La guerra in Afghanistan

Il 7 Ottobre 2001 va in scena l'attacco militare all'Afganistan da parte delle truppe americane con il supporto del fedele quanto interessato alleato inglese. Niente Onu, niente Nato, se non la richiesta di imprimatur per la prima e l'appello formale all'articolo 5 per la seconda. Come dire: vogliamo la solidarietà di tutti, ma facciamo da soli, al massimo possiamo prevedere la presenza dell'alleato britannico e di qualche contingente di rappresentanza internazionale preso qua e là a seconda delle circostanze tattiche e di convenienza nella gestione di tutta l'operazione.

Se il problema fosse: gli Usa sono stati oggetto di un grave atto di terrorismo e quindi, piaccia o no, hanno tutti i diritti, morali e politici, di perseguire con la forza i responsabili di tale atto criminoso, daremmo ragione alle impostazioni borghesi che, delle guerre e delle loro cause, nascondono i veri motivi per dare in pasto all'opinione pubblica le giustificazioni che appaiono per essere le più credibili. Ma le cose non stanno in questi termini. La borghesia americana e quella occidentale al seguito, è riuscita a far passare questa ennesima guerra come lo scontro tra due civiltà, come la necessaria sfida del mondo democratico contro l'intolleranza religiosa e il disprezzo della vita umana innescato da un tremendo atto di terrorismo. L'atto di terrorismo c'è stato, i morti anche, tanti, troppi per un solo episodio, ma dietro il tragico scenario ben altri e più complessi sono i motori della vicenda.

Partiamo dal presunto responsabile, bin Laden. In molti ambienti politici si insiste sul termine presunto non perché il personaggio in questione abbia poche probabilità di essere l'organizzatore degli attentati, ma perché gli attentati non sono stati mai rivendicati. Il diretto interessato, pur assumendone la responsabilità morale, non ha mai dichiarato di esserne l'organizzatore e perché, in base a quel principio giuridico che molto spesso gli esponenti della borghesia usano strumentalmente quando fa loro comodo, si è colpevoli solo dopo un processo e sulla base di prove inconfutabili. Il processo non c'è stato, le prove sono secretate, chi le ha potute visionare pur non facendo parte dei governi occidentali e asiatici della coalizione, (un ex ambasciatore americano in Medio oriente) ha dichiarato che quei capi di accusa non verrebbero accolti da nessun tribunale serio, in compenso la guerra è partita immediatamente con violenza e determinazione. Gli stessi ambienti insistono anche sui "buchi neri" che emergono dalle modalità con cui si è espressa, meglio sarebbe dire non espressa, la capacità di Intelligence dei servizi segreti americani in occasione degli attentati, quasi a supporre una sorta di connivenza con gli attentatori.

A noi non interessa entrare nel merito di queste considerazioni, va ben chiarito invece che la questione giuridica non cambia di molto i contorni politici del primo, né i veri obiettivi della seconda, e che le vera o presunta inefficienza dell'Intelligence americana rimane in un cono d'ombra che difficilmente potrà essere illuminato.

La primula verde, primula in quanto latitante, verde come il colore dell'Islam, non va considerato soltanto come il simbolo di quell'integralismo religioso che convoglia su di sé la rabbia e lo spirito di rivincita delle popolazioni islamiche. Non si presenta solo come il vendicatore dei torti subiti, il paladino della lotta contro l'occidente americano corrotto e corruttore.

Osama bin Laden si presenta anche come uomo d'affari dalle molteplici attività economiche e speculative con particolare riferimento alla questione petrolifera. Alleato economico di alcuni Emirati arabi produttori di petrolio non aderenti all'Opec, nemico giurato della monarchia dei Saud, sia per questioni religiose, sia soprattutto per un contenzioso su alcuni pozzi petroliferi situati nel nord della penisola arabica, bin Laden non ha mai nascosto il suo ambizioso progetto di crearsi un piccolo impero basato sullo sfruttamento del petrolio.

Il primo significativo passo sarebbe quello di spodestare dal potere politico i Sauditi con la conseguenza di sostituirsi a loro non soltanto nella gestione politica del potere, ma anche di quella economica relativa al petrolio di cui sono i primi produttori al mondo. Il secondo riguarderebbe la possibilità di creare una nuova rete di alleanze tra paesi integralisti basata sulla gestione del petrolio fuori e contro il monopolio americano gestendo quantità e prezzi.

