Il disfattismo rivoluzionario oggi - Il bagno di sangue in Siria

Da Prometeo 12 - Novembre 2014

L'inverno arabo

Come sembrano lunghi tre anni! All'inizio del 2011 sembrò che un fresco vento di rivolta soffiasse da est e si diffondesse in tutto il mondo arabo. Le proteste di massa e gli scioperi dei lavoratori in Tunisia ed Egitto avevano terrorizzato la classe dominante al punto di farla sentire in necessità di deporre i suoi stessi capi di stato. In tutto il mondo arabo si soffiava sulle braci della rivolta, e successivamente sembrò persino che le scintille si spargessero in tutto il mondo sotto forma dei movimenti occupy e indignados. Tutto ciò, unito ai movimenti di massa in Iran e Grecia solo un paio d'anni prima, diede a milioni di persone in tutto il mondo l'illusione che ci fosse da parte della classe lavoratrice un massiccio ritorno alla lotta, che una volta ancora cioè la gente comune riuscisse a cogliere la possibilità di trasformare radicalmente la propria vita.

Giunti ormai quasi alla fine del 2014, la situazione non sembra affatto così ottimistica.

Nel Vicino Oriente i conflitti in Siria e Iraq sembrano essersi congiunti in un'unica guerra etnico-settaria che anche oggidì minaccia di riversarsi nei paesi confinanti, i più vulnerabili dei quali sembrano essere Libano e Giordania. In Ucraina orientale, nonostante un primo cessate-il-fuoco, continua una guerra civile a bassa intensità. In questi tre brevi anni siamo passati da una situazione in cui sembrava verificarsi un ritorno del conflitto di classe ad un'altra in cui la classe lavoratrice, invece di afferrare la possibilità di lottare per il proprio interesse, si è buttata a testa bassa in conflitti etnico-settari sempre più profondi.

L'inverno arabo sembra essere calato in pratica non appena furono spuntati i primi germogli di primavera. Benché possa esser stato difficile per molti accorgersene, mentre si facevano trasportare dall'entusiasmo del movimento senza rendersi affatto conto della direzione che esso stava prendendo, i segni apparvero come minimo a partire da marzo (2011, ndt). In Tunisia ed Egitto la classe lavoratrice si mobilitò in difesa dei propri interessi. In entrambi i paesi vi furono scioperi di masse di lavoratori che scossero lo stato. Negli altri paesi, ad ogni modo, non fu così. Il conflitto in Libia non ebbe mai queste caratteristiche, nemmeno all'inizio: lì, la primavera araba assunse i toni di una guerra tribale fratricida. L'intervento delle potenze occidentali a fianco dei ribelli non fece altro che spingere ancora di più il conflitto in quella direzione. Più ad Est, avvenimenti potenzialmente ancor più pericolosi erano in fermentazione.

Mentre il conflitto in Libia era essenzialmente una lotta fra tribù rivali, la guerra nel Levante e in Mesopotamia assunse un carattere settario molto più profondo, che aveva il potenziale per diffondersi molto oltre i confini di un singolo stato e travolgere l'intera regione. I combattimenti in Siria e Bahrein assunsero queste caratteristiche. La Siria, un paese in cui la maggioranza della popolazione è musulmana araba sunnita, è governata dai membri di un ramo minoritario sciita che ha la tendenza ad appoggiarsi sulle altre minoranze del paese. Per converso, nel minuscolo Bahrein una monarchia sunnita regna su una popolazione a maggioranza sciita. Preoccupato a riguardo delle minoranze sciite nei paesi suoi componenti, il Consiglio per la Cooperazione nel Golfo, un'organizzazione delle monarchie petrolifere del Golfo guidata dall'Arabia Saudita, mandò in Bahrein dei carri armati a schiacciare questa sollevazione sciita verso la metà di marzo. A questo punto divenne assolutamente chiaro che il conflitto cessava di essere composto da una serie di eventi “nazionali” e diventava una lotta settaria attraverso tutta la regione, con l'Arabia Saudita e il CCG assieme alla Turchia come protagonisti dalla parte dei sunniti e l'Iran, la Siria e fazioni sia in Iraq che in Libano dall'altra.

