Il prezzo del greggio crolla mentre il livello dello scontro imperialistico sale

Il tutto nel bel mezzo di una crisi che non accenna a finire e nelle tragiche pieghe di una barbarie imperialistica che non ha mai fine.

Secondo la classica analisi del neoliberismo non è successo nulla. Anzi, tutte le tesi che si sforzano di vedere cosa c’è dietro, sono destinate al fallimento o, tuttalpiù, sono adatte a sorreggere inutili suggestioni che, non appartenendo al mondo della realtà, si rifugiano nella tanto vituperata farsa della dietrologia. Secondo la tesi del neoliberismo il calo del prezzo del greggio, che nello spazio di poco tempo è passato dai 120 dollari a circa 55, altro non sarebbe che il risultato della solita legge del mercato e delle sua capacità di autoregolamentazione. La crisi, la diminuzione della produzione e, quindi, dei consumi energetici hanno investito la vecchia Europa, il Giappone e la Cina. Quest'ultima, pur incrementando il suo sviluppo capitalistico, si mantiene su indici inferiori di quelli del recente passato. Naturale quindi che la domanda di materie prime energetiche diminuisca e che prezzi facciano altrettanto. Per cui nessun problema, nessuna lotta tra gli imperialismi, al massimo saremmo in presenza della solita competizione di mercato tanto cara al neoliberismo.

Simili analisi lasciano il tempo che trovano e non meritano nessun commento se non quello che la banalità è la madre di tutte le stupidaggini. Il problema non è rappresentato dal diminuito consumo che agisce inevitabilmente sui prezzi, ma del perché l’Opec abbia, nonostante questo, deciso di non modificare l’offerta di petrolio per sostenerne il prezzo, come ha fatto più volte nel passato.

Una prima risposta sembra essere fornita dalla tesi, in base alla quale, sul mercato del petrolio sarebbe in atto un feroce attacco degli Usa e dell’Arabia Saudita contro i mortali nemici quali la Russia e l’Iran. Certamente la diminuzione del prezzo del greggio colpisce tutti i produttori e in modo particolare quelli che fanno dell’esportazione del petrolio la componente maggiore della propria economia come la Russia, l’Iran e il Venezuela. Come è altrettanto certo che gli Usa stiano sferrando un duro attacco alla Russia sia sul piano delle sanzioni che su quello diplomatico per indebolirne il peso economico (quello petrolifero in particolare) e quello politico nei confronti dell’Europa e non solo. Così come l’Arabia Saudita ha tutto l’interesse a penalizzare un antagonista come l’Iran sul terreno economico, confessionale e politico per continuare ad avere il monopolio religioso dell’area, del culto del dio petrolio e della conseguente lucrosa rendita che ne deriva. L’impostazione sembrerebbe reggere, e in parte regge, se non che tra gli stessi Usa e l’Arabia Saudita, l’alleanza lascia il posto alla concorrenza, la reciprocità degli interessi immediati e strategici all’egoismo imperialistico in termini di esportazioni di petrolio, di dominio nel settore energetico e di ruolo nell’area del Medio oriente. Per cui l’accoppiata Usa - Arabia S. contro Russia e Iran induce ad alcune perplessità e incongruenze. Il quadro di riferimento continua certamente ad essere quello dello scontro imperialistico, gli interpreti sono gli stessi ma gli schieramenti rispondono a logiche e a interessi molto più complessi e contraddittori.

Il tutto prende le mosse dalla scoperta e dallo sfruttamento nel Nord America dello shale gas. Gli Usa sino agli inizi degli anni duemila importavano per il loro fabbisogno energetico il 60% del petrolio necessario. Da circa quattro anni, secondo i dati dei maggiori Centri di ricerca di Washington, con l’impiego dello shale gas, la dipendenza energetica dall'estero sarebbe scesa al 20%. Le stesse fonti ipotizzano il raggiungimento della piena autonomia nel 2050 e, successivamente, la possibilità che gli Usa diventino anche esportatori, collocandosi ai vertici della produzione e della distribuzione di petrolio su scala mondiale.

