La crisi del capitale rallenta?

Forse, ma per il proletariato internazionale i problemi continuano ad aggravarsi

Secondo i dati forniti dall’Ocse, Fmi e Bce, la crisi sarebbe arrivata a toccare il fondo e da questo momento in avanti, pur lentamente, la ripresa sarebbe dietro l’angolo. Il peggio sarebbe passato e nuovi orizzonti di prosperità economica e sociale sarebbero alle porte. Tutto bene? Neanche per sogno. Secondo queste stime l’ulteriore contrazione del Pil dell’Eurozona passerebbe dal pronosticato -4,8% ad un “soddisfacente” -3,9%. Quello italiano da un pesante -5,2% ad un -5,5%. Per gli Usa, patria della devastante crisi internazionale, le stime sono, grossomodo, le stesse. Ma, come si diceva, la paura del presente dovrebbe lasciare il campo alla speranza se non all’ottimismo.

Una simile enunciazione merita almeno tre commenti a caldo.

Il primo è che il rallentamento della crisi e la ripresa economica, per ritornare ai livelli del 2007, data dell’esplosione della crisi finanziaria, ci impiegheranno almeno 5/7 anni, se tutto va bene e se altre ricadute non intervengono ad interromperne il cammino. Nel frattempo il capitale darà vita a tutti i meccanismi economici a lui necessari per temperare gli effetti devastanti che la sua crisi ha posto in essere, quali una maggiore concentrazione dei mezzi di produzione, una centralizzazione dei capitali finanziari, un incremento dello sfruttamento nell’economia reale, con tutte le ricadute del caso sulle condizioni di vita e di salario della forza lavoro. Per il momento l’unico dato certo è che la produzione della ricchezza sociale, pur rallentando il suo decremento, continua ad esprimersi a livelli negativi macinando disoccupazione a milioni d’unità in tutti i segmenti del mercato mondiale.

Il secondo riguarda proprio la brutale cancellazione dei posti di lavoro. Nella Ue il tasso di disoccupazione è ufficialmente del 9,5% pari a quindici milioni di disoccupati. Negli Usa il tasso è arrivato al 9,7%, pari a circa diciotto milioni di lavoratori senza lavoro, il dato peggiore dal 1983 e gli analisti prevedono che entro la fine dell’anno si supererà la soglia statistica e psicologica del 10%. In Cina le cose vanno “meglio” ma non più di tanto. Il governo centrale ha emesso una serie di dati errati per difetto, a volte contraddittori, molto spesso imprecisi. Ne risulta in ogni caso che il tasso di disoccupazione si aggira sul 5%. Il dato però non comprende i licenziati dal settore pubblico e solo una parte di quelli che hanno perso il posto di lavoro nel settore privato. In termini quantitativi attualmente in Cina ci dovrebbero essere circa quaranta milioni di disoccupati di cui ventisette solo nel settore dei cosiddetti migranti, quelli che nella fase precedente si sono spostati dalle campagne verso i centri industriali e che ora sono costretti a fare il viaggio di ritorno, senza lavoro e senza salari. L’altro dato sconfortante è che con la ripresa economica, quando ci sarà, nei tempi e soprattutto nei modi che le incombenti leggi di accumulazione renderanno praticabili al capitale per risollevare le sue sorti, la disoccupazione continuerà ad aumentare, e non è detto che in un decennio si possa arrivare ai livelli del 2007. Solo per l’Italia è previsto un incremento di un milione di disoccupati per il 2010.

Il terzo si riferisce alle soluzioni immediate e future di questa crisi che, non dimentichiamolo, è la più devastante dopo quella del 1929. Al riguardo il capitale ha più soluzioni, sempre che sulla scena non irrompa la lotta di classe. In mancanza di questa al capitale si aprono più opzioni da percorrere a seconda delle scelte che, di volta in volta, vengono ritenute le più idonee a rimettere in moto la macchina della produzione di plusvalore ai ritmi e ai livelli necessari alla ripresa del processo di valorizzazione del capitale stesso.

Con un proletariato debole, politicamente orfano di un partito genuinamente classista, senza prospettive immediate di lotta e di una visione strategica complessiva, al capitale resta il compito di sedersi a tavolino e di individuare con calma le linee più idonee al superamento della sua crisi. Oltre agli stimoli fiscali, alle iniezioni di capitale nel settore finanziario, al sostegno diretto e indiretto all’economia reale, finanziati con il debito pubblico, ovvero con gli stessi soldi dei proletari nella veste di contribuenti, c’è la possibilità di accelerare il processo di esportazione della crisi verso le economia più deboli, facendo pagare ad altri il peso delle proprie contraddizioni, di usare il mercato come strumento di veicolazione delle conseguenze della crisi stessa. In alternativa, o contemporaneamente, di incrementare l’uso della forza attraverso episodi bellici con il duplice obiettivo di ottenere subito il “necessario” vantaggio economico, finanziario, in termini di accaparramento delle materie prime energetiche, di salvaguardia del ruolo della propria divisa a livello internazionale e di distruzione di capitale, condizione questa per la ripresa di un nuovo ciclo di accumulazione, dando, oltretutto, impulso ad una parte dell’economia, quella legata al settore militare, come nel caso degli Stati Uniti, ma non solo.

L’altro punto di applicazione dei percorsi per uscire dalla crisi è quello che riguarda l’ulteriore attacco alle condizioni di lavoro, salariali e normative del mercato del lavoro. Sia negli Usa sia nella vecchia Europa, in Cina come negli altri paesi emergenti, la linea di tendenza è quella di, da un lato, portare alle estreme conseguenze il già pesante fardello di normative che legano la forza lavoro alle necessità del capitale, dall’altro di mettere in atto “soluzioni” innovative che consentano un maggiore sfruttamento del proletariato per consentire la ripresa degli investimenti e del ciclo produttivo con margini di profitto adeguati alla remunerazione dei capitali impiegati. La crisi lo impone, le normative arrivano e la speranza del capitalismo è che il proletariato, con il solito “responsabile” atteggiamento dei sindacati, si adegui senza fare tante storie, anche perché, come recita l’assioma borghese, alternative non ce ne sono, perciò tutti al lavoro per rimettere in moto la macchina dei profitti.

L’alternativa invece c’è. Alla barbarie del capitalismo, che prima cancella milioni di posti di lavoro e che poi li ripristina in parte alla sola condizione di un maggiore sfruttamento della forza lavoro con l’aumento dei ritmi lavorativi, l’allungamento della giornata lavorativa, l’allargamento dei contratti di lavoro che, mentre danno certezza al capitale di avere i profitti più alti quando la baracca tira, la tolgono ai lavoratori in termini di temporaneità del lavoro, di flessibilità, mobilità e disoccupazione quando la stessa baracca non tira più; alla barbarie che crea le condizioni della guerra, dell’affamamento di centinaia di milioni di proletari, carne da profitto in tempi di pace, carne da cannone in quelli di guerra, si deve opporre la lotta di classe che non si limiti al piccolo cabotaggio della difesa dei propri interessi contingenti (condizione necessaria del suo esprimersi) ma che, sotto la guida del partito di classe, tenda al superamento di una società basata sul profitto, sullo sfruttamento, sulla divisione in classi al servizio degli interessi del capitale, altrimenti quello stesso capitale che le crisi le genera, con tutto il suo fardello di guerre, di miseria e devastazione globali, riprenderà il suo ciclo più perverso e devastante di prima sino alla prossima crisi.

FD, 2009-09-08

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.