In una recente dichiarazione, prima degli attentati dell'11 settembre, ha minacciato di elevare il prezzo del grezzo a 140 dollari a barile, una volta portato a compimento il suo progetto politico. Terzo, possedendo tra le altre, una impresa di servizi specializzata nella costruzione e manutenzione delle pipe lines, non avrebbe disdegnato di partecipare agli appalti per la messa in opera di quell'oleodotto che dalla zona del Mar Caspio porterà l'oro nero sino alle sponde dell'oceano indiano, operando dietro la copertura di qualche stato compiacente, l'Afganistan e non solo, interessati ad eventuali compartecipazioni.

Uomo di fede ma anche uomo d'affari. Determinato e "integerrimo" esecutore della legge coranica, ma contemporaneamente, fedele interprete delle leggi del mercato come si conviene ad un facoltoso rampollo della borghesia saudita. Tutti gli obiettivi hanno come denominatore comune lo scontro diretto con l'imperialismo americano che non può assolutamente concedere spazi ad iniziative del genere indipendentemente dalla loro presunzione e fattibilità. Non per nulla, poche ore dopo gli attentati alle torri e al Pentagono, la pista di bin Laden e del governo talebano è stata immediatamente imboccata.

Non interessa sapere in questa analisi degli avvenimenti e della guerra che ne è seguita, se il vero responsabile degli attentati terroristici sia effettivamente bin Laden o no; se l'ineffabile inefficienza dei servizi segreti americani, nonostante un ufficiale avviso da parte del Mossad su possibili attentati, sia da imputare al fattore sorpresa o a una sorta di silenzio assenso che non abbia valutato sino in fondo l'entità della catastrofe. Il dato di fatto è che il tragico episodio ha fornito su di un piatto d'argento l'opportunità per il governo americano di mettere in atto la destabilizzazione dell'Afganistan secondo un progetto che era pronto dal 1998. Appena si esce dalla drammaticità della cronaca degli attentati, migliaia di morti tra cui moltissimi lavoratori, e da quella ancora più drammatica delle sofferenze di milioni di civili afgani vittime della guerra, si delinea il vero scenario che fa da sfondo al concatenarsi degli episodi in atto.

Lo scenario di crisi internazionale

Elemento da non sottovalutare è il quadro economico all'interno del quale è maturata questa ennesima crisi bellica. Il Giappone continua il suo percorso di crisi che dura da sei anni. La Germania è ufficialmente in recessione da un anno. Il resto dell'Europa registra continui aggiustamenti del Pil al ribasso. A soffrirne sono, oltre ai settori finanziari, l'economia reale in quasi tutti i comparti. Le tanto auspicate privatizzazioni, che tutto avrebbero dovuto risolvere, sono in affanno.

Gli Usa stanno registrando una recessione che in dodici mesi non ha dato segni di rallentamento. È la crisi più lunga e profonda dal 1971. Otto mesi fa il Nasdaq ha registrato una perdita del 70% trascinando al ribasso le già deboli borse internazionali. I settori dell'alta tecnologia, su cui i governi americani avevano puntato, sono collassati. La produzione di microchip, di personal computer, la telefonia cellulare e via cavo, la cosiddetta new economy hanno fatto bancarotta. Grave è anche la situazione nella old economy. La grandi corporation hanno dovuto correre ai ripari producendosi in mega ristrutturazioni e accorpamenti, interi settori come quello dell'automobile e delle compagnie aeree stanno licenziando a centinaia di migliaia di addetti. Anche l'agricoltura sta soffrendo la grave fase della congiuntura economica. I consumi interni sono diminuiti mentre il deficit commerciale ha sfiorato l'astronomica cifra dei 500 miliardi di dollari.