Ovviamente furono in molti a sinistra a vedere una genuina rivoluzione proletaria in Siria, così come in Libia. Altri, consapevoli della natura settaria e quindi controrivoluzionaria di buona parte del movimento di protesta, difesero lo stato siriano in nome del secolarismo, dell'anti-imperialismo o di qualsiasi ideologia venisse loro in mente nel tentativo di occultare la violenza di uno stato omicida e sanguinario. Gli anarchici specialmente, benché non gli unici, furono particolarmente sensibili a discorsi su comitati democratici e auto-organizzazione della rivolta. Molti insistettero su questi aspetti anche quando divenne sempre più ovvio che la guerra stava diventando un bagno di sangue multilaterale in cui diversi gruppi etnici/settari controllavano la popolazione attraverso l'uso della forza. Ovviamente, da comunisti, siamo pure noi d'accordo che non ci può essere movimento di classe genuino senza auto-organizzazione da parte dei lavoratori. Ma insistiamo anche sul fatto che non ci possono essere consigli di lavoratori senza conflitto di classe. La democrazia su base locale non è rivoluzionaria di per se stessa: in molti paesi i lavoratori possono votare per i loro rappresentanti locali che saranno responsabili dell'amministrazione dei servizi municipali, così come in molti paesi pochi se ne curano.

Ciò che dà ai consigli dei lavoratori il loro contenuto rivoluzionario non sono le forme democratiche ma il fatto che essi rappresentano i lavoratori in lotta (nonché gli strumenti politici della loro dittatura di classe). All'inizio della guerra in Siria vi fu un'esplosione di entusiasmo riguardo alla lotta contro il regime: la popolazione creò vari comitati e consigli, ma questa non era una lotta del proletariato! Quando poi gruppi armati presero il controllo di quella che era rapidamente diventata una guerra, l'entusiasmo e il coinvolgimento popolare si spensero. Alcuni comitati rimasero in vita, certo, ma erano gli uomini armati a dare gli ordini. Una buona parte della sinistra, ma non tutta, sembrò accorgersi dell'errore: come gli internazionalisti avevano affermato sin dall'inizio, non c'era nessuna parte progressista in questa guerra. Sembrava quindi che un certo tipo di lezione fosse stato appreso.

Ma poi venne Kobane...

I protagonisti: Da'esh e PKK

Dall'inizio di settembre (2014, ndt) la piccola città di Kobane, sul confine turco-siriano, è diventata il centro dell'attenzione mondiale per via dell'assedio montato contro di essa dal Da'esh. Ancora una volta la sinistra non ha rinunciato a prendere parte in quella che fondamentalmente è soltanto un'altra fase del più vasto conflitto settario che si sta svolgendo nella regione. Questa fase all'interno di un conflitto più vasto viene praticamente descritta dalla maggior parte della sinistra come una lotta tra la luce e le tenebre. All'angolo del bene e della luce abbiamo il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, mentre all'angolo dell'oscurità e del male abbiamo il Da'esh, ora rinominato semplicemente Stato Islamico.

Le origini del Da'esh risalgono all'Iraq della fine degli anni '90. Esso passò attraverso varie fusioni e cambi di nome (tra i quali “Al-Qaeda in Iraq”) sino a sistemarsi col nome di Stato Islamico dell'Iraq (ISI) alla fine del 2006. Il fenomeno che provocò la crescita del Da'esh in questi anni fu lo sviluppo della situazione in Iraq in aperta guerra civile nel 2006. Benché presentata in Occidente come una lotta contro l'occupazione americana, la guerra civile irachena aveva più le caratteristiche di guerra settaria tra musulmani sunniti e sciiti.

