Quel “fenomeno intellettuale” di Piketty (Il capitale nel XXI secolo)

Abbiamo scorso le quasi mille pagine del volume (il più venduto secondo Amazon) nel quale l’economista francese Thomas Piketty ci offre le sue riflessioni sul tema: Il capi tale nel XXI secolo (edito da Bompiani). Questo “fenomeno intellettuale” (così definito da alcuni professori delle Università americane dove il libro ha avuto un “immenso successo”) si concentra sulla “evoluzione”, nel corso degli ultimi due secoli, di macroscopiche disuguaglianze economico-sociali, rispetto tanto alla ricchezza materiale quanto al “reddito” che viene intascato da pochi milioni (o centinaia di migliaia) di individui sparsi sul pianeta. Là dove il trionfo globale del capitale ha aumentato – come diceva Marx – la massa della miseria. E nonostante il fior fiore degli economisti borghesi si sia per anni crogiolato negli idealistici pensieri di una riduzione delle disparità nelle società “libere e democratiche”. Vedi le previsioni del Nobel, S. Kuznets, e di un economista, N. Kaldor, i quali davano per scontate quelle riduzioni nelle economie mature…

Piketty (presentando con T. Boeri il libro all’Università Bocconi di Milano), in qualità di economista dell’Ecole d’économie de Paris, ha precisato: “Più che un economista, mi considero un ricercatore in scienze sociali”. E si gode il trionfo (ah, l’ipocrisia borghese!) ottenuto nel mondo anglosassone, con l’Economist che lo ha collocato al centro dei suoi blog. A parte il fatto che la “scienza sociale” – secondo la cultura borghese – si basa sul rispetto del “pensiero” (a sua volta… scientifico) che sovrasta il presente stato di cose.

Il capitalismo patrimoniale

Supportato da una vasta esposizione di cifre, tabelle statistiche, ecc., Piketty “studia” i rapporti creatisi tra “redditi” (intendendo profitti industriali e salari…) e patrimoni (proprietà immobiliari, eredità, rendite) posseduti da una ridotta minoranza di “cittadini”. Attenzione però a non parlare di una divisione della società in classi dagli opposti interessi, andando ad infrangere gli ideali della “cittadinanza condivisa”! Piketty assegna quindi al capitalismo una nuova forma, quella “patrimoniale”, provocante drammatiche differenze di ricchezza e reddito poiché si avvale della possibilità di assemblare, per via “famigliare”, ricchezze immense. (1)

Piketty se la prende col capitale “divenuto rentier”, aggiungendovi le successioni ereditarie di patrimoni faraonici che si polarizzano in poche persone. Chiariamo subito un equivoco di fondo: gli economisti borghesi considerano come “reddito della società” la somma di salari, profitti industriali, interessi e rendite; cancellano così le differenze realmente esistenti tra le fonti di questi “redditi” e la loro collocazione all’interno del sistema sociale dominante. In realtà, quello sarebbe il reddito lordo; un’astrazione nella sua generalità, poiché sulla base della produzione capitalistica, e sua conseguenza,

reddito netto viene considerato unicamente il reddito che si risolve in profitto e rendita.

Marx, Il capitale, Libro III

La formula r > g

Dopo aver ammesso che la sua ricerca, finalizzata ad un “controllo del capitalismo e degli interessi privati”, non sarebbe tuttavia “scientifica al cento per cento”, Piketty ci propone la formula matematica r > g per spiegare la contraddizione di fondo del capitalismo: indica il tasso annuo di rendimento privato da capitale (inteso come somma di patrimoni: proprietà immobiliari, fondiarie, azionarie, strumenti finanziari, brevetti, e varie di interessi, affitti, ecc.) e il tasso di crescita annua del “reddito” (compresi i salari degli operai…) e del prodotto con relativo profitto. Questa situazione si destabilizza quando supera g, creando “iniquità” e forti disuguaglianze; portando – sempre secondo Piketty – a un calo degli investimenti, in quanto il vero capitale, cioè l’insieme dei mezzi di produzione, non si impegna nella tanto bramata crescita del sistema economico.

Da Piketty non sapremo mai perché r si presenta maggiore di g ovvero su quale relazione si fondi questa “variabilità” fra i due tassi. E scrive: nel periodo 1920-1980, il rendimento del capitale ha conosciuto una relativa diminuzione (al 2,5-3,5%), salvo poi, dal 1980, ristabilirsi attorno al 4-5%. La medesima percentuale del periodo 1870-1910, con una crescita del reddito pari a un tasso medio dell’1-1,5%. Saremmo al cospetto di una “dinamica storica” che non si “incarnerebbe” in alcun soggetto sociale e relativa sua volontà. Così è se vi pare.

