Guerra e sfruttamento, un binomio indissolubile

Avanza l’escalation militare nel Golfo Persico e ovunque nel mondo

È molto probabile che, quando questo numero di Bc sarà uscito, la vicenda del giornalista Mastrogiacomo si sarà definitivamente conclusa con la liberazione sia del suo interprete ancora in mano ai talebani sia dell’operatore di Emergency che ha condotto, per conto del governo italiano, la trattativa che ha portato alla sua liberazione e ora in mano ai servizi afghani.

Probabilmente saranno stati liberati anche i marinai inglesi fatti prigionieri dalla marina di Teheran con l’accusa di aver sconfinato nelle acque territoriali iraniane. Ma ciò non significherà che i venti di guerra che soffiano in quell’area si placheranno, anzi è molto più probabile che si intensificheranno ulteriormente. Il governo italiano, che pure continua a sostenere che la presenza militare italiana in Afghanistan è dettata esclusivamente da ragioni umanitarie e dalla necessità di garantire il “rafforzamento della democrazia” in quel disgraziato e martoriato paese, ha infatti già annunciato che sta valutando l’opportunità di dotare i militari italiani di armi che consentano una maggiore capacità offensiva. E la liberazione dei 15 marinai inglesi non acquieterà lo “spirto guerriero” della ditta B&B, Bush e Blair; soprattutto del primo che ha già disposto l’invio di altre due portaerei, con relativi gruppi d’attacco, nelle acque del Golfo Persico. Per parte sua, l’Iran ha mobilitato l’esercito e sta svolgendo esercitazioni militari in previsione di un imminente attacco statunitense. Per non dire dei truculenti scontri in Somalia.

A dar credito alle dichiarazioni ufficiali dei vari governi che si dichiarano tutti impegnati affinché si affermino i migliori ideali di pace e la democrazia anche nelle lande più sperdute del pianeta, questa irrefrenabile corsa a menar di bombe e cannonate appare frutto della follia; ma in realtà le guerre, comunque camuffate, non sono mai state fatte perché si affermassero ideali più o meno nobili, ma sempre e soltanto per precisi interessi economici. Affermando ciò non scopriamo nulla di nuovo: la storia di tutte le guerre è sempre stata innanzitutto storia di contrasti economici altrimenti insanabili. Ma oggi qualcosa è cambiato, nel senso che la relazione fra guerra ed economia è divenuta funzionale ai processi di accumulazione capitalistica e pertanto una loro precisa e permanente esigenza così come l’aria per tutti gli esseri viventi.

A determinare questa più stretta relazione tra il processo di accumulazione del capitale e la guerra è stato il prevalere, a partire dalla crisi dei primi anni ’70 del secolo scorso, delle forme di appropriazione parassitaria del plusvalore basate sul controllo dei flussi del capitale finanziario sui mercati mondiali. Né poteva esser diversamente dato che è solo con l’esercizio della forza che, per esempio, è possibile imporre nelle transazioni internazionali l’uso di una determinata valuta anziché di un’altra anche quando ciò non è vantaggioso come accade con il dollaro nelle transazioni petrolifere. E, specularmente, solo opponendo forza alla forza è possibile sottrarsi a questo ricatto. Da qui, da un lato, la dilatazione della sfera finanziaria e l’ulteriore centralizzazione del capitale su base continentale e, dall’altro, l’inevitabile inasprirsi delle tensioni fra le diverse aree economiche del pianeta e il moltiplicarsi delle guerre.

Inoltre, siccome non può esserci appropriazione di plusvalore anche parassitaria senza che esso venga prodotto, e non c’è altro modo di produrlo che sfruttando la forza-lavoro impiegata nella produzione delle merci, così come è divenuta necessaria la guerra imperialista permanente, è divenuta permanente la necessità di intensificare fino all’inverosimile le forme di sfruttamento della forza-lavoro.

L’accumulazione di capitale finanziario, a partire da altro capitale finanziario è in realtà una sorta di illusione ottica che cela il fatto che essa può aver successo solo se in ultima istanza ha luogo uno spostamento di plusvalore dalla sfera della produzione industriale a quella finanziaria e se in quest’ultima se ne estorce in misura sufficiente a compensare i capitali di entrambe. Dato poi che il processo di accumulazione basato sulla produzione di capitale finanziario, tanto più se fittizio, si svolge a una velocità di gran lunga maggiore di quella del capitale industriale, ne è risultato accelerato tutto il ciclo di autovalorizzazione del capitale e quindi anche la spinta all’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro. La conferma di ciò è data dalla ormai accertata tendenza dei salari a scendere anche quando l’andamento della congiuntura economica è più favorevole e dall’estendersi, in contrapposi-zione alla concentrazione della ricchezza nelle mani di un numero sempre più ristretto di individui, della povertà anche a strati sempre più consistenti oltre che del proletariato industriale anche della piccola borghesia.

È così che è potuto accadere che negli Usa, dove il fenomeno ha potuto esprimersi quasi in purezza, nel 2005 (ultimo dato disponibile) - come ci informa Marco D’Eramo:

...I 300.000 americani più ricchi hanno dichiarato un reddito pari a quello cumulato dai 150 milioni di statunitensi più poveri: e cioè lo 0,1% (l’un per mille) in cima alla scala dei redditi ha incassato quanto il 50% che sta in basso; detto in altri termini: in media ogni persona del gruppo di testa ha incassato 440 volte in più di ogni membro del gruppo di coda: una disparità che non si vedeva dal 1928, da prima appunto della Grande Depressione. Una tale concentrazione della ricchezza non la si vedeva forse dai tempi dell’antico Egitto.

L’America povera dei super-ricchi - il Manifesto del 31 marzo 2007

Ma - continua D’Eramo:

La perversione più raffinata di questo meccanismo è che non solo scava un baratro tra ricchi e poveri, ma apre una voragine tra ricchi e super-ricchi: l’aumento del reddito dell’1% più ricco è stato dieci volte maggiore di quello del 10% più agiato. Oggi l’1% più ricco si mette in tasca più di un quinto di tutto il reddito americano (21,8%), il 2% in più dell’anno prima e più del doppio del 1980. E ancora meglio fa l’un per mille più ricco: nel 2005 il reddito medio annuo dell’1% più ricco è stato di 5,6 milioni di dollari (+908.000), mentre quello dell’un per mille è stato di 25,7 milioni di dollari (+ 4,4 milioni). Queste cifre sono così astronomiche che è difficile coglierne il significato. Allora mettiamola in questi termini: i 30.000 americani più ricchi dispongono di un reddito annuo che è superiore al Prodotto nazionale lordo di Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Perù messi insieme (che contano più di 270 milioni di persone). E 30.000 persone sono contenute in una cittadina come Oristano.

Ne risulta confermata pienamente la tesi del marxismo rivoluzionario secondo cui la guerra imperialista altro non è che l’altra faccia del più generale e insanabile conflitto di classe fra la borghesia e il proletariato e per questa ragione non la diplomazia potrà fermarla ma solo una coerente opposizione anticapitalistica. Per il proletariato opporsi alla guerra non è dunque solo un suo diritto elementare, ma un preciso dovere di classe, tanto più che ne va di mezzo il suo futuro e quello dell’intera umanità.

gp

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.