L'Iraq è sempre stato tradizionalmente un paese retto da membri della minoranza sunnita ma con una popolazione a maggioranza sciita. Dopo l'ultima guerra del 2003 la nuova promessa democrazia americana ha dato alla maggioranza sciita il controllo del governo e maggior rappresentanza. Ora sono loro, gli sciiti, ad avere il coltello dalla parte del manico e stanno usando il loro potere contro la minoranza sunnita: atti di pulizia etnica simili a quelli che sta compiendo il Da'esh sono stati compiuti anche contro la popolazione sunnita nel sud dell'Iraq. Il Da'esh è riuscito a proporsi come forza sunnita leader all'interno della guerra civile settaria irachena. Durante questo periodo essi hanno ridotto il numero di combattenti stranieri ed hanno professionalizzato la loro gerarchia militare incorporando ex-ufficiali dell'esercito e dei servizi segreti baathisti. È stato sempre durante questo periodo che essi si sono guadagnati il bastone di comando all'interno delle rivalità tribali, il che, in seguito, è servito loro moltissimo.

Con l'inizio della guerra in Siria, una fazione interna al Da'esh ha iniziato ad infiltrare militanti attraverso il confine. Ponendosi nuovamente come i difensori dei musulmani sunniti contro le atrocità perpetrate questa volta dallo stato siriano, e – lentamente – attraverso l'uso di alleanze e divergenze tribali e scontri e unificazioni, costanti all'interno dell'opposizione siriana, sono riusciti ad arrivare in cima. Certamente, il supporto finanziario, politico e in termini di manodopera è venuto dall'Arabia Saudita e da alcuni suoi alleati nel Consiglio dei Paesi del Golfo, per tacere dell'appoggio ricevuto dalla Turchia. Per gli stati del Golfo in particolare il Da'esh era un'arma da usare in un conflitto più ampio, con il governo sciita di Baghdad e quello alawita di Damasco nel mirino: due dei tre maggiori alleati del loro irriducibile nemico, l'Iran.

Il Da'esh sembra al momento aver perso l'appoggio dei suoi sostenitori nel Golfo (1), mentre la Turchia sembra poterli ritenere ancora di una qualche utilità come mezzo per abbattere lo stato siriano e come arma per infliggere un colpo al suo nemico trentennale, il PKK.

Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha combattuto nei tre ultimi decenni una guerra nel sud-est della Turchia. Come il Da'esh, esso è essenzialmente una milizia etnica. Le sue origini non sono in Siria ma in Turchia: nonostante ciò, durante questa lunga guerra esso ha stabilito sue sezioni nei paesi confinanti a popolazione curda. Come il Da'esh, anche il PKK ha ricevuto supporto da diversi stati stranieri, Siria in primo luogo, ma anche dall'Iran (fino a che la sua sezione iraniana non ha iniziato ad immischiarsi negli affari interni dello stato persiano) e dalla Russia. E' stato anche lasciato intendere che questa sezione iraniana, il PJAK, ha ricevuto aiuto dagli USA, e senza dubbio essa ha cercato di approfondire qualsiasi contatto avesse con gli Stati Uniti, essendosi il portavoce del PJAK, Ihsan Warya, spinto a dichiarare addirittura che “il PJAK si augurerebbe davvero di agire per conto degli Stati Uniti”.

La sezione siriana del PKK, il Partito dell'Unione Democratica (PYD), all'inizio della guerra siriana si tirò da parte rispetto alla maggioranza delle fazioni di opposizione, rimanendo fuori dal Consiglio Nazionale Curdo sostenuto dal rivale del PKK, il Partito Democratico del Kurdistan di Massoud Barzani e dal Consiglio Nazionale Siriano, che venne considerato troppo strettamente legato alla Turchia. Nel luglio 2012 lo stato siriano prese la decisione operativa di ritirare la maggior parte delle sue truppe dalle aree del paese popolate in maggioranza da curdi, per riuscire a ridisporle contro un'offensiva dell'opposizione su Aleppo. Poco dopo il PYD prese il controllo di gran parte della regione curda: questa occupazione fu compiuta con scarsissimo uso della violenza, tanto che da più parti è stato insinuato un accordo tra lo stato siriano e il PKK/PYD. Ciò che da allora il PYD ha fatto nel Kurdistan siriano è stato considerato da molti alla stregua di una rivoluzione sociale.