Una “cattiva tendenza”

Piketty accomuna il capitale al complessivo patrimonio, alle ricchezze materiali che possiede la borghesia. Un bel salto di… qualità rispetto alla formula del capitale (D-M-D’) intesa – da Marx – come «una somma di valore messa in circolazione per trarre da essa una maggiore somma di valore». Un processo che si attua unicamente nella produzione capitalistica di merci, e si realizza nella circolazione del capitale produttivo. Piketty ne fa invece una questione unicamente di distribuzione e quindi non potrà che approdare a un orientamento esclusivamente riformista.

Non è certamente una novità che questo tipo di riflessioni, sempre basate sulla distinzione fra produzione (da salvaguardare così com’è) e distribuzione (con eventuali correzioni), mira a spostare l’attenzione su una eccessiva ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza, vista quale causa unica di differenze fra i “cittadini”. I rapporti fra le classi sociali (che non esistono più…) non eserciterebbero alcun condizionamento nella divisione delle ricchezze prodotte. Prodotte dal lavoro della classe operaia…

Questo capitale diventa una forza sociale concentrata (un rapporto di classi contrapposte, borghesia e proletariato), contrapponendo «la proprietà dei mezzi materiali della vita al lavoro delle forze vitali produttive» (Marx). Bazzecole, per Piketty, il quale addebita il presente stato di cose alla cattiva finanza e alla politica fiscale ingiusta.

La carrellata di dati statistici, lungo gli ultimi due secoli di storia dello “sviluppo” mondiale capitalistico, porta Piketty a questa “scoperta”: se il tasso di rendimento del capitale (inteso qui come denaro, e quindi per noi generante plusvalenze artificiose ma non plusvalore) supera il saggio di crescita del “reddito” (i profitti provenienti dalla estorsione di plusvalore nei processi produttivi) e dei salari, allora suona l’allarme sul dilagare di disuguaglianze fra i “cittadini”. Esse rischiano di essere “incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale su cui si fondano le moderne società democratiche”. E tali ritenute dal “punto di vista” borghese.

Ciò accadrebbe però soltanto – questa per Piketty la morale della favola – quando diventa esagerata la differenza tra la redditività del capitale (la quale pur gli spetterebbe di diritto…) e il tasso della crescita economica.

Ancora una volta: Piketty considera qui come “rendimento capitalistico“ quello finanziario e proveniente da attività improduttive (miscelando “rendite, dividendi, interessi, royalties, profitti, capital gains, ecc.”) e constata un rapporto fra capitale e reddito (qui inteso come somma di profitti industriali e salari), che va peggiorando. Per noi è in atto, evidente, la crisi di del capitale; il tasso di rendimento del capitale produttivo, ecco diminuire anche la percentuale del “reddito prodotto”. Ergo, se “cresce poco il reddito” (basato sostanzialmente sul plusvalore!) l’accumulazione di capitale piange pur ricorrendo ad alternative fittizie che si riassumono nella illusione del «denaro che figlia denaro». (Marx)

Cure terapeutiche

Questa morbosa tendenza si può però correggere, dice Piketty, e porta il proprio carico al mulino borghese che macina, con le consuete volgarizzazioni, anche parti fondamentali della teoria economica di Marx. A cominciare dal piatto forte di quanti deridono la legge (concreta e reale nel movimento del capitale) della caduta tendenziale del saggio medio di profitto (SMP). Piketty ci informa che questa legge, per Marx e per noi fondamentale, è invece falsa poiché non sostenuta da evidenze matematiche…

L’uso di formule matematiche, di statistiche e stratagemmi di stampo monetarista, il tutto opportunamente manipolato, approda ad un occultamento delle contraddizioni reali ed oggettive del sistema, ossia delle vere cause della crisi. Oltretutto, pur notando (fra le tante disuguaglianze) che i 25 gestori dei fondi d’investimento più remunerati hanno nel 2013 guadagnato 21 mld di dollari (16 mld di euro), il “Piketty pensiero” si fa propugnatore di un egualitarismo di facciata ovvero di una rassegnazione che culminerebbe nella accettazione di una società come essa è, cercando soltanto di auspicare un riequilibrio nella distribuzione dei beni e dei privilegi. Niente più di un medesimo ordine sociale nel quale, tutt’al più, “il denaro e il potere economico siano ripartiti in modo un po’ diverso”…

Controllo delle disuguaglianze

In una intervista al New York Times, 19/4/2014, Piketty avverte:

Non ho nulla contro la disuguaglianza fintanto che è nell’interesse comune.

Sempre quindi rispettando le leggi del “libero mercato”… Nel suo libro ha persino riportato la frase della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789):

Le distinzioni sociali non possono essere fondate se non sull’utile comune.