Tralasciando per un attimo la fondatezza di simili previsioni, sottacendo della dura lotta degli ecologisti contro i metodi di estrazione (fracking) che lascerebbero nel sottosuolo almeno il 30% delle sostanze chimiche usate per l’estrazione con tutti i rischi di inquinamento del suolo e delle falde acquifere, rimane la perplessità di molti tecnici sugli alti costi di estrazione e di raffinazione, così come sulla presunta autonomia energetica. Molti geologi del settore ed esperti finanziari del Post Carbon Institute e l’Energy Policy Forum hanno seri dubbi che la fratturazione idraulica sia una tecnica economicamente competitiva e sostenibile per l’ambiente. Anche la tanto declamata autonomia energetica che, secondo le previsioni più ottimistiche si raggiungerebbe al più tardi entro il 2050, appare essere più un miraggio che una speranza. Molto più facile che sullo shale gas negli Usa sia in atto l’ennesima bolla speculativa. Infatti, grazie all’interesse del capitale finanziario speculativo di Wall Street, i dati sulle riserve americane di shale gas sarebbero stati falsati con una sovrastima del 400%.

Quasi certamente dietro l’euforia sullo sfruttamento dei giacimenti di shale gas si nasconde il dato di fatto che l’attuale produzione provenga soltanto da due grandi giacimenti di petrolio da scisti (il Bakken Shale tra North Dakota e Montana e l’Eagle Ford in Texas), i cui picchi di produzione sono concentrati in aree molto limitate, e da altri cinque campi di shale gas. Buona notizia per gli investitori, per le Company che estraggono e per gli speculatori, ma insufficiente per gli analisti che cercano di vedere il più lontano possibile.

Inoltre la preoccupazione dei geologi è che, nell’arco di 10 anni, gli idrocarburi fratturati si esaurirebbero o sarebbero estraibili a costi sempre maggiori e con investimenti in tecnologia sempre più alti sino a renderne antieconomica l’ulteriore produzione. In aggiunta, gli attuali costi di produzione non consentono un vantaggio economico dello shale gas se il prezzo di vendita sul mercato internazionale avvenisse al di sotto dei 75 dollari a barile come sta avvenendo in questo periodo.

Ma per l’economia dell’Arabia saudita il campanello d’allarme è suonato lo stesso. Infatti, il regno dei Saud, oltre ad essere, per esportazione e per giacimenti in attività e da mettere in esercizio, il maggiore paese petrolifero, è da decenni il più importante fornitore di petrolio per gli Stati Uniti. Va da sé che una autonomia energetica degli Usa, anche se solo paventata, porrebbe dei seri problemi all’Arabia Saudita, sia sul terreno economico che su quello politico delle alleanze. Non ultimo, avrebbe una notevole incidenza sulla sua possibilità di continuare a giocare un ruolo di primo piano nell’ambito della rendita petrolifera all’interno dell’Opec, di esercitare quello di leader politico nell’area medio orientale con tutti gli effetti negativi derivanti dal ridimensionamento del suo peso specifico in termini di operatività imperialistica.

Disaggregando questo dato geopolitico, abbiamo che l’interesse maggiore della monarchia saudita sta nel contrastare la prospettiva americana dell’autosufficienza energetica basata sullo sfruttamento dello shale gas. Come? Agendo all’interno delle criticità di questo progetto, ovvero sugli alti costi di estrazione che non consentono la vendita dello shale gas al di sotto dei 75 dollari a barile.

Non a caso nella riunione Opec del novembre scorso l’Arabia Saudita ha lavorato diplomaticamente, e con grande determinazione, per convincere l’alleato-competitore Qatar, il Kuwait, gli Emirati e la recalcitrante Iran a non abbassare le quote di estrazione per non concorrere al rialzo del prezzo del greggio che, nelle strategie saudite, non doveva ritornare sopra il livello dei 75 dollari a barile.

