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Il mese scorso si è chiuso il summit di Seul con un nulla di fatto. Al centro della contesa il tentativo da parte del Governo americano di convincere la Cina ad apprezzare la propria divisa, lo yuan. La risposta è stata assolutamente negativa senza nemmeno uno spiraglio d’apertura verso le richieste di Washington. Tradotto in termini elementari le ragioni dello scontro monetario sono tecnicamente semplici. Da un lato il Governo Usa cerca in tutti i modi di ridare fiato all’economia americana giocando sulla competitività dei propri prodotti nella speranza di aumentare le esportazioni e, contemporaneamente, di contenere le importazioni riequilibrando in parte il deficit della bilancia dei pagamenti con l’estero (in questo caso verso la Cina) per quanto riguarda il settore delle partite correnti. Come? Operando politiche di svalutazione del dollaro e pretendendo, contemporaneamente, una rivalutazione dello yuan. Dall’altro la Cina fa altrettanto con obiettivi diametralmente opposti. Tiene appositamente basso il corso della sua divisa per continuare ad essere competitiva con il prezzo delle sue merci, per mantenere, se non aumentare, il livello delle sue esportazioni che rappresenta quota parte rilevante del suo Pil. Ciò accade almeno da due decenni, ma l’attuale crisi rende le cose ancora più complesse e le relazioni monetarie tra i due imperialismi più aspre. Il presidente Obama ha messo in atto tutte le pressioni diplomatiche e non (compresa la minaccia di ricorrere al protezionismo doganale) a sua disposizione per la rivalutazione dello yuan. Il Governo di Pechino ha risposto che non può mettere in difficoltà le fabbriche cinesi per fare un favore a Washington che, oltretutto, pratica le stesse manovre al ribasso sul dollaro, così come fa il governo di Tokyo con le yen.
Dietro la guerra delle divise c’è il tentativo della Cina di mantenere una “rendita”di posizione commerciale che la pone come maggiore esportatore di prodotti manifatturieri in tutto il mondo, mentre gli Usa stanno tentando di uscire da una gravissima crisi che ha letteralmente depresso tutti i suoi fondamentali economici. I dati relativi all’economia americana sono impressionanti. Il debito pubblico, dopo gli interventi sanatori nei confronti degli Istituti finanziari e dopo i salvataggi delle maggiori imprese dell’economia reale, settore automobilistico in primis, è arrivato a13 mila miliardi di dollari (il 90% del Pil) ed è destinato ad aumentare nell’arco dei prossimi cinque anni, sino ad arrivare a superare abbondantemente il 100%. L’indebitamento privato è salito a 40 mila miliardi, di cui 13 delle famiglie, 11 delle imprese non finanziarie e 16 per quelle finanziarie. Anche se non interessa più di tanto all’Amministrazione Usa, l’esercito dei disoccupati è arrivato al 20% e quello dei diseredati che vivono attorno alla soglia di povertà, a più di 50 milioni.
In teoria, per salvare il salvabile, ad Obama servirebbe un dollaro sufficientemente basso da ridare fiato all’ economia, alla bilancia dei pagamenti con l’estero, ma non così basso da penalizzare ulteriormente le residue speranze di convogliare verso gli Usa gli investimenti stranieri, l’acquisto dei suoi titoli di Stato per riportare all’ovile almeno una parte della speculazione internazionale che, già prima della crisi, aveva abbandonato il dollaro, facendogli perdere quel ruolo di drenaggio del plusvalore internazionale che aveva consentito per anni il finanziamento dei suoi deficit. Al momento la doppia partita sembra impraticabile e i consiglieri economici del Presidente spingono per le prima delle soluzioni. La strategia è articolata ma concettualmente semplice. La Banca centrale deve mantenere basso il corso del dollaro attraverso un tasso d’interesse praticamente nullo (0 – 0,25). La seconda mossa è l’acquisto da parte sempre della Banca centrale di buoni del tesoro per aumentare la liquidità disponibile, favorire gli investimenti e continuare ad esercitare nei confronti della divisa nazionale un’azione al ribasso. L’operazione (quantitative easing) già resa necessaria con l’esborso di 1700 miliardi di dollari nel 2008 per i noti interventi, è riprogrammata (QE 2) nei prossimi anni per un ammontare di 500 miliardi di dollari. Se, come era nei piani del Summit di Seul, si fosse convinto il Governo cinese ad apprezzare la sua divisa, il giochino sarebbe riuscito, almeno sulla carta. Come sappiamo la risposta è stata negativa e in aggiunta le misure prese non portano molto lontano. Innanzitutto l’operazione di stampare dollari per inondare di liquidità il mercato interno ha come prima conseguenza l’ingigantirsi del debito pubblico. Questa massa di capitale fittizio, creato dal nulla, rischia poi, nel lungo periodo, di produrre effetti ancora più negativi delgli ostacoli che dovrebbe rimuovere, tra i quali lo spauracchio dell’inflazione e la ripresa su larga scala della speculazione. L’accesso alla liquidità monetaria a costi praticamente nulli sta stimolando le imprese e gli Istituti finanziari a ripercorrere quel cammino che è stato alla base dell’ultima grande crisi, che ancora non si è sopita, e i cui effetti permangono su tutti i mercati, per non parlare delle devastanti conseguenze che ancora produce nei confronti del proletariato americano e internazionale.
Solo una parte relativamente esigua di questa liquidità va agli investimenti, si calcola che non superi il 20%, mentre la quota più rilevante prende la strada della speculazione, si orienta verso l’acquisto di Buoni del tesoro emessi da Stati come il Brasile e l’India, che praticano interessi del 6% il primo e del 10% il secondo. O si dirigono verso la Borse di Hong Kong, Singapore, Bombay e Brasilia alla ricerca di una più facile remunerazione del loro capitale che non trovano più all’interno del quadro economico produttivo americano.
La conclusione è che la crisi da caduta del saggio del profitto continua a generare disastri all’interno del mondo capitalistico. La guerra delle divise è solo un tentativo di regolamento di conti tra i maggiori centri imperialistici internazionali, area euro compresa, destinato a lasciare le cose come stanno o, al massimo, ridisegnare imperialisticamente i territori di conquista finanziaria. L’unica certezza è che chi dovrà pagare il conto di tutto questo è ancora e solo il proletariato, l’unico produttore di plusvalore e, quindi, l’unica fonte di ricchezza reale a cui ricorrere per far sopravvivere un sistema economico in decadenza che, negli spasmi della sua malattia, non fa altro che produrre crisi, guerre, fame, miseria e sfruttamento per buona parte dell’umanità.
FDBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #11
Novembre 2010
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