Rivoluzione in Rojava

Il PKK ha svolto una vera offensiva propagandistica in Occidente. Articoli che trattano della lotta nel Kurdistan siriano appaiono ovunque sui media dell'Ovest, dalle riviste di sinistra a Marie Claire, rivista femminile. Quello che veniva un tempo presentato dai media mainstream occidentali come un autoriario gruppo nazional-stalinista si è ora riposizionato come movimento democratico, ecologico e femminista ispirato da una filosofia chiamata “confederalismo democratico”, adattato da quello dell'anarchico Murray Bookchin. Per molti ai quali, nella regione, sono familiari i metodi del PKK tutto questo è molto difficile da credere. Il PKK è un'organizzazione dal passato oscuro. Anche il suo leader incarcerato Abdullah Öcalan parla di periodi di “bande dentro la nostra organizzazione e banditismo aperto, preparazione di operazioni disordinate e inutili, un mandare i giovani a morte in massa”. La storia del PKK è stata ben documentata da critici internazionalisti (2) e non è ciò di cui vogliamo occuparci qui.

Per noi il problema non è che il PKK ha una storia di crimini sanguinari sia verso i suoi stessi membri che nei confronti della classe lavoratrice. Certo, ha una storia tale. Non è una sorpresa, però. Praticamente tutti i gruppi nazionalisti hanno una storia simile e se molti di quelli che a sinistra li supportano vorrebbero che non fosse così, è perfettamente logico che così invece sia: perché anche se ci fosse un'organizzazione nazionalista immacolata che non si sia macchiata del sangue del proletariato e dei suoi stessi membri, la logica nazionalistica spingerebbe comunque in quella direzione. Perciò non intendiamo concentrarci qui sul passato sanguinario del PKK bensì sulle sue posizioni odierne.

È stato fatto un gran caso, da parte dei media occidentali, dei battaglioni tutti femminili, con foto di giovani donne in tenuta da combattimento e armate di fucili che ornano le pagine delle riviste e dei siti web. Fanno vendere, potremmo dire se volessimo essere cinici. Ecco queste giovani donne coraggiose che combattono quei barbari islamici! Il dipartimento marketing del PKK di certo conosce il suo pubblico. A pensarci un attimo, ciò non è esattamente così radicale. Anche il Da'esh ha gruppi combattenti di sole donne. Non si può immaginare infatti che vi siano battaglioni misti in un'organizzazione islamica estremista, ma non vi sono neppure nel PKK né in Iran, dove pure esistono battaglioni tutti femminili. Infatti il PKK ha una lunga storia di separazione per sesso e i rapporti sessuali tra i due generi sono stati a lungo puniti, proprio come in qualsiasi esercito borghese.

In ogni caso, è una grande vantaggio propagandistico per loro. Gli scopi di questa campagna nel mondo occidentale sono due. Il primo è venire rimossi dalla lista delle organizzazioni terroristiche in molti stati. Con l'emergere del diabolico Da'esh la linea del PKK nei confronti del mainstream è che queste giovani donne sono quelle che combattono contro il terrorismo; la linea che vendono alla sinistra occidentale è che questa è una specie di rivoluzione sociale, dove i rapporti tra i sessi vengono rovesciati. Gli anarchici hanno fatto paragoni con la Rivoluzione Spagnola, la qual cosa prendiamo in esame nell'articolo parallelo a questo (3). Il secondo obiettivo di questa campagna è ottenere il supporto effettivo degli USA e dell'Europa verso i combattenti di Kobanê, che sinora è arrivato da parte americana sotto forma di lanci di armi e munizioni alla truppe assediate e supporto aereo.

