I modelli cinese e indiano al vaglio dell'attuale crisi economica

A Davos era stata sancito con tanto di ufficializzazione che, date le difficoltà persistenti in cui si dibatteva l’economia americana, la nuova locomotiva in grado di sferragliare nelle immense distese di un progresso capitalistico senza soluzione di continuità era oramai diventata la Cina. Erano stati scomodati perfino termini come “la meraviglia economica del mondo” prendendo a riferimento gli indici di crescita annuale sia del PIL che degli investimenti. Si passava bellamente sopra l’amara constatazione che il cosiddetto “socialismo di mercato” prevedeva un elevato sfruttamento dei lavoratori, il ricorso ai licenziamenti di massa, la privatizzazione di moltissime aziende di stato e pesanti tagli alla spesa pubblica nel campo dell’istruzione, della sanità, della sicurezza sociale. Un dato emblematico sintetizza un po’ il tutto: negli ultimi anni la quota del PIL in conto salari è scesa dal 53% del 1998 al 41% del 2005. L’altro paese che ha potuto ampiamente giovarsi di ripetute attestazioni di benemerenza, giocate tutte sul filo del “mito” da emulare, è stata l’India che per lungo tempo ha avuto tassi di crescita superiori al 9% basati, per lo più, sulla preminenza nel campo del software informatico. Ciò in aggiunta al fatto che la borsa di Bombay ha registrato, in varie fasi, aumenti straordinari e che le imprese indiane sono diventate talmente competitive da poter effettuare investimenti nei paesi in via di sviluppo come anche negli stessi paesi sviluppati.

È bastata però la crisi dei subprime con successivo tsunami economico-finanziario che le risultanze del World Economic Forum di Davos, tenutosi appena due anni addietro, nel gennaio 2007, abbiano posto in tutta evidenza l’inadeguatezza di tali previsioni, la loro vacuità insieme al trionfalismo ad esse sotteso. Il presidente cinese Hu Jintao riconosce con molta chiarezza che “la crisi finanziaria globale mina le fondamenta del vantaggio competitivo della Cina e mette a dura prova la capacità di governare il paese”, tant’è che si assiste ad una corposa diminuzione della crescita che dal quasi 12% del 2007 dovrebbe scendere, nel 2009, al 7%. Se si considera che la leadership cinese ha sempre legato la propria legittimità ad una crescita sostenuta e costante - mai sotto dell’8% - e che gli economisti della Goldman Sachs prevedono per l’anno appena cominciato un’ulteriore discesa al 6% ne discende come la situazione vada a complicarsi sempre più. Da “luogo dove si costruisce il futuro” siamo passati alle 70.000 aziende fallite nel primo semestre del 2008 su uno sfondo di piccole e medie aziende ad alta intensità di manodopera orientate esclusivamente all’esportazione.

L’India pur essendo meno vincolata alle esportazioni ha risentito anch’essa pesantemente della recessione: indici di crescita orientati verso il basso e, dato assai preoccupante, il settore informatico in palese difficoltà. La Infoys di Bangalore riduce le proprie previsioni di crescita portandole dal 20% al 15% quando poco tempo addietro il suo fatturato cresceva a ritmi del 30% annuo.

Nel paese del dragone si pensa di poter fronteggiare la situazione attraverso un “piano di stimolo” di 586 miliardi di dollari orientato verso il potenziamento dell’attuale modello di crescita per cui la priorità va data agli investimenti.

Resta però nebuloso sapere quali e quanti saranno gli interventi mirati a fronteggiare l’attuale congiuntura né può essere fatta una ragionevole previsione su quanti di essi verranno realizzati. Ciò da cui non si potrà assolutamente prescindere saranno le esportazioni, i beni immobili e, in sottordine, il consumo interno. Nella più ottimistica delle previsioni gli effetti positivi dovrebbero però vedersi verso la fine del 2009.

Per intanto è un tantino arduo pensare che questo maxi-piano possa fare da argine all’attuale disoccupazione col creare un consistente numero di posti di lavoro. I dati parlano chiaro: tantissime fabbriche stanno chiudendo i battenti: la crisi interessa il tessile come pure il settore dei giocattoli, riguarda il profondo sud come il macro-settore industriale del Guang Dong e si assiste, paradossalmente, ad un fenomeno che rappresenta un po’ la spia dell’attuale fase economica.

Negli ultimi vent’anni oltre 200 milioni di migranti hanno lasciato le campagne attratti dalla prospettiva di una alternativa alla estrema povertà delle campagne. Ebbene, oggi stiamo assistendo allo stesso fenomeno, però all’incontrario: quasi 3 milioni di mingong (migranti) hanno già perso il posto di lavoro per cui si sono dovuti rassegnare ad un contro-esodo verso le regioni rurali. Sono frequenti, in questo periodo, i riferimenti a una nuova Bretton Woods o le riproposizioni di un altro New Deal passando sopra la vera causa della crisi, sulla contraddizione tutta interna al processo di accumulazione del capitale, sul saggio di profitto sempre meno remunerativo e sempre più insistenti sono i suggerimenti su nuovi modelli di sviluppo che privilegino il consumo interno ed una più equa (o meno iniqua) redistribuzione della ricchezza.

Prendiamo la Cina (ma lo stesso discorso può essere esteso all’India, al Vietnam, Taiwan ecc.): è il classico paese con un’economia dipendente dall’export e dagli investimenti che, nel 2007, hanno contato rispettivamente per il 19,7% ed il 40,9% della crescita del PIL.

I sussulti finanziari attuali è evidente che vanno a colpire queste importanti voci. Però qui si inserisce una contraddizione che non può essere risolta: la Cina, l’India, Taiwan, il Vietnam potranno continuare ad esportare ed al contempo attrarre investimenti esteri diretti soltanto se il costo della loro forza-lavoro rimarrà basso. Incrementare la domanda interna.

Certo, come ipotesi di scuola può andar bene ma tutto questo vorrebbe dire innalzamento dei salari e, con questo, il venir meno delle condizioni che rendono vantaggiose le delocalizzazioni nei paesi periferici. A comprova di tutto questo basti pensare che in questi ultimi mesi aziende americane di macchine utensili si stanno spostando in Cina proprio per “usufruire dei minori costi salariali ed esportare la loro produzione verso gli USA.

Nella sostanza la Cina subirà l’effetto negativo del calo della domanda nei paesi maturi, mentre continuerà a funzionare da zona di produzione “a basso costo salariale” per molti settori dell’economia mondiale.” (J.Halevi. Manifesto 31dicembre 2008). Se, dunque, un rallentamento dell’economia mondiale è una ipotesi non proprio fantascientifica il dato certo è l’ulteriore giro di vite sul proletariato mondiale in termini di aumento dei ritmi lavorativi e di sostanziale decurtazione dei salari.

gg

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.