Dopo otto anni di sviluppo basato sulla bolla finanziaria, sull'indebitamento delle imprese e delle famiglie, sulla capacità imperialistica di scaricare al di fuori del mercato domestico una parte delle proprie contraddizioni, lo spettro della crisi è ricomparso. Le sofferenze del capitalismo sono sempre le stesse: sovrapproduzione e caduta del saggio del profitto. I meccanismi di produzione non creano "troppa ricchezza" rispetto alle esigenze e alle aspettative sociali, più semplicemente si produce troppo in termini capitalistici. Al culmine del processo di accumulazione si producono troppi capitali perché possano continuare a essere investiti ad un remunerativo saggio del profitto. Si investono troppi capitali speculativi per ottenere adeguate plusvalenze. Si producono troppe merci e servizi a prezzi che la domanda non è in grado di assorbire. Si crea troppa forza lavoro che si possa continuare a sfruttare con quei livelli di salario.

Nulla di nuovo sotto il sole se non che, ad aggravare i ritmi e le dimensioni delle crisi, opera la legge della caduta del saggio medio del profitto. In termini elementari la legge, vero e proprio cancro che erode dall'interno i meccanismi dell'apparato produttivo capitalistico, si esprime nella progressiva difficoltà da parte del capitale ad ottenere profitti adeguati alla massa degli investimenti. Più il capitale investe in tecnologia e beni strumentali e meno impiega, in termini relativi e assoluti, forza lavoro, l'unica componente in grado di produrre plusvalore e quindi profitti. La difficoltà di valorizzazione del capitale, a sua volta, accelera il processo di crisi economica creando un circolo vizioso dal quale il capitalismo moderno non può uscire, se non temporaneamente, aumentando il suo tasso di aggressione nei confronti del proletariato. Le stesse statistiche borghesi, per quanto riguarda l'esperienza americana, indicano in un 40% la diminuzione dei saggi del profitto a partire dalla chiusura della seconda guerra mondiale.

Ne consegue che quando i morsi della crisi si fanno sentire, l'aggressività e la ferocia del capitalismo crescono in maniera esponenziale. La dimostrazione sta in quel fenomeno economico e politico che eufemisticamente va sotto la definizione di globalizzazione. Il capitale più forte schiaccia il più debole, l'imperialismo più potente impone le sue leggi nei confronti di quelli più piccoli, i meccanismi di valorizzazione dei capitali transnazionali invocano la libertà di decentrarsi là dove i costi del lavoro sono minori, dove più basse sono le garanzie sindacali, senza vincoli di sorta nell'assumere e nel licenziare, invadendo con la forza della pressione politica e delle armi ogni mercato che abbia interesse economico e strategico. Anche in questo caso nulla di nuovo, certo, è la perenne storia del capitalismo e del suo modo imperialistico di esprimersi, fatta eccezione per l'ingigantirsi della bolla speculativa, per la finanziarizzazione delle crisi, per la generalizzazione del fenomeno e la sua intensità.

Solo in questi termini è possibile spiegare come, a fronte di una capacità produttiva che non ha riscontri storici, basata sulla drastica diminuzione dei tempi e dei costi di produzione, si registri una maggiore povertà in termini relativi e assoluti. Più aumentano le capacità produttive e più si intensifica lo sfruttamento della forza lavoro in termini di ritmi, di flessibilità in entrata e uscita, in precarietà del posto di lavoro e di smantellamento dello stato sociale. La stessa aggressività si registra sui mercati commerciali e finanziari dove la lotta tra gli Usa e il resto del mondo occidentale si combatte a suon di supremazia delle divise, di capacità nel convogliare le rendite parassitarie, per il possesso di aree economiche in cui esercitare la propria supremazia in fase produttiva e distributiva. L'altro mercato, che da un decennio vede uno scontro epocale tra l'economia americana e quella di Europa, Russia e Giappone, è quello delle materie prime di cui il petrolio ne è la quinta essenza. Petrolio significa energia di cui nessun paese industrializzato può fare a meno, significa produzione e trasporti, industria petrolchimica e derivati, industria della plastica e tessile, significa una rendita finanziaria pari a centinaia di miliardi di dollari all'anno. Chi controlla il petrolio, la sua rendita e le vie di commercializzazione, controlla l'economia mondiale

Il grande obiettivo

Le strade che legano la questione della crisi internazionale, del petrolio, all'Afganistan sono brevi e ben disegnate anche se all'interno di una intricata rete di scontri e di alleanze. Il punto di partenza sono i giacimenti petroliferi del Kazakhistan, le riserve di gas naturale del Turkmenistan e le relative pipe line che dovrebbero portare gas e petrolio dai territori dei paesi produttori sino a Karachi in Pakistan sulle coste dell'oceano indiano. Il progetto americano comporta più fasi e relative politiche di realizzazione.