Dopo 225 anni i risultati sono a tutti ben visibili.

D’altra parte, Piketty si vanta di essere

vaccinato a vita contro i discorsi anti capitalistici convenzionali e triti.

Vale a dire che considera una banalità la constatazione (per noi storicamente reale) che dal modo col quale si produce la ricchezza durante la dominazione del capitale – cioè sfruttando la forza-lavoro del proletariato che col suo salario (se non è disoccupato) non potrà mai acquistare altro che una minima parte di ciò che produce – deriva l’attuale iniqua e arbitraria distribuzione delle ricchezze.

Le distanze da Marx

Persino sull’inglese The Guardian (2/4/2014) leggiamo:

Piketty è forse il nuovo Karl Marx? Chiunque abbia letto quest'ultimo sa che non è così. Lì dove Marx vedeva relazioni sociali, tra lavoratore e dirigenti, proprietari di fabbrica ed aristocrazia terriera, Piketty vede solo categorie sociali: ricchezza e reddito.

Subito, però, segue una precisazione: i marxisti non si renderebbero consapevoli del fatto che noi viviamo

in un mondo dove le tendenze innate del capitalismo vengono smentite dall'esperienza diretta [… E si finisce con l’approvare] il mondo di Piketty costruito sui soli dati storici concreti, rendendo completamente fuori luogo le accuse di marxismo morbido

che altri gli rivolgerebbero.

Piketty ha comunque fatto di tutto per mettere ben in chiaro di non essere un marxista, dichiarando categoricamente che

abbiamo bisogno della proprietà privata e delle istituzioni del mercato, non solo per acquisire efficienza economica, ma anche per mantenere la nostra libertà personale.

New York Times, 19/4/2014

Si autodefinisce un “difensore del libero mercato e della proprietà privata”, ma segnala poi, in maniera abbastanza… socialdemocratica, che “anche i mercati hanno i loro limiti.”(The Guardian, 2/5/2014). Classico colpo alla botte e al cerchio; una necessità legata – nel bel mondo borghese – alla conquista di una base elettorale fra una massa interclassista di individui…

Luoghi comuni e fesserie

Sfogliando il libro, si evidenziano non pochi strafalcioni, oltre a deformazioni della teoria marxista. Si imputa a Marx l’aver

del tutto trascurato l’eventualità di un progresso tecnico durevole e di un costante aumento della produttività.

Evidentemente Piketty non ha mai letto le analisi di Marx attorno ai concetti del plusvalore relativo e della composizione organica del capitale e di aumento della produttività del lavoro che, oltretutto, sono alla base di tutta l'impostazione sulla caduta del saggio del profitto. Lo ammette lui stesso:

Non ho ancora letto il_ Capitale.

Evidentemente troppo preso dalla stesura di critiche deformanti il… Capitale di Marx!

Piketty si trova a proprio agio nel cavalcare i più pacchiani luoghi comuni della intelligenza borghese: tornando a Marx, ecco che le sue previsioni apocalittiche non si sarebbero verificate; i suoi manoscritti, oltre che frammentati, “sono a tratti oscuri”, ecc. Per Piketty, e per una vasta platea di “scienziati” esperti in discipline sociali o economiche, Marx non poteva far altro che basarsi sulla immagine del suo ottocentesco tempo; non aveva quindi tenuto conto di quella che sarebbe stata una crescita “impetuosa” dell’economia, con l’incremento di una classe media agiata e il conseguente allargamento del benessere. E così il “filosofo” Marx è messo fuori corso!

Fantasie riformiste

Attribuendosi il ruolo di addomesticatore dei famosi “spiriti bollenti” del capitale (per limitarne le scorribande), Piketty si unisce al coro di quanti pretenderebbero di ridare vitalità alle tesi keynesiane. Una litania di vere e proprie stupidità che qualcuno fa passare per “fermenti intellettuali” col miraggio di concretizzarli in “proposte politiche” capaci di trasformare in mercati perfetti quei “meccanismi spontanei e quelle leggi operanti al loro interno”, le quali altro non fanno che diffondere, appunto, ricchezza a un polo e miseria a quello opposto; a cominciare dalle strutture produttive alle quali non si fa il benché minimo accenno.

Insistiamo nel mettere in chiaro che Piketty non vuole il superamento del sistema capitalistico; lo ritiene un proposito impossibile, troppo “utopistico”; meglio le proprie… fantasie pretendendo di suggestionare il lettore con l’illusione dello stabilirsi di un controllo politico dell’economia mondiale esercitato da tutti i Governi, affratellati in una azione di salvezza del sistema economico attraverso un po’ più di eguaglianza sociale. Sorvolando sul fatto che la ricchezza si traduce in potere politico per chi tiene ben saldo nelle sue mani quanto si e appropriato a spese del resto dei “cittadini”. La democrazia borghese si presenta col suo vero volto: una oligarchia esercitata da chi detiene le ricchezze, ben strette nelle proprie mani; accumula ricchezze e con esse un potere assoluto, sia all’interno della propria organizzazione statale sia all’esterno.