Ma per tornare al problema della rivoluzione, per noi comunisti, la rivoluzione è la creazione del proletariato in lotta per i propri interessi. Con il percorso di questa lotta, la classe non solo trasformerà la società, ma trasformerà anche sé stessa. Nel Kurdistan siriano, non ci sono movimenti di classe. Il controllo delle città nella regione è stato preso da gruppi armati che hanno riempito il vuoto di potere lasciato dalla ritirata dell’esercito arabo-siriano. Ciò non vuol dire che non vi fosse supporto per il PYD. Anzi, il nazionalismo è forte in tutte le regioni curde. Sono stati creati dei comitati locali che hanno preso in carico la minima necessaria organizzazione municipale. Anche il Da’esh ha, in molti casi, lasciato la popolazione all'autogestione locale, mentre il Da’esh e le milizie armate sono rimaste al vertice del potere. Il massimo organo di governo a Rojava, il Comitato Supremo Curdo, non è un organo composto di delegati di comitati minori, ma un’alleanza tra due gruppi politici: il PYD e Bārzānī, sostenuto dal Partito Democratico del Kurdistan. Malgrado tutta la pretesa democratica, il controllo ultimo è tenuto dalle bande nazionaliste armate.

Ed il PKK, in sostanza, non è altro che una banda nazionalista armata. Come abbiamo già detto in precedenza, il PKK, malgrado una storia un po’ irregolare con dei gruppi di minoranze in Turchia, si è posto come difensore delle minoranze del Kurdistan. Questo comunque non si applica e non si può applicare agli arabi. In più di un’occasione, Salih Muslim, vice-leader del PYD, ha parlato di “espellere gli arabi”, e la possibilità di una “guerra tra curdi e arabi”. Per essere chiari, Muslim non parla di espellere tutti gli arabi, “un giorno questi arabi che sono stati portati nelle regioni curde dovranno essere espulsi”. Gli arabi di cui parla sono quelli che furono trapiantati nella zona nella Campagna di Arabizzazione del 1973. Stando ai dati demografici dei paesi mediorientali (i siriani hanno un’età media di appena oltre i 22 anni), la maggioranza di questi arabi trapiantati in realtà sono nati lì. Muslim stesso ammette che gli arabi sono le vittime in tutto questo. Questo non lo ferma dal proclamare che “tutti i villaggi appartengono ai curdi”.

Ovviamente questi arabi non possono più essere distinti dagli arabi che vivevano lì in precedenza. Ci sono molti di loro nati in Kurdistan, che hanno sposato delle arabe autoctone, che hanno avuto figli e nipoti. Come il PYD sarà in grado di discernere tra questi e, questione più concreta, come gli altri arabi reagiranno a queste parole di pulizia etnica? Questo è il sentiero del conflitto tra etnie che abbiamo visto troppe volte in Medio Oriente, in particolare nel vicino Libano, ma anche in Europa, in posti come l’ex-Jugoslavia e l'Irlanda del Nord. Comunque vengano descritti alcuni dei protagonisti di queste lotte dai militanti di sinistra, il percorso segue sempre una profonda spirale verso il conflitto etnico/settario. All’inizio le prime atrocità saranno “errori”, sparatorie tra civili intraprese senza la direzione o il permesso della dirigenza delle varie milizie nazionali. Comunque, per le famiglie e gli amici delle vittime, questo è di secondaria importanza. Si vendicheranno ed un assassinio sarà seguito da atrocità e massacri.