Innanzitutto le concessioni per l'estrazione del greggio e del gas in loco vincendo la concorrenza internazionale. Le grandi compagnie americane quali la Chevron, la Texaco e la Unocal devono vedersela con la francese Elf, la russa Gasprom e l'italiana Eni. In gioco ci sono 95 milioni di barili al giorno e riserve non ancora sfruttate per 400 milioni di tonnellate di greggio nel sottosuolo kazaco, che fanno dell'area transcaucasica il secondo giacimento al mondo dopo quello del Golfo persico.

In secondo luogo c'è la costruzione della pipeline che deve attraversare il territorio afgano. Il progetto che prevede uno stanziamento di circa 5 miliardi di dollari, ha senso per chi lo costruisce solo se è garantita l'affidabilità politica del governo che ne concede il passaggio, la futura gestione economica e commerciale e gli appalti su tutta la rete di infrastrutture che necessitano. Sono previste infatti la costruzione di una rete ferroviaria che costeggi il percorso dell'oleodotto, reti stradali sia ad est che a ovest dell'asse nord-sud, reti telefoniche a fibre ottiche e gli appalti relativi alla manutenzione. Un business di un altro miliardo di dollari che non deve sfuggire alle imprese americane. Anche in questo caso il progetto prevede l'eliminazione da tutta la complessa operazione dell'Iran, nemico numero due nelle classifiche americane, della Russia che ha gli stessi interessi e che pretende di perseguirli in nome di una antica prelazione sui territori in quanto ex sovietici, dell'Europa contro la quale si è mossa tutta la politica petrolifera statunitense dalla guerra del Golfo ad oggi.

L'altra posta in gioco è la cosiddetta rendita petrolifera. Stante i ritmi di sfruttamento odierni del petrolio, il livello medio dei prezzi nel lungo periodo, si spendono circa 1800 milioni di dollari al giorno per l'approvvigionamento energetico. Un flusso enorme di capitali che quotidianamente si sposta da un'area all'altra incidendo notevolmente sulle economie mondiali. La sola differenza di un dollaro a barile può determinare l'arricchimento per chi vende e difficoltà nei costi di produzione per chi compra. Con lievitazioni più ampie si possono aprire voragini nella bilancia dei pagamenti con l'estero, crisi economiche indotte dall'aumento dei costi di produzione, inflazione nei settori produttivi più esposti alla concorrenza internazionale.

Il controllo del petrolio, quindi, le sue rotte di commercializzazione, la possibilità di concorrere alla determinazione dei prezzi di vendita, la discrezionalità nell'includere o nell'escludere dall'approvvigionamento aree e paesi in casi estremi di crisi e di gravi tensioni internazionali, sono questioni di importanza strategica assolutamente irrinunciabili.

Ma c'è un'altra questione che è legata al petrolio, la divisa con la quale avvengono le transazioni sul mercato internazionale. Queste avvengono in dollari, il che significa che per gli Usa, più il prezzo del greggio è alto più è alta la rendita che ne ricavano sul mero terreno monetario. Un alto costo del greggio significa una maggiore richiesta di dollari, il che si trasforma in un aumento della valuta americana la quale può godere di una rendita finanziaria che fa affluire verso le casse americane un fiume di valute la cui piena è direttamente proporzionale alle quantità di greggio vendute e al loro prezzo. Imporre il dollaro come unità di misura e coefficiente universale di scambio tra le merci, e tra le merci e il petrolio, significa ribadire la supremazia finanziaria americana anche nell'aria asiatica, ai confini con la Cina, contro il revanscismo russo e le ambizioni dell'Euro.