Attribuendogli una “lodevole nobiltà d’intenti” (per correggere le “interne distorsioni del capitalismo”), i suoi ammiratori tacciono su ciò che Piketty finge di ignorare: il conflitto capitale-lavoro, sostituito da quello fra “patrimonio e capitale umano”. Eccoci davanti a un capitale (ricchezze e denaro) il quale in forma patrimoniale si riprodurrebbe da solo crescendo più del prodotto ottenuto dal legame capitale-lavoro. Lo si freni nei suoi eccessi, e vivremo tutti felici e contenti, mantenendo le dovute proporzioni tra ricchi e poveri!

Utopismo a buon mercato

Chiariamo a modo nostro il confuso discorso di Piketty: poiché è la produzione di merci, sfruttando forza-lavoro, che riproduce il capitale (e non le “successioni ereditarie”!), se essa non cresce continuamente (con la possibilità di vendere le merci prodotte e contenenti plusvalore, e quindi senza ridurre la massa dei salariati produttivi, come invece avviene), ecco che la “domanda” di merci si indebolisce e il capitalismo rischia una deflagrazione economica e sociale. Diventa un conseguente effetto la “polarizzazione della ricchezza e del reddito”; a questo punto c’è chi se la prende col “capitale che diventa rendita” anziché produrre merci, e quindi con la “economia del debito”, il credito bancario, ecc. Ecco perché – secondo Piketty – il capitalismo si presenterebbe asfittico sprofondando nel pantano della stagnazione, senza quella crescita che ha da essere la più alta possibile; un obiettivo che richiede una precisa modalità dei rapporti sociali.

Sì agli effetti, no alle cause

Inutile pretendere da Piketty una risposta sul perché si abbassi il tasso di “crescita economica” e si ricorra fittiziamente ad alzare il tasso di rendimento del capitale-denaro, ovvero perché storicamente si assiste ad calo tendenziale del SMP con il conseguente blocco del motore della accumulazione. Lo disturberemmo nello “studio” delle sue tabelle statistiche…

Per questo nel libro non si parla né di prodotto-merce né di merce-forza lavoro; il primo ha aumentato la sua «immane raccolta» (come diceva Marx) mentre la seconda va diminuendo nel tentativo del capitale di estorcerle la maggior quota possibile di plusvalore affiancandola ad un numero sempre maggiore di macchine tecnologicamente avanzate, automatizzate, le quali sottopongono al loro comando un numero minore di forza lavoro. (Proprio in questi giorni, metà ottobre, il Governatore della Banca d’Italia, Visco, dopo aver esaltato gli

impetuosi mutamenti tecnologici [... perché] portatori di un guadagno di benessere e di ricchezza [... ci informa che tutto ciò] rischia di rendere obsoleto nei prossimi 10-20 anni un posto di lavoro su due.

Bologna, cerimonia per i 60 anni del Mulino

Volontà politica e dialettica democratica

Piketty, come abbiamo visto, si affida alla volontà politica dei Governi per stabilire un più giusto equilibrio economico. Qualche abbellimento politico ma senza interventi sulla struttura economica, anzi salvaguardandola e persino rafforzandola. Un vago accenno ad una eventuale pressione sociale si confonde nella genericità di appelli al “confronto delle idee in una dialettica democratica”. Un problema al massimo culturale o morale; senza incidere, chiaramente, sui rapporti sociali che costituiscono la base del dominio del capitale. Inutile parlare di conflitti sociali che renderebbero vana la ricerca di un… sano equilibrio!

D’altra parte, pure il Nobel Krugman elogia (da moderno keynesiano) un Piketty che ci avrebbe dato una "diagnosi magistrale" del presente e “una teoria a campo unificato della disuguaglianza, che integra la crescita economica, la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro, e la distribuzione della ricchezza e del reddito tra gli individui in un unico fotogramma”. Siamo all’interno di una camera oscura, con all’esterno il plauso di quanti, in ormai logore vesti “riformiste”, si preoccupano di una situazione che potrebbe portare, se lasciata a se stessa, ai pericoli di “agitazioni sociali in modi non positivi”. Il capitalismo resti pure in vita, purché venga corretto nelle sue sregolatezze, affinché non siano compromesse le logiche della sua necessaria accumulazione…

Certamente, anche senza le ricerche di Piketty sulle diseguaglianze, sappiamo bene quale corrosione abbiano subito i salari negli ultimi decenni. Anche un ritardato mentale si dovrebbe rendere conto che non solo la riduzione dei salari, ma la espulsione costante di manodopera dai settori produttivi (di merci, quindi di plusvalore) porta ad una “progressiva” ridotta capacità di “assorbimento”, da parte dei mercati, delle merci prodotte in quantitativi sempre maggiori. Mancano gli acquirenti. E si aprono alternativi mercati nei quali fare “affari” virtuali: dei capitali, della moneta, dei beni. Affari sempre da briganti.