Fonti ufficiose riferiscono che la stessa Russia, per voce della dirigenza della Lukoil e con il sostegno dello stesso Governo Putin, abbia dato il suo consenso esterno (la Russia non fa parte dell’Opec) alla proposta saudita per un basso prezzo del greggio. La cosa può lasciare dei dubbi e delle perplessità in quanto il basso prezzo del petrolio colpirebbe anche, se non soprattutto, l’economia russa che, ormai da qualche anno, si basa per il 60% del suo Pil sulla esportazione di gas e petrolio. Anche se così fosse, a questo riguardo possono intervenire altri fattori a controbilanciare l'iniziale, pesante, svantaggio economico.

Anche alla Russia, vittima e carnefice in questo contraddittorio scontro tra imperialismi, come all’Arabia Saudita, interessa mettere i bastoni tra le ruote al tentativo degli Usa di diventare autosufficiente da un punto di vista energetico e, in prospettiva, di essere tra i maggiori esportatori di petrolio e gas ponendosi in diretta concorrenza con gli interessi di Mosca che, attualmente, sommando le esportazioni di petrolio e gas, risulta essere il maggior esportatore mondiale. In sintesi un sacrificio economico, anche se pesante dovuto ai bassi costi del greggio, e solo per qualche anno, pur di mandare a catafascio il progetto dello shale gas, potrebbe valerne la pena, sempre che i calcoli del Kremlino siano esatti e non vengano perturbati da effetti collaterali non desiderati.
La Russia, pur avendo molte difficoltà interne e internazionali di natura economica e politica, dovute alle sanzioni e al difficile rapporto con l’occidente, ha rinnovato lucrosi contratti economici basati sull’esportazione di idrocarburi con l’Europa e, soprattutto, ne ha recentemente creati di nuovi con la Cina, nonostante la determinata opposizione di Washington su entrambi i fronti.

Le esportazioni russe si basano prevalentemente sul petrolio, mentre quelle di gas rappresentano un quota solo di poco più bassa, per cui il paventato danno economico sarebbe, tutto sommato, abbastanza contenuto e, nel breve periodo, sopportabile.
La Russia infatti con 44000 miliardi di metri cubi ha le più importanti riserve di gas al mondo. Mentre le riserve di petrolio ammontano soltanto a 10 miliardi di tonnellate. Non a caso la Gazprom, compagnia controllata dallo Stato, è di gran lunga la più importante delle Major russe nel settore energetico, ben al di sopra della Lukoil e di tutte le altre imprese che operano nel settore petrolifero.

Per l’Arabia saudita il discorso è più semplice e lineare. Oltre al tentativo di disinnescare la minaccia dello shale gas, le preoccupazioni di Riad nei confronti di Washington si spostano sul terreno delle alleanze con paesi amici e su quello dello scontro con gli avversari. L’idea di mantenere basso il costo del petrolio ha come secondo obiettivo quello di penalizzare l’Iran del nuovo corso. Non consentire all’Iran di uscire dalle sanzioni, fargli subire le conseguenze della politica al ribasso dei prezzi, sono le condizioni più efficaci per tentare di eliminare un pericoloso concorrente su tutti quei terreni precedentemente citati. Per di più la politica americana nei confronti dell’Iran sta cambiando. Per il governo Obama attrarre il paese degli Ayatollah all’interno della propria orbita o, quantomeno, di attenuarne la virulenza politica, significherebbe iniziare a sottrarre uno dei maggiori produttori di petrolio e di gas all’influenza russa, di staccarlo dalla collaborazione petrolifera con l’Iraq e di sciogliere più facilmente il nodo energetico che vincola Washington all’Arabia Saudita. Questa appare per essere la deriva politica che gli Usa stanno percorrendo. La questione nucleare c’entra poco, e di questa nuova situazione si è accorto il regime di Teheran che ha raccolto la palla al balzo dichiarandosi disponibile a tutti i controlli sulle sue centrifughe nucleari e, come valore aggiunto, si è prestato a concorrere alla Coalizione contro l’IS, mandando i suoi caccia in Siria contro le basi militari del “Califfo nero”. In aggiunta, un Iran senza sanzioni, alleato degli Usa e con un nuovo ruolo da giocare in tutta l’area del Caspio attirerebbe know how, maggiori investimenti, aumentando la sua produzione e la possibilità di scandagliare nuovi pozzi, mettendo così in crisi la supremazia arabica nel campo energetico e nel suo ruolo geopolitico. I conti sono presto fatti. Se gli Usa possono fare a meno del petrolio saudita, se l’Iran entra in qualche modo nella sfera americana, il futuro di Riad si riempirebbe di nuvole nere. Ecco un altra ottima ragione della decisione saudita di operare all’interno dell’Opec per mantenere basso il prezzo del petrolio contro i disegni americani e contro la possibile “riabilitazione” dell'Iran.