Petrolio, dunque, ma non solo. Controllo della materia prima energetica più importante, ma anche rendita petrolifera. Guerra commerciale e finanziaria, gestione della speculazione internazionale e determinazione dei flussi monetari. Occupazione di quel territorio che lega i destini economici e strategici dell'Europa all'Asia lasciati liberi dal crollo dell'Urss e non ancora occupati da Cina e Giappone. Questa è la partita che si sta giocando in Afganistan dopo quelle del Golfo e del Kosovo. Il vero bersaglio non è bin Laden e il governo talebano che lo nasconde, ma la concorrenza internazionale nella gestione del petrolio caspico. Il mezzo è rappresentato dalla guerra per la ridefinizione delle alleanze politiche in tutti i paesi dell'area interessata. La scusa è fornita dalla vendetta nei confronti di chi ha perpetrato un simile attentato nei confronti degli Usa. Lo scenario all'interno del quale tutto è maturato, si è ingigantito e velocizzato, è la crisi economica internazionale e la recessione americana che ne è la locomotiva trainante.

Un po' di storia

Il crollo dell'Unione Sovietica ha, da un lato, tolto all'imperialismo americano un feroce competitore e, dall'altro, ha aperto enormi spazi di intervento in aree economiche e strategiche che precedentemente non erano nemmeno ipotizzabili. A questo si affianca un'altra condizione: la ricomposizione imperialistica internazionale, dopo la fine della guerra fredda, è un processo ancora in "fieri" che sta esprimendo linee di tendenza ma non ancora centri di potere economico, politico e militare in grado di opporsi agli Stati uniti.

All'atto del crollo dell'Urss, nell'area trans-caucasica, quella interessata dai giacimenti petroliferi del Kazakhistan e dal gas del Turkmenistan, si è aperto un vuoto di potere che in molti hanno tentato di colmare. Ci ha provato inizialmente il petro-finanziere argentino Bulgheroni che è quasi subito uscito di scena quando sono scesi in campo i colossi petroliferi internazionali nonostante gli accordi già firmati da parte del governo del Kazakhistan. Poi sono arrivati i francesi della Elf, la Bp inglese, l'Eni italiana, la Chevron e la Texaco americane, ma soprattutto la Unocal che ha giocato, e sta tuttora giocondo, un ruolo determinante nello scenario politico afgano, sostenuta dai servizi segreti e dal governo americani.

  1. Il primo obiettivo era quello di avere le concessioni per l'estrazione del greggio e i relativi processi di raffinazione.
  2. Il secondo riguardava il progetto di portare il greggio dalla zona di estrazione sino all'oceano indiano passando per il Turkmenistan, Afganistan e Pakistan evitando il territorio iraniano.
  3. Il terzo era inerente all'enorme indotto delle pipeline. Chi si fosse accaparrato le concessioni in territorio kazaco e l'appalto per la costruzione dell'oleodotto, avrebbe avuto buone possibilità di entrare a far parte di quella cordata che si sarebbe interessata alla costruzione di una rete ferroviaria parallela all'oleodotto, di reti autostradali di viabilità a controllo della direttiva nord-sud sino all'oceano, reti elettriche, telefonia via cavo ecc.

Un enorme business che, accoppiato all'aspetto strategico del controllo del petrolio e della rendita petrolifera, ha reso l'area di estrema e strategica importanza per tutti gli imperialismi, primo fra tutti quello americano che sin dai primi anni novanta ha spostato l'asse delle proprie attenzioni sui paesi asiatici ex sovietici e sull'Afganistan.

Il primo problema da risolvere riguardava l'affidabilità politica dell'Afganistan post regime filo sovietico di Najibullah, tappa obbligata del percorso dell'oleodotto, regime caduto nel '92 sotto i colpi dei mujaheddin, armati, finanziati e politicamente coperti dal governo americano nell'ultimo episodio militare della guerra fredda. Via i sovietici scoppia la guerra civile tra le file dei vincitori per il potere politico, per il controllo del territorio in termini di produzione e commercializzazione dell'oppio e dei suoi derivati. In palio c'erano circa 250 / 300 milioni di dollari all'anno che, per un'economia povera, resa ancora più povera da un decennio di guerra, rappresentava un incentivo alla lotta di tutti contro tutti, ad alleanze quantomeno improbabili e a tradimenti consumati nello spazio di un mattino.