La borghesia, accorgendosi suo malgrado del “fenomeno”, si mangia però la coda accendendo ceri sull’altare di una politica espansiva volta alla crescita dei consumi. Da parte di chi? Per questo si è giocata, nei decenni trascorsi, la carta della espansione del credito, del finanziamento ipotecario nei mercati sub-prime, eccetera. Finché le bolle non sono fragorosamente esplose.

La distribuzione… salariale

Ma perché mai vi sono queste diseguaglianze tra rendimento del capitale (plusvalore estorto nella produzione di merci – scriviamo noi) e crescita del “reddito” proveniente dalla sfera finanziaria? E da dove deriva la cattiva distribuzione?

Un secolo e mezzo fa, Marx scriveva:

Nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell'operaio, qualunque sia la retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare. (...) Questa legge determina un'accumulazione di miseria proporzionata all'accumulazione di capitale.
L'accumulazione di uno dei due poli è dunque, al tempo stesso, accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia da parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale.

Il Capitale, Libro I, cap. 25, Editori Riuniti 1980, pag 706

Oltretutto, ammesso e non concesso che, anche se l’operaio fosse meglio pagato, ciò non cambierebbe nulla alla sua dipendenza dal capitale – scrive ancora Marx nel Capitale

non più che un miglioramento dell’abbigliamento, del nutrimento, del trattamento e l’aumento del loro peculio annullino il rapporto di dipendenza e di sfruttamento degli schiavi.

Un aumento del salario significa tutt’al più che

la lunghezza e il peso della catena d’oro che il salariato si è già forgiato da solo permettono che la si stringa un po’ meno forte.

Nella società borghese il consumo (acquisto di merci) non “assorbe” gli aumenti costanti di produttività, accumulo di merci, che il capitale (nella fase imperialista) è costretto ad inseguire per contrastare la tendenziale caduta del SMP. La produttività capitalista (con la sua “logica razionale”) supera i consumi delle merci, condizionati dalle possibilità di acquisto da parte dei “cittadini”. Qualche milione di ricchi borghesi nel mondo non può certo “consumare”, comperando merci, i miliardi di dollari, euro, yuan, sterline, rubli, ecc. da loro posseduti in… esclusiva. Con i mezzi di produzione oggi disponibili, capitalisticamente usati, una potenza economica come la Cina sarebbe in grado di invadere con le sue merci i mercati di un intero Continente. I proletari degli altri paesi che cosa farebbero?

La logica capitalista vorrebbe che tutti i cosiddetti “fattori produttivi” (impianti e lavoratori) fossero impiegati al massimo e non “sottoutilizzati”. Altrimenti il plusvalore piange! Ma per questo è necessario che l’investimento di capitale sia “stimolato” con alti profitti (le “aspettative” dei capitalisti, come diceva Keynes) e siano invece bassi i tassi di interesse del denaro a credito; che non si possa investire all’estero con maggiore profitto; che non vi siano né monopoli né incrementi tecnologici da parte di alcuni capitalisti contro altri.

Ed è per assecondare questo insieme di interessi imperialistici, caratterizzanti la fase del capitalismo in cui siamo costretti a vivere, che le maggiori potenze si affrontano prima sul terreno economico e poi su quello militare. Ma qui il “pensiero” di Piketty non può arrivare.

Facciamo chiarezza

Le aziende investono capitale se vedono “condizioni di mercato” favorevoli per la vendita delle merci prodotte. Non certo per immagazzinarle. La valorizzazione del capitale avviene nel processo totale di produzione e circolazione delle merci, prodotti cioè che devono avere e realizzare un loro valore di scambio. Per questo si aumenta la produttività sfruttando al massimo la forza-lavoro o sostituendola con macchine tecnologicamente avanzate.