Nel mezzo di una guerra civile tra le milizie curde e quello che essenzialmente è una milizia arabo-sunnita, accadranno questi eventi. Non importa quanto il PKK si atteggi a forza progressista. La logica della situazione detta quello che accadrà. Un buon esempio potrebbe essere il massacro di Kingsmill in Country Armagh, in Irlanda del Nord nel 1976. L’IRA, come il PKK, era visto come un’organizzazione “progressista”, “socialista”. Ma il giorno dopo che le milizie protestanti uccisero cinque civili cattolici, i repubblicani irlandesi uscirono fermarono un autobus pieno di operai edili, prelevarono undici protestanti e gli spararono, uccidendone dieci. L’IRA negò il coinvolgimento nell’attacco. Comunque questo non fermò le milizie protestanti dall’attuare la propria vendetta e la spirale di assassinii continuò, in maniera reciproca.

Per i comunisti una rivoluzione non può essere messa in atto da milizie etniche o settarie in lotta contro altre milizie etniche o settarie. Questo porterà il proletariato solo a venir diviso ed utilizzato come carne da cannone.

Lotta di classe o guerra di sette?

La minaccia è quella di una guerra etnica/settaria, precursore dei pericoli del futuro. In ultima analisi, nonostante le differenze tra il PKK e il Da’esh, i due sono accomunati da molte somiglianze. Un socialismo di facciata non impedisce ad una milizia etnica di giocare il suo ruolo nell’avvitamento del circolo vizioso del conflitto tra etnie e della pulizia etnica. È chiaro che in questa lotta il Da’esh è l’aggressore e che il PKK sta semplicemente difendendo il proprio territorio (4). È chiaro anche che, rispetto al Da’esh, il PKK può apparire decisamente “progressista”. Niente di tutto ciò impedirà a ciascuno di essi di assumere il proprio ruolo nell’intensificazione del conflitto tra etnie.

Ovviamente denunciamo i massacri di curdi perpetrati dal Da’esh. Comunque, al contrario degli altri a sinistra, gli internazionalisti riconoscono che coloro che muoiono nelle file del Da’esh sono principalmente proletari di città e di campagna. Tra i curdi ci saranno molti combattenti contro il Da’esh, mossi dall’aver perso i propri cari in uno massacro settario ad opera dei miliziani di Shia in Iraq, e dallo stato Alauita in Siria. E anche nei ranghi del Da’esh, come tra i curdi, ci saranno molti giovani operai e contadini che sono stati coscritti in queste bande.

In una lotta come questa, dove i proletari sono spinti al macello, gli uni contro gli altri, in nome del nazionalismo e della religione, i comunisti non prendono parte. Quelli che prendono parte in questa guerra non contribuiscono, nel lungo periodo, ad alcuna vittoria parziale, ma semplicemente alla maggiore divisione etnica, e aumentano la militarizzazione della regione, in nessun caso avvantaggiando la classe lavoratrice. Sembra inoltre ironicamente che molti a sinistra, specialmente quelli allineati al PKK in Turchia, che per tanto tempo hanno parteggiato con qualunque imperialismo locale si fosse opposto all’America, ora tifano per gli Stati Uniti. Ovviamente questi sanno che l’intervento statunitense in questa guerra non è certo per il bene dei popoli mediorientali, ma sembra l’abbiano dimenticato molto velocemente.

