Cgil il grande contenitore... del “vuoto a perdere” - Sulla manifestazione del 25 ottobre

Sicuramente non è la prima volta che un sindacato come la CGIL mette in campo tutte le sue risorse organizzative e tutto il peso degli addentellati sociali che ha costruito nel tempo per organizzare una grande manifestazione come quella di Roma del 25 ottobre. Ricordiamo quella del 1984 contro il decreto Craxi o quella del 2002 contro l'abolizione dell'articolo 18, solo per nominarne due di eccezionale presenza che per ampiezza ricordano quella odierna. Certo, contesti diversi, ma che ripropongono una serie di elementi di continuità, seppur in una realtà profondamente mutata. Il primo elemento è la volontà della CGIL di presentarsi sulla scena come l'unica opposizione di fatto, e di peso, alle misure intraprese dal governo. Nella sua mobilitazione ha cercato di convogliare il malessere di larghi strati del movimento operaio e non solo, all'interno di una piattaforma tanto vaga quanto generica, oggi sotto botta delle misure governative. Il secondo elemento è quello di rilanciare il suo ruolo all'interno della dialettica politica, reagendo all'obiettiva marginalizzazione che lo stesso ruolino di marcia governativo ha imposto intorno ai contenuti del proprio programma e intorno ai quali sono chiamati ad allinearsi, seppur fra scossoni ed equilibri precari, tutti gli attori politici e sociali.

Dicevamo che l'iniziativa della Cgil si cala in una fase di molto mutata rispetto a contesti precedenti. Le obiettive necessità borghesi nella crisi hanno sostanzialmente spostato interamente l'asse della mediazione politica e sociale intorno alla necessità improrogabile e improcrastinabile di garantire, tout-court, questi stessi interessi dando risposte alle esigenze maturate nell'attuale fase imperialista. Cosa significhi ciò per i proletari è chiaro nella sostanza di tutto l'arco dei provvedimenti messi in campo dal governo Renzi e su cui ci siamo dilungati nella nostra stampa.

La stessa Cgil è stata investita da questo processo.

Organo borghese fra gli organi borghesi, pur con le sue specificità e ruolo, non poteva che essere investita da questa dinamica, scontando il duplice problema di svolgere il suo ruolo di mediatore delle contraddizioni di classe per riportarle su un piano di dialettica istituzionale, e quindi di sostanziale pacificazione, con l'adeguarsi alle trasformazioni che la fase imperialista impone anche alla forma sindacato, nel suo ruolo di farsi carico, nella sua azione e nelle proposte, delle stesse necessità borghesi.

Un problema che non nasce sicuramente oggi, ma che attraversa nella sua sostanza tutta la fase imperialista dal secondo dopoguerra ad oggi e che si è andato ad approfondire, non senza lacerazioni e problemi, dalla seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso. Dalla svolta dell'EUR in poi è stato un continuo riadeguarsi ai terreni imposti dalle necessità della borghesia, e il cui punto di risoluzione non poteva che essere dato dal presupposto dell'arretramento di fatto delle posizioni di forza del proletariato.

Oggi, la fine della “concertazione” e poi del “dialogo sociale”, intesi come formule entro cui il sindacato svolgeva la sua funzione, non segna altro che i tempi mutati. Altra faccia della medaglia della ristrutturazione in senso autoritario e decisionista della stessa impalcatura della democrazia borghese.

Tornando al concreto, ciò che emerge chiaro, ancora una e per l'ennesima volta, è come la CGIL giochi interamente la sua partita in “difensiva”, più tesa a riposizionarsi e a ritagliarsi un proprio ruolo nell'ambito borghese che a perseguire quello di effettiva opposizione che si vuole cucire addosso, usando la sua forza sociale come base di forza per l'interlocuzione istituzionale.

Ciò insieme alla vaghezza della piattaforma della manifestazione, all'interlocuzione con settori del PD, lungi dal rappresentare una incomprensione della situazione, in realtà costituiscono i soli fattori su cui si spera di aprire uno spazio di fatto nella sua sostanza già chiuso (Leopolda docet!).

Il riformismo “classico”, di fatto entrato in crisi e moribondo, può sopravvivere o mutando e assecondando le logiche capitalistiche o riducendosi a contenitore delle contraddizioni sociali senza nessun sbocco e peso politico effettivo.

In ambedue i casi, cosa che la CGIL riesce ancora a sintetizzare, almeno in questa fase, la prospettiva è di consegnare la mobilitazione di classe alla sua ennesima sconfitta stretta nelle maglie di un “riformismo” imbelle che cerca solo il suo spazio di sopravvivenza, facendo passare magari la riapertura di un “tavolo di confronto” sullo “zero virgola” come una grande conquista del movimento dei lavoratori. Quante volte abbiamo visto questo teatrino delle parti sia sulle questioni più generali che nelle molte aziende investite dalla crisi e dai processi di ristrutturazione, e alla fine il costo salato lo hanno pagato sempre i lavoratori.

Il problema non sono, come mai lo sono stati, il milione di lavoratori in piazza, che esprimono “potenzialmente” una contraddizione verso le attuali politiche governative, seppur ingabbiati in una coscienza riformista dei propri problemi, il problema è il riformismo stesso che nelle sue forme politiche o sindacali si erge ad “esecutore testamentario” delle aspettative dei lavoratori e della loro sconfitta.

La forza della realtà ci pone di fronte con maggiore forza un “o noi o loro”, la stessa sconfitta del riformismo classico ha trascinato con sé il vecchio movimento operaio organizzato, riformismo che se pur ha addentellati ancora forti nel tessuto sociale, di fatto non riesce ad esprimere più nessuna prospettiva neanche di miglioramento sul terreno borghese, e ora nella sua crisi e nel suo dibattersi funge solo da freno all'affermarsi dei reali interessi proletari e classisti.

La manifestazione di Roma, tutti gli eventi di questo periodo, l'ennesimo pesante attacco che su tutti i piani viene portato al proletariato, ci dicono che l'unico antidoto per invertire questo processo sta nella costruzione dell'organizzazione di classe che sappia porre, partendo dalle contraddizioni reali, l' interesse di classe su di un piano autonomo, su un programma in cui l'anticapitalismo ne sia il perno principale. Che denunci la manovre dell'imbelle riformismo, sia nella versione dichiaratamente istituzionale, all'interno cioè delle compatibilità del sistema, che in quelle del radicalriformismo che, oltre a non ottenere nulla sul terreno pratico, continua ad avanzare rivendicazioni impraticabili all'interno del medesimo quadro capitalistico–borghese, senza mai mettere in discussione il sistema capitalistico stesso. Che in questa fase di crisi, di assalto alle condizioni economiche e sociali del mondo del lavoro, ponga sul terreno delle lotte la necessità di iniziare a superare la logica riformistica del “meno peggio” per iniziare ad imboccare quella lunga e difficile del superamento del capitalismo. Non è più il tempo di agire inutilmente sui nefasti effetti delle crisi del capitale, ma di iniziare a comprendere che si deve lottare sulle cause che li determinano, altrimenti ci saranno altre crisi, altri attacchi al mondo del lavoro e altre inutili manifestazioni di piazza che avranno, come lo hanno sempre avuto, il compito di sbollire un po’ di rabbia operaia e poi tutto come prima, se non peggio.

Lunedì, October 27, 2014