Il capitale non è un qualcosa che la borghesia – di fronte alla crisi che colpisce il modo di produzione (produzione di merci, sì, ma sostanzialmente di plusvalore) – possa manovrare gettandosi anima e corpo sulla sola circolazione del denaro, utilizzato con la illusione che esso da solo possa “fare” altro denaro. E’ evidente che denaro, terreni, immobili, ma anche fabbriche e macchinari non utilizzati in modo produttivo (nella produzione di merci), non sono capitale o cessano di esserlo. Le speculazioni sui mercati finanziari e immobiliari sono quindi un effetto della disperata e illusoria ricerca di guadagni, dal momento che dai processi produttivi si estraggono “giusti” profitti con sempre maggiori difficoltà. Nel contempo si diffonde la favola che tutta la colpa, la causa di questo stato di cose sia dovuta ad una scarsa offerta di credito da parte delle Banche per nuovi investimenti. Con un conseguente “stimolo” a ricercare alti tassi di rendimento sul denaro-capitale in circolazione, mancando le “occasioni” di una maggiore produzione di merci. Chiaramente, in questo contesto, non si guarda al valore d’uso delle merci bensì solo al loro valore di scambio.

Tra i colleghi di Piketty

In una intervista a Piketty, apparsa sul Venerdì di Repubblica, i consiglieri economici di Obama lo avrebbero invitato per spiegare i suoi espedienti volti a contenere le eccessive disparità sociali che “affliggono” gli Usa. Certo, c’è anche chi cerca di criticarlo e confutarlo, come il neoliberista che non apprezza di buon grado i suggerimenti idealistici che, comunque, disturbano (anche se non più di tanto) interessi ormai consolidati.

Uno sguardo va pure alle obiezioni di un personaggio come Oscar Giannino il quale ritiene le conclusioni di Piketty come delle vere e proprie mistificazioni, in quanto il filmato offertoci dal capitalismo sarebbe ricco di enormi salti di produttività con conseguente moltiplicazione dei redditi e del benessere. Inoltre, anche nei Paesi più arretrati, l’economia di mera sussistenza non sarebbe altro che un ricordo: tutti sono consumatori globali (di merci) e il consumo è “la vera molla della crescita”… Quanto all’italico Paese, l’indignazione di Giannino non ha limiti: ma come – scrive – già siamo sommersi da patrimoniali, tasse, imposte dirette e indirette, e ciononostante queste si dovrebbero aumentare? Il problema nostro (o meglio, diciamo noi, del capitalismo nazionale) sarebbe invece – per Giannino – quello di una bassa produttività, addirittura stagnante.

Ma certi “comunisti” lo esaltano…

Il Manifesto (quotidiano che pretende di essere “comunista”!) esalta il libro di Piketty lamentando solo la mancanza in esso di un’analisi del debito pubblico e di mancate emissioni di moneta, viste come manna dal cielo. Lo fa seguendo le orme di altri economisti del variegato (ma non troppo) mondo borghese, come il tedesco D. Stelter che analizza le disuguaglianze patrimoniali imputandole però alla politica monetaria dei bassi tassi d’interesse praticata dalle banche centrali.

L’aumento dei debiti, specie quelli privati, ha in un primo momento favorito una certa crescita economica. Ma quando le cifre del debito, sia pubblico sia privato, hanno toccato livelli a dir poco enormi, il castello di carta è franato su se stesso. I più deboli (immancabilmente le famiglie proletarie) sono precipitati in condizioni al limite della disperazione, specie se entrati a far parte dell’esercito dei senza lavoro.

Lati buoni e lati cattivi…

Tiriamo le somme. Alla ricerca dei “lati buoni del capitalismo” si tratterebbe – secondo il Piketty-pensiero – di colpire la rendita finanziaria, individuata come il “lato cattivo” che provoca le “disuguaglianze smisurate” che minano la pace sociale.

Perché – sostiene dunque Piketty (il quale sulla eternità passata, presente e futura del capitale non ha dubbio alcuno) – non si dovrebbe, con una saggia e buona volontà politica dei suoi gestori e amministratori, correggere ciò che funziona male? E qui si ripete il leit motiv che sostanzia il Piketty-pensiero: si tratta semplicemente della geniale constatazione che quando la crescita economica è debole e il tasso di rendimento del capitale finanziario è alto, a quel punto si creano disuguaglianze sociali; redditi troppo alti a fronte di altri (in maggioranza…) redditi troppo bassi.

Questo, nota bene – l’osservazione è nostra – come se il processo di produzione dominante e i rapporti sui quali si fonda non c’entrassero per nulla! Elucubrazioni a rimorchio di quelli degli epigoni di Keynes, invischiati nella rete dell’economia di mercato, tutt’al più da sottoporre a interventi (statali…) che ne limitino l' assoluta “libera autonomia”. Una spolveratina, dunque, alle ricette keynesiane e una loro ennesima fotocopiatura: redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e magari la ciliegina di una socializzazione (contenuta…) degli investimenti.

Occorrerebbero infatti – sostiene Piketty – urgenti interventi “redistributivi” (da parte dello Stato) con progressive tasse sulle successioni e sul patrimonio, possibilmente a livello mondiale.