Solo formalmente il governo di Rabbani, con a ministro della difesa il generale Massud, aveva ricomposto l'unità nazionale e le rappresentanze di potere delle varie etnie. Nei fatti i Pashtun del centro sud, l'etnia numericamente più forte, mal sopportava un regime di etnia tajika, che non solo le aveva sottratto il potere politico, ma anche buana parte dei lucrosi traffici di droga. Lo stesso dicasi per le etnie minori, quale l'uzbeka di Dostum, quella Farsi e degli Hazarà sciiti che di questi traffici non vedevano che le briciole. Per il governo americano fu quindi gioco forza entrare nel merito della questione afgana, eliminare le forze palesemente ostili, individuare tra quelle rimaste in campo le uniche che apparentemente potevano dare le maggiori garanzie, armarle, sostenerle al punto di spianare loro la strada del potere politico.

Il lavoro sporco è stato fatto dai servizi segreti pakistani (ISI), dietro le quinte la regia del governo americano. La sinergia si basava su di una comunione di interessi sia economici che strategici. Per il governo d'Islamabad aiutare i Talebani, ovvero la componente Pashtun contro le etnie tajika e uzbeka, significava assicurarsi un alleato più facilmente controllabile. Consentendo ai Talebani di arrivare al potere, significava consegnare a loro il quasi monopolio della produzione e del trasporto dell'oppio in Afganistan, in modo da assicurarsi nel proprio territorio la commercializzazione verso le grandi multinazionali della droga per un giro di affari che sfiorava il miliardo di dollari. Inoltre l'avere alle frontiere uno stato satellite consentiva al Pakistan di concentrare i propri sforzi militari ad est, sul controverso confine del Kashmir in chiave anti indiana. In aggiunta il governo di Islamabad sperava di essere in qualche modo remunerato per il passaggio sul suo territorio dell'oleodotto che dal Kazakhistan dovrà portare il petrolio proprio nel suo porto di Karachi.

Per gli Usa, che a quel punto hanno deciso di chiudere tre occhi sul problema droga e sulla questione integralismo, il governo talebano sembrava poter dare garanzie di unicità territoriale e politica, e fornire quella affidabilità che era necessaria ad un investimento di circa quattro miliardi di dollari per costruire la pipe line, senza correre il rischio di pagare tangenti a tre o quattro etnie diverse e di subire sabotaggi. In pochi mesi le scuole coraniche di Quetta e Peshawar si sono trasformate in fucine di guerriglieri integralisti. In meno di un anno, da tremila "studenti" coranici mal equipaggiati, denutriti, con scarsa dimestichezza con le armi, si è creato un esercito di 60 mila uomini, equipaggiati di tutto punto, persino con armamenti pesanti. Al resto hanno pensato i dollari. Molti capi tribù hanno preferito schierarsi dalla parte della nuova prospettiva politica non perché di etnia Pashtun o perché integralisti, ma semplicemente convinti dal profumo dei soldi. Così è caduta Kabul, così i Talebani sono arrivati al potere nel settembre del 1996.

Tutto come da programma? No. A poco più di un anno di distanza la Unocal, con la partnership al 10% della saudita Delta oïl corporation, dichiara di abbandonare il campo nonostante i cospicui investimenti effettuati sotto forma di finanziamenti ai servizi segreti pachistani e agli stessi Talebani prima che arrivassero al potere. Le ragioni risiedevano nel mancato obiettivo, per cui tanto si era "lavorato", di avere a disposizione un governo affidabile che giustificasse altri investimenti, questa volta produttivi, per la costruzione dell'oleodotto e di quanto necessario al suo indotto economico e commerciale.

Tre le ragioni di questo fallimento.