La classe lavoratrice, sia in Medio Oriente che nel resto del mondo, non è sufficientemente forte per fermare questa guerra, così come nel 1914 non la era per la Prima Guerra Mondiale, o il genocidio armeno un anno dopo. Pretendere il contrario sarebbe illusorio. Comunque, questo non significa che i rivoluzionari debbano tuffarsi a pesce nella scelta dello schieramento e comportarsi in una maniera che sicuramente prolungherà e intensificherà i conflitto etnico/settario. È importante ricordare che l’assedio di Kobane non è altro che un momento in una lotta più ampia in tutta la regione, combattuta dai mandatari dei vari imperialisti locali. La Turchia insieme all’Arabia Saudita, e il Consiglio di Cooperazione del Golfo, continueranno a cercare di sovvertire lo stato siriano e la Turchia continuerà la sua guerra terrorista non solo contro il PKK, ma anche la popolazione civile nel Kurdistan turco. È quasi inevitabile che di rimando le forze opposte alla politica turca inizieranno a inviare armi al PKK affinché continui la sua guerra contro la Turchia. Le recenti manifestazioni in Anatolia a supporto dei combattenti di Kobane hanno portato alla morte di oltre trenta persone, la maggioranza di questi uccisi nello stato turco e in alcuni casi da gruppi nazionalisti turchi, e si sono visti i carri armati dell’esercito statale contro i dimostranti per la prima volta dal colpo di stato del 1980. Le forze armate turche hanno anche, dopo un periodo di cessate il fuoco, rinnovato i loro attacchi al PKK in Anatolia. Ovviamente, in questo caso la Turchia gioca il ruolo dell’aggressore, ma quando il PKK risponderà per le rime ed ucciderà alcuni degli arruolati turchi, questo non interesserà alle madri, ai parenti e agli amici in lutto... e così la spirale di odio etnico porterà ad altre violenze, altri assassinii e a massacri.

L’alternativa, che gli internazionalisti oppongono a tutto ciò, è quella della lotta di classe contro tutte le “soluzioni” nazionali. Potrebbe sembrare molto lontano ora, ma solo quattro anni fa lo sciopero TEKEL in Turchia sembrava davvero aver rotto le divisioni tra lavoratori curdi e turchi, ed aveva portato ad una ondata di scioperi ancor più ampia. Il 2013 ha visto grandi manifestazioni in Anatolia scatenate dalla brutalità poliziesca contro i manifestanti a Gezi park di Istanbul. Tre anni dalla primavera araba possono sembrare tanti, ma oggigiorno questi cambiamenti accadono molto rapidamente. Sebbene il proletariato sembri ora debole, torneranno le lotte dove la classe dovrà combattere per i propri interessi, e c’è solo una soluzione per superare la divisione tra etnie e sette: l’unità tra lavoratori in quanto lavoratori, non come curdi, turchi, arabi, persiani, sunniti, sciiti, cristiani o yadisti.

D. Valerian 28/10/14

Glossario –* Chi è chi in Kurdistan – Un breve sunto*

PKK: Partito dei lavoratori del Kurdistan. Una forza politica e militare del Kurdistan turco, originariamente marxista-leninista (stalinista) fondata nel 1978 da Abdullh Öcalan (in carcere in Turchia dal 1998). In guerra con lo stato turco dal 1984.

PYD: Partito di unione democratica. Branca siriana del PKK fondata nel 2003.

YPG: Unità di protezione popolare. Ala militare del PYD.

KNCS: Consiglio nazionale curdo in Siria. Un raggruppamento eterogeneo di organizzazioni politiche curde in opposizione al PYD e sotto il patrocinio del KDP.

KDP: Partito democratico curdo. Fondato nel 1946 da Musafa Barzani e ora guidato dal figlio Massoud. È il partito principale nel KRG.

PUK: Unione patriottica del Kurdistan. Fondata in nel Kurdistan iracheno nel 1975 successivamente a una divisione nel KDP. È dominante nella parte meridionale del Kurdistan iracheno e il suo leader Jalal Talabani fu Presidente dell’Iraq dal 2005 al 2014.

(1) Vedi questo articolo per un esame più approfondito del Da'esh: leftcom.org

(2) Vedi en.internationalism.org

Ci sono molti dettagli sulla storia del PKK tra cui un'interessante sezione sul suo atteggiamento nei confronti delle donne.

(3) Vedi In Rojava: People’s War is not Class War.

(4) Specifichiamo che il termine aggressore va preso nel suo significato significato tecnico-militare, non implica un giudizio di valore tra le forze in campo né tanto meno lo schieramento a favore di una di esse.

Martedì, April 5, 2016