e fatto capire alle altre potenze imperialiste che la Cina è una realtà con la quale bisogna fare i conti e che non è disposta a mollare le sue prede. Infine, dando un altro segnale di magnanimità, ha cancellato 10 miliardi di yuan (circa un miliardo di dollari) dal totale dei debiti bilaterali dei 31 paesi africani aderenti al Forum.
Mentre le ditte e le istituzioni finanziarie occidentali ritengono rischioso investire in questi paesi a causa delle guerre, la corruzione e la debolezza dei governi, facendone, falsamente, anche una questione ideologica per la mancanza di democrazia e disumanità di quei regimi, la Cina lungi da questa ipocrisia parolaia, investe, esporta capitali e competenze tecniche, in cambio amplia i mercati di sbocco delle sue merci e importa materie prime (oltre a petrolio e gas, diamanti, oro, platino, ferro, tabacco, cotone, inoltre è il primo consumatore di legno tropicale, zinco, nickel e rame) ed è molto apprezzata dai paesi africani per la puntualità e l’efficienza con cui esegue gli accordi commerciali. D’altra parte essa, grazie all’enorme surplus commerciale può permettersi di rischiare e ,quindi, trova sbocco con impieghi diretti nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, ma anche e soprattutto, come si addice necessariamente a qualsiasi centrale imperialistica della nostra epoca, attraverso la collocazione di capitale finanziario nelle aree più avanzate, come gli stessi Stati Uniti, dove Pechino è tra i maggiori detentori di titoli dello stratosferico debito pubblico americano.
La crescita di grandi paesi come Cina e India, se da una parte è una valvola di sfogo all’asfittico processo di accumulazione capitalistico, allo stesso tempo significherà in futuro esasperarne esponenzialmente le contraddizioni. La deregolamentazione e la globalizzazione paradossalmente si stanno ritorcendo contro l’occidente a capitalismo più maturo, a vantaggio dei nuovi colossi economici. L’ideologia neoliberista sta favorendo proprio questi ultimi che non temono la loro concorrenza, perché possono mettere sul piatto della bilancia condizioni di sfruttamento complessivo della forza-lavoro, di tipo semi schiavile, improponibili nei paesi avanzati.
Tutto questo getta altra benzina sul fuoco delle crescenti tensioni internazionali. Per esempio anche gli Usa stanno tentando di diversificare i loro approvvigionamenti energetici e guardano con rinnovato interesse al continente nero. Attualmente il 14% delle importazioni americane di petrolio proviene dall’Africa, e le previsioni dicono che salirà al 25% nei prossimi anni. Sono del tutto chiari, dunque, i motivi di contesa e di concorrenza che già si delineano tra i due più grandi consumatori di petrolio al mondo, rispettivamente Stati Uniti e Cina, e più in generale i motivi che vedono l’acuirsi dello scontro interimperialistico.
cgBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #1
Gennaio 2007
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