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Home ›Recessione in Cina - I lavoratori cominciano a reagire con la lotta
Il “miracolo” cinese
Un mito un tempo assai diffuso descriveva la Cina come “disaccoppiata” dall’andamento dall’economia del resto del mondo, ma la crisi del capitale che ha travolto il mondo quest’anno ne ha mostrato la completa infondatezza. Nonostante il suo fenomenale tasso di crescita, la Cina ha dimostrato di non essere immune del virus economico che sta flagellando il globo. Il collasso globale della domanda ha colpito il fiorente settore manifatturiero cinese, portando alla chiusura di fabbriche e alla perdita di posti di lavoro su larga scala. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede che la crescita del pil, dopo aver raggiunto un picco di poco inferiore al 12% nel 2007, si attesterà a meno del 9% quest’anno e potrebbe scendere al 7,5% circa nel 2009.
Ma queste stime di crescita, che comunque sembrano inimmaginabili nelle economie metropolitane, descrivono solo a grandi linee la situazione reale dell’economia cinese. È noto come la Cina sia ormai la quarta economia mondiale, posizionata poco dietro la Germania e appena davanti alla Gran Bretagna. Ma la Cina, con 1,3 miliardi di abitanti, è anche e di gran lunga il paese più popoloso del mondo e, con 2360 $ di prodotto interno lordo pro capite, si posiziona 132esima su 209 paesi (1), peggio della Tailandia e dell’Angola. Inoltre, data l’enorme sperequazione tra ricchi e poveