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Dopo più di un anno di “agitazione” nei mercati finanziari e nel sistema bancario di tutto il mondo, gli Stati Uniti - i campioni del libero mercato - sono stati costretti a ricorrere all’intervento dello stato per evitare la “catastrofe finanziaria”, cioè il totale collasso delle banche, delle istituzioni finanziarie, dei mercati azionari e, alla fine, la fuga dal dollaro.
L’acquisizione formale da parte dello stato delle due compagnie creditizie statunitensi, Fannie Mae e Freddie Mac (i cui debiti in ogni caso erano coperti dallo stato), non è bastato a recuperare la fiducia nei mercati, cosa che sta procurando incubi ai banchieri centrali di tutto il mondo .
Nella stessa settimana in cui una delle più grandi banche d’investimento statunitensi è stata lasciata affondare, Hank Paulson, segratario del tesoro USA, si è sentito in obbligo di presentare quello che è stato definito “il più grande intervento del governo dagli anni 1930” al fine di evitare il collasso di una compagnia d’assicurazioni, per paura delle prossime conseguenze negli Stati Uniti e nel mondo intero. Dietro le quinte i banchieri centrali di tutto il mondo si sono accordati per un prestito di miliardi di dollari per tentare di stimolare i propri mercati creditizi. I mercati azionari si sono risollevati, eppure nessuno sembra credere che il peggio sia passato. Al contrario, mentre scriviamo Paulson ha annunciato di volere ottenere dal Congresso la ratifica di un piano di salvataggio senza precedenti da 700 miliardi di dollari, per “stabilizzare i mercati”.
La sola spiegazione che i politicanti capitalisti e gli “esperti” di finanza possono portare a riguardo della crisi - che se non fosse per gli interventi statali coordinati avrebbe già superato il crash di Wall Street del 1929 - è l’esistenza di “pratiche corrotte” e “avidi speculatori”. La loro soluzione ora è una “più stretta regolamentazione”. Ma tutti sanno - e negli USA è ostentato - che la storia del capitalismo è punteggiata di speculatori e affaristi alla ricerca di denaro facile per sé. La questione reale è come la speculazione finanziaria in una forma o un’altra sia arrivata a dominare l’intera economia mondiale. Perché? Forse i capitalisti vedono che si fanno più soldi nelle operazioni e nei traffici finanziari che negli investimenti produttivi? La risposta non si trova nella pratica della vendita a breve di azioni (anche se alcuni trader ben inseriti hanno guadagnato 190 milioni di sterline vendendo azioni HBOS sul mercato azionario di Londra) o nella la proliferazione di mutui sub-prime, e nemmeno negli osceni bonus della City che hanno contribuito ad aumentare il numero di super-ricchi, ma nella crisi di accumulazione emersa una trentina di anni fa che ha portato una relativa scarsità di opportunità di investimenti profittevoli nelle industrie produttive, cioè nelle industrie dove viene creato nuovo valore, la cui sola fonte è il lavoro della classe operaia. Nell’ultimo decennio una quota crescente dell’enorme quantità di ricchezza generata dal lavoro salariato ed espropriata dai capitalisti sotto forma di profitti e tasse è stata incanalata nella sfera finanziaria dove i soldi, miracolosamente, sembrano produrre altri soldi (ma dove non viene creato alcun reale valore) e dove i profitti finanziari sono stati davvero insostenibili.