Va da sé che anche la Russia giocherà la sua partita sia sul tavolo del ribasso del prezzo del greggio, fintanto che sarà in grado di sopportarlo, per danneggiare gli Stati Uniti, sia sul tavolo degli aiuti all’Iran nel tentativo di sottrarla alle sirene americane che mai, come in questo momento, suonano le dolci melodie dell’inganno.

Tutto questo è solo un possibile, quanto sintetico, quadro del muoversi degli imperialismi sulla questione petrolio, gas, prezzi e quantità di produzione. Mentre sullo sfondo, ad accelerare i movimenti, gli attacchi e i ripiegamenti, permane la crisi economica che non mostra di uscire da quel tunnel in cui ha infilato l’economia mondiale devastando i livelli di vita di centinaia di milioni di lavoratori.

I giochi dell’imperialismo si dipanano, come al solito, con la rottura di vecchie alleanze, con la creazione di nuove, temporanee e strumentali. Perseguono ferocemente i loro interessi con guerre commerciali, con guerre guerreggiate, con la barbarie delle devastazioni ambientali e umane. L’Arabia saudita gioca la sua partita, l’Iran coglie le sue opportunità, la Russia cala le sue carte migliori. Gli Usa spingono sull’acceleratore dell’autonomia energetica ben sapendo che se le cose dovessero andare male, o non nel giusto verso, si consolerebbero con il tentativo di mantenere il dollaro come coefficiente degli scambi internazionali, petrolio compreso, rintuzzando gli attacchi dell’euro, delle manovre sino-russe di opporsi al dominio della divisa americana. Intanto per il petrolio, per le sue vie di commercializzazione, per il suo prezzo si combatte in Ucraina, in Siria e in Iraq. Nella guerra del petrolio sono presenti tutti, dalla Russia agli Usa, dall'Europa ai paesi arabi che fanno parte della Coalizione anti IS, che oggi combattono con la stessa determinazione e velocità con le quali hanno favorito la sua nascita. Intanto decine di migliaia di civili sono morti, milioni di profughi siriani e iracheni sono sull'orlo di una emergenza umanitaria. Rischiano di morire di fame e, con l'avvicinarsi dell'inverno, anche di freddo. Altri disperati, lavoratori, proletari, ingannati delle rispettive borghesie combattono gli uni contro gli altri in un gioco al massacro che li vede comunque perdenti indipendentemente dalla sponda di appartenenza

Giochi che l’imperialismo può condurre a suo piacimento sino a quando il suo avversario di classe non brandirà la bandiera dell’anticapitalismo, della lotta senza quartiere contro qualsiasi soluzione nazionalista, sganciandosi con il suo strumento politico dai condizionamenti delle rispettive borghesie, dalle manovre degli imperialismi e dalla barbarie che essi producono.

FD, dicembre 2014
Lunedì, December 8, 2014