Alitalia: i lavoratori pagheranno per tutti

Tra trattative con Air France e cordate italiane fantasma si consuma il fallimento dell’Alitalia

Mentre scriviamo queste note, la questione Alitalia ha preso una svolta drammatica, benché tutt’altro che inattesa: Spinetta, presidente di Air France-KLM, ha abbandonato il tavolo dei negoziati, rendendo così sempre più concreta la prospettiva del fallimento e, perché no?, di un eventuale futuro acquisto a prezzi stracciati dei pezzi economicamente redditizi dell’ex compagnia di bandiera italiana.

Ora, tutti accusano tutti di irresponsabilità, massimalismo sindacale (!), inerzia politica, in una babele di dichiarazioni tale per cui l’unico commento che verrebbe in mente sarebbe quello tante volte usato nel cinema hollywoodiano: “è una sporca faccenda, e ci siamo dentro tutti”. Che sia sporca, non c’è alcun dubbio, che “ci siamo dentro tutti”, nemmeno, a condizione di dare ad ognuno il ruolo e la responsabilità che gli competono.

Manager di stato, politicanti, imprenditori, sindacati e lavoratori sono gli attori di questa tragicommedia, ma chi recita la parte della vittima e chi quella del boia. Infatti, in qualunque modo vada a finire (fallimento, assorbimentoacquisizione da parte di AF-KLM o di altri soggetti ancora) gli unici a rimetterci, in vario modo, saranno i lavoratori.

Questo è inscritto nel DNA del sistema capitalistico in generale, dunque anche nella versione italica, particolarmente cialtrona e intrallazzatrice. Non si tratta, ovviamente, di preferire né idealizzare un presunto capitalismo migliore, magari in chiave europea, ma semplicemente di rilevare un dato di fatto.

Basta guardare alla storia degli ultimi dieci-quindici anni per rendersene conto.

Mentre, di solito, gli altri paesi europei hanno un solo “hub” (cioè un grande aeroporto internazionale), l’Italia, dopo Fiumicino, ha messo in piedi (o, meglio, a terra) Malpensa, che da sola contribuisce per 650.000 euro alla perdita di un milione di euro registrata giornalmente da Alitalia. Il tutto per ragioni clientelar-affaristiche, cioè per suscitare consenso elettorale tramite l’esibizione di un presunto prestigio nazional-padano (questo per gli ingenui) e, soprattutto, per offrire l’opportunità di spartire una ricca torta ai piranha del mondo politico-affaristico-sindacale.

Qualcuno, forse, potrebbe chiedersi cosa c’entrino i sindacati con la gestione di Alitalia: c’entrano, eccome, e per due buoni motivi. Il primo, del tutto scontato, è che da quando è cominciata la privatizzazione della compagnia - primi anni novanta; ma lo stato detiene ancora poco meno del 50% delle azioni - le organizzazioni sindacali hanno sottoscritto ogni genere di accordo, ogni sacrificio (per i lavoratori, inutile dirlo) in nome del rilancio della produttività per il bene dell’azienda e del paese, il che ha voluto dire tagli all’occupazione, aumento dei carichi e degli orari di lavoro, diminuzione degli stipendi; in sintesi, un sistematico peggioramento delle condizioni di vita. Il secondo è che, per un certo periodo - e sempre per carità di patria - CISL, CGIL, ANPAC (il sindacato dei piloti) sono entrati nel consiglio di amministrazione, diventando corresponsabili delle politiche d’impresa.

Non bastava, dunque, che facessero ingoiare ai lavoratori rospi grossi come gatti, hanno voluto dare il contributo a scelte aziendali per lo meno bizzarre, come quella di concentrarsi sulle rotte a breve raggio nel momento in cui si verificava il boom delle compagnie low cost (cioè dai biglietti a basso prezzo), per altro generosamente sostenute anche e non da ultimo dalle amministrazioni periferiche dello stato (regioni, province, comuni). Detto tra parentesi, un altro caso in cui i più accesi neoliberisti “fanno impresa” con i soldi degli altri, cioè i nostri.

Ma al di là delle politiche industriali sballate, al di là delle stratosferiche retribuzioni concesse a manager più o meno incapaci (incapaci?), rimane un dato di fondo ineludibile, uno scoglio su cui sono naufragate altre blasonate compagnie di bandiera. Anche nel trasporto aereo, l’asprezza della concorrenza internazionale accelera la tendenza alla concentrazione dei capitali, tipica del modo di produzione capitalistico. Ogni fusione/acquisizione significa inevitabilmente taglio dei “rami secchi”, dei “doppioni”, degli “esuberi” (come a suo tempo fecero AF-KLM e altre compagnie: vedi, per esempio, Il sole 24 ore del 03-04-2008), cioè una razionalizzazione basata esclusivamente sulla logica del profitto. Accettando questa logica - come fanno, va da sé, governi e sindacati - si può al massimo mercanteggiare sui modi e sui tempi dei tagli, se si hanno le risorse necessarie per mettere in campo gli ammortizzatori sociali, per altro finanziati dai prelievi su salari e stipendi. Tutto il resto è chiacchiera, cinica, infame speculazione elettoralistica, come le “sparate” di Berlusconi, che in quanto a cinismo infame non è secondo a nessuno (pur essendo in numerosa compagnia).

Per esempio, il tanto sbandierato piano di AirOne

non “salvava” Malpensa nella sua configurazione attuale. Se Air France è decisa ad eliminare il 90% delle attività lì basate, quello di Carlo Toto [presidente di AirOne - ndr] limitava il danno a un 50%, ma solo dopo l’eventuale “ripresa” dell’azienda.

F.Piccioni, il manifesto, 21-03-2008

E evidente che anche una possibile (?) cordata di imprenditori italiani deve tenere ben salda la bussola della redditività, tanto più che la “liberalizzazione dei cieli”, cioè la caduta delle restrizioni nel traffico aereo tra Europa e USA, renderà ancora più dura la concorrenza e, quindi, solo le compagnie più forti potranno stare sul mercato (se si escludono i finanziamenti pubblici).

Prendere atto di questa situazione non vuol dire rassegnarsi al presunto male minore, a qualche centinaio di “esuberi” in meno, al contrario. Significa prima di tutto prendere coscienza dell’incompatibilità tra gli interessi del capitalismo (col suo codazzo di parassiti, tra cui politicanti e sindacalisti) e quelli dei lavoratori: mai come nei momenti di crisi diventa evidente che le due cose non possono conciliarsi, perché l’interesse dell’uno si può perseguire solo calpestando quello degli altri.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.