E’ necessaria la leva della tassazione. Penso a un’imposta progressiva e trasparente sul capitale a livello internazionale.

Forse può sembrare – scrive Piketty – una “proposta utopica” ma diamo tempo al tempo… e la “volontà politica” (di quale classe?) presto o tardi trionferà. A condizione, però, che si riprenda un ciclo di accumulazione capitalistica a seguito di una produzione di plusvalore, di profitti che possano adeguatamente remunerare i capitali che “saggiamente e razionalmente” saranno investiti in una produzione industriale, il più intensiva possibile nello sfruttamento della forza-lavoro. Ostacolando (?) gli investimenti speculativi finanziari generali che impoveriscono il sistema economico…

Ma la ricetta è già scaduta a fronte della prova dei fatti, come tutte quelle che ricalcano le “logiche” di sviluppo del capitalismo, al traino delle sue leggi di movimento. E così, ma ci si sciacqua la bocca con altisonanti richiami ai “valori meritocratici e ai principi di giustizia sociale” sui quali si dovrebbe fondare la moderna società democratico-borghese, si incrina l’illusione di una riproduzione-autovalorizzazione del capitale (denaro) in grado di compensare i mancati aumenti di produzione e di vendita delle merci, da cui dipenderebbe una realizzazione di masse tali di plusvalore da garantire la “riproducibilità” del sistema.

Redditi e imposte

Per questo Piketty lancia un segnale d’allarme: se non cresce il “reddito” nei prossimi decenni, allora la faccenda si farà seria. Da notare che, sempre Piketty, fa previsioni su una forte diminuzione dei redditi, dal 3,5% dei prossimi 15 anni al 2% nella seconda metà di questo secolo. E sollecita un intervento per favorire quella che considera una propensione psicologica al risparmio, col ricorso ad una “imposta progressiva mondiale sul capitale accompagnata dalla massima trasparenza finanziaria internazionale”. Si ridimensionerebbero “i patrimoni finanziari e commerciali e le proprietà immobiliari”; meglio questo “strumento” al posto di una tassazione progressiva del reddito. Seguirebbe una “effettiva regolazione del sistema finanziario e bancario che ne eviti le crisi”, dopo di che la borghesia potrà riprendere sonni tranquilli. E così gli apologeti del capitale non solo si spacciano per scienziati ma si professano “apolitici”, estranei agli interessi del capitalismo e della società borghese!

Capita di leggere sui più quotati giornali del bel mondo borghese, quali il New York Times, che un eccesso di offerta di capitale-denaro (fatto passare come “fattore indispensabile della produzione”, sì, ma del modo capitalistico che trasforma prodotti e beni in merci!) porta a rendimenti (profitti) decrescenti; essendo essi “poco remunerativi”, si deve aumentare la produttività del lavoro. E così – conclude il giornale – si alzerebbero i salari (ma quando?). Ergo, si lasci che i capitalisti (e la classe borghese in generale) si arricchiscano poiché solo allora si avrà una positiva ricaduta sui lavoratori… Peccato però – aggiungiamo noi – che in ogni caso il numero dei lavoratori necessari a controllare macchine sempre più automatizzate, diminuisca costantemente. Su di loro si avrà solo una ricaduta di manganellate (e quant’altro) per frenare le loro proteste!

Valori d’uso e valori di scambio

In conclusione: il modo di produzione capitalistico è definibile come «produzione di valori d’uso in forma esclusiva di valori di scambio» (Marx). Per questo, gli economisti borghesi (destra o “sinistra”) si sforzano per trovare una soluzione degli “squilibri” capitalistici ricorrendo (teoricamente) a ipotesi di “regolamentazione” dei movimenti del valore di scambio, oltre che ad una tassazione sia pure progressiva ma "più equa".

Con Marx sottolineiamo che fino a quando la produzione avviene non esclusivamente per oggetti d’uso ma al contrario per tutto ciò che abbia un valore di scambio, imposta dal capitale, la società si reggerà su squilibri tali da precipitare in una situazione di crescente imbarbarimento. Sono quindi

tutti i presupposti del modo di produzione capitalistico [... che, come diceva Marx] devono essere attaccati e non solo i suoi singoli risultati.

Un obiettivo, questo, rifiutato dagli economisti borghesi che considerano le leggi economiche del capitalismo come leggi eterne; in particolare ritenendo prioritario il valore di scambio delle merci, predominante sul valore d’uso.

La merce è una unità contraddittoria tra valore d’uso (un uso quasi sempre imposto, trascurando la soddisfazione dei bisogni primari) e valore di scambio. Ma è inutile pretendere dalla intelligenza borghese una comprensione degli sviluppi contraddittori che, in modo organico e approfondito, Marx mette in luce con la sua teoria del valore e del plusvalore, nonché con la sua teoria del profitto medio, prezzo di produzione e rendita fondiaria.