  1. La prima riguardava il controllo politico dell'Afganistan. I Talebani avevano sì conquistato quasi il 90% del territorio ma non erano riusciti ad annettersi la valle del Panshir che continuava ad essere sotto la gestione dell'Alleanza del Nord di Massud. Questa zona era di vitale importanza strategica, da lì si controllano i passaggi verso il Tagikistan, il conteso Kashmir e, soprattutto l'unica via verso la Cina. Il mancato controllo di questa zona rendeva debole tutta la linea strategica su cui si basava il sostegno al governo integralista. In più la presenza delle forze di Massud rendeva instabile il governo dei Talebani; la preoccupazione era che, prima o poi, riprendesse il regolamento di conti tra le due maggiori componenti afgane, con il rischio della riapertura della guerra civile, con tutte le conseguenze negative del caso.
  2. Il secondo problema, certamente sottovalutato dalle amministrazioni americane, era che l'arroganza e la violenza del governo talebano stavano creando un sordo malcontento all'interno di una parte consistente della popolazione. Il nuovo governo non fece assolutamente nulla per riparare ai guasti economici e sociali della guerra. Nessun progetto di ricostruzione, pur nei limiti e nelle ristrettezze finanziare del paese, partì da Kabul. La stessa capitale, martoriata da anni di guerra contro i Sovietici e dalle guerre civili successive, venne lasciata cadere a pezzi. In compenso il fanatismo religioso ricacciò le donne afgane nel buio del medio evo islamico impedendo loro tutto, salvo una faticosa sopravvivenza, alle dipendenze di un uomo, venuto meno il quale, si aprivano baratri di miseria e umiliazione. E con le donne il medio evo è calato su tutta la società. Niente industrie, nessuna economia degna di questo nome, e come cornice la fame e la miseria di sempre per la stragrande maggioranza della popolazione. Per i burattinai di Washington alla "sorpresa" è seguita la preoccupazione che un simile regime potesse innescare una risposta sociale che avrebbe messo in discussione la stabilità del governo e la praticabilità del progetto.
  3. Per ultimo, c'era l'impresentabilità della nuova classe politica afgana. In un solo anno, il 1997, sotto la gestione talebana, la produzione di oppio grezzo è passata dalle 230-240 tonnellate degli anni precedenti a 2500. Tutto il mondo sapeva che il 75-80% dell'oppio mondiale veniva prodotto in Afganistan e che il suo governo si finanziava con il commercio della droga incurante delle denunce internazionali. I Talebani non erano disposti a rischiare investimenti produttivi, a tentare di ammodernare il paese e a rendere meno dura la vita degli afgani. Alla borghesia dei Mullah bastava la rendita derivante dalla produzione dell'oppio e dalla prima fase della sua commercializzazione e non altro. La dittatura teocratica aveva dato di sé la peggiore immagine possibile. Niente diritti civili, calpestati i diritti umani, ricchezza per i pochi narco trafficanti di stato e miseria per tutti gli altri.

Per queste ragioni, certamente più per le prime due che non per la terza, Washington ha dovuto prima nascondere il suo aiuto ai Talebani nella scalata al potere, poi intrattenere rapporti ufficiosi senza poter riconoscere ufficialmente la sua creatura, ed infine cambiare completamente strategia. A partire dai primi mesi del 1998 si è espressa la nuova linea. Il progetto rivisitato americano era quello di ribaltare i rapporti di forza in Afganistan, via i Talebani per un nuovo governo, tutto da inventare, perché il paese diventasse affidabile in funzione della sua alta posizione strategica.

Si sono così chiusi tutti i canali finanziari, le armi hanno cessato di affluire senza nessuna forma di controllo, il promesso prestito di 3,5 miliardi di dollari per riconvertire la produzione di oppio in colture alternative non è mai stato concesso. Sotto la spinta del governo americano i servizi segreti pakistani hanno allentato il loro supporto politico e logistico e l'Afganistan si è ritrovato isolato, sotto embargo Onu, privato di qualsiasi aiuto. L'alleato di ieri è diventato il nemico numero uno, e i nemici dell'Alleanza del Nord sono diventati i possibili referenti della nuova strategia.

La stessa sorte è toccata ad Osama bin Laden che ospite, e per molti versi primo attore di quel governo, ne ha seguito i destini. La risposta non si è fatta attendere. Nello stesso anno Osama bin Laden e i Talebani hanno scaricato la loro rabbia con due attentati terroristici alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania. Nell'ottobre del 2000 un altro attentato ha colpito una nave americana nel porto yemenita di Aden per poi produrre gli attentati alle torri e al Pentagono. Che le cose stessero in questi termini è verosimile. Che la dinamica degli avvenimenti abbia seguito questa logica è probabile, ma è assolutamente certo che gli attacchi terroristici dell'11 settembre non hanno fatto altro che presentare su di un piatto d'argento all'amministrazione Bush la possibilità di rendere militarmente operativo il piano di annientamento del governo talebano che era pronto dal 1998, e che sino a quel momento aveva potuto percorrere un itinerario solamente politico.

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Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.