In tutto il parlare di “agitazione dei mercati”, poche parole sono state dedicate a quelli che, nella vicenda dei subprime, hanno perso la sola risorsa fondata su di reale valore, cioè la casa: i senzatetto che in numero crescente vivono accampati in tende nelle strade delle città statunitensi, non solo a Los Angeles. Ma, in ultima analisi, è all’intera classe operaia mondiale che sarà chiesto di pagare per quest’ultimo tonfo nella crisi globale del capitalismo. Nonostante le loro diverse condizioni di lavoro, i loro stili e livelli di vita, i lavoratori salariati, dappertutto, sono quelli che soffrono i veri danni. Dal più alto costo della vita alla perdita del lavoro, dal forte peggioramento delle condizioni di lavoro (di proporzioni intollerabili per molti) al taglio dei salari, dalla perdita della pensione alla cancellazione dei risparmi di una vita, dalla riduzione dei servizi sociali e assistenziali (il salario sociale) nelle roccaforti del capitalismo allo sprofondare senza freni verso intollerabili condizioni di vita di un numero crescente di lavoratori su tutto il pianeta.
Per quanto i riformisti e i “buoni” capitalisti con una coscienza morale possano dolersi per la situazione, resta il fatto che per il sistema capitalista nel suo insieme il benessere della classe operaia non è un problema. Mentre una classe operaia pagata relativamente bene, e ora eccezionalmente indebitata, ha fornito il mercato di sbocco delle merci dopo la Seconda Guerra Mondiale, ora tutto questo si scontra con la tendenza fondamentale del capitale ad appropriarsi di sempre più valore creato dal lavoro della classe operaia. In tempi di crisi come questo, questa tendenza può significare solo tagli ai salari reali e accresciuti livelli di sfruttamento. Oggi, l'interesse del capitale quello di restringere i consumi alla classe operaia piuttosto che di allargarli. Una cosa è certa: questa particolare crisi finanziaria non ha altra via da percorrere che la discesa lungo la crisi d’accumulazione postbellica del capitale, di cui essa è parte e che ha raggiunto un livello ancora più pericoloso.
Momenti di boom della speculazione finanziaria e relativo crollo ce ne sono stati tanti nella storia del capitalismo, per esempio, la “tulip mania” nell'Olanda del 17o secolo o la “bolla della South Sea”, ma il contesto odierno è abbastanza diverso. Nonostante la globalizzazione, il contesto della crisi presente è un mondo imperialista dove la concorrenza capitalista avviene a livello degli stati ed è perciò intrecciata alle rivalità politiche e militari. Mentre una volta il capitalismo poteva riprendersi dai suoi problemi di accumulazione attraverso un periodo di bancarotte e acquisizioni, la storia ha mostrato che nell’attuale epoca imperialista il solo modo che il capitale ha per avviare un nuovo ciclo di accumulazione è ricorrere alla guerra. La crisi odierna non fa eccezione.
Le difficoltà per la classe operaia sono serie. Nelle lotte che li aspettano, i lavoratori si sentiranno dovunque dire di abbandonare la lotta per i propri interessi, perché la situazione politico-economica della “nazione” (o qualche altro eufemismo che li leghi al destino del capitale) è troppo seria perché possa essere in qualche modo “danneggiata”. Nelle roccaforti del capitalismo, da entrambe le parti dell’Atlantico, per la classe operaia è tempo di svegliarsi dal suo letargo politico e dal suo indifferentismo, è tempo, per quelli che riconoscono l’enormità della situazione attuale, di unirsi nei primi passi verso la formazione di un partito di tipo nuovo. Un tale partito non avrà niente a che fare con l’interventismo statale o con qualche “new deal” che apparentemente riconcili gli interessi dei lavoratori salariati con quelli che beneficiano dello sfruttamento del lavoro salariato. Per la classe operaia mondiale la sola soluzione a questa crisi globale di dimensioni storiche è di intraprendere il percorso rivoluzionario per il rovesciamento dello stesso capitalismo. Affinché ciò accada, abbiamo bisogno di un partito che si estenda attraverso i confini nazionali del capitale, unito attorno ad un programma rivoluzionario e capace di guidare la lotta fino e oltre il rovesciamento degli stati capitalisti. È un obiettivo ambizioso, ma il livello dell’ambizione non fa altro che corrispondere alla gravità della situazione.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #10
13 ottobre 2008
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