Produzione e distribuzione

Quello dominante è infatti un “pensiero” il quale ritiene eterno l’attuale modo di produzione e la forma di merce assegnata a tutte le cose, illudendosi (e illudendo…) sulla possibilità di una “più giusta ed equa” distribuzione dei “redditi” derivanti dalla stessa produzione capitalistica. In tal modo, gli economisti si precludono in concreto la possibilità di studiare le forme di distribuzione, proprio perché negano quello che esse sono in realtà, cioè espressioni delle forme di produzione. Le quali sono storiche, seguono lo sviluppo delle forze produttive; produzione e distribuzione formano un tutto inscindibile. Quando lo sviluppo storico dei mezzi materiali di produzione (scienza e tecnica) è di tale portata da scontrarsi con gli esistenti rapporti di produzione (e di proprietà) che gli fanno da involucro – e quindi con tutta la sovrastruttura presente e dominante nella società – allora gli stessi rapporti di distribuzione presenti (la loro forma sociale) vengono contraddetti dalla capacità produttiva raggiunta e contemporaneamente frenata dai rapporti di produzione imposti dagli interessi della classe dominante. Solo concependo il tutto come il risultato di una determinata fase storica, certamente non naturale e perciò trasformabile, si potranno capire e superare entrambe le forme, produzione e distribuzione.

Assimilando tra loro concetti come ricchezza privata e accumulazione di capitale, la disuguaglianza fra i redditi della “cittadinanza” diventa l’assioma dominante per fornire una spiegazione “pubblica” del perché la crisi stia affliggendo lo sviluppo del capitalismo. Una disuguaglianza quindi che non sarebbe affatto l’effetto (certamente a livelli macroscopici) della crisi che rode il cuore del modo di produzione dominante, bensì presentata come la vera causa. Basterebbe allora riordinare i redditi di ciascuno secondo un giusto metro di misura (intervenendo con una “saggia politica” che stabilisca le regole di una tassazione progressiva della ricchezza) ed ecco che le cose riprenderebbero a meglio funzionare…

Non è una novità (almeno in ambienti frequentati dagli apologeti della economia capitalista, in generale servitori piuttosto sciocchi ma ben stipendiati!) il consolidarsi del “dubbio”, da Keynes in poi, di un sistema (quello capitalistico) dove la sua “spontaneità” può essere un pericoloso fattore di squilibrio in quel rapporto domanda-offerta che tenderebbe a far diminuire la… “propensione al consumo”. Con la messa in crisi di quell’“equilibrio di piena occupazione” sognato dagli aspiranti al premio Nobel sulle orme della “domanda aggregata” vagheggiata da Keynes, il fautore della spesa pubblica ad oltranza, credito facile, interventi fiscali, controllo degli investimenti, ecc. Già, c’è poi da fare i conti, ai giorni nostri, con gli enormi debiti pubblici e il fallimento delle banche, sempre rimanendo sul solo terreno finanziario ed ignorando quello della produzione di merci.

Le fantasie politiche

Quali siano le reali cause della crisi che sta avvitando su se stesso il capitalismo, nessuno le prende minimamente in considerazione: provenendo tutte le analisi, e le cure proposte, unicamente dalla classe borghese, non c’è da meravigliarsi di questi indirizzi sia teorici che pratici. Ben vengano, quindi, le fantasiose speranze enunciate da Piketty di “politiche di controllo del capitalismo e degli interessi privati da parte della democrazia e dell’interesse generale”. Cercando di puntellare quelli che sarebbero “i valori di giustizia sociale sui quali si fondano le nostre società democratiche”… che noi – poveri ruderi di altri tempi – consideriamo invece lacerate da una divisione di classi contrapposte, sfruttati e sfruttatori, borghesi e proletari.

Il vecchio Marx lo scriveva: il Capitale è in primo luogo un rapporto sociale; ma questo

carattere sociale che viene impresso alle cose nel processo sociale di produzione viene trasformato dalla economia politica in un carattere naturale, che scaturisce dalla natura materiale di queste cose.

E finché si rimane prigionieri nelle maglie soffocanti della produzione capitalistica, non si esce da questa condizione!

DC

(1) A proposito di “ricchezze dinastiche”, l’ereditiera dell’Oreal, Liliane Bettencourt, ha visto la sua ricchezza aumentare da 2 a 25 miliardi di dollari. Warren Buffett (sua la definizione dei “ricchi ereditieri membri del club dello sperma fortunato”) e Bill Gates, fondatore di Microsoft (e oggi secondo al mondo nella classifica della ricchezza), detengono 115 miliardi di dollari, equivalente al Pil dell’Angola.

Mercoledì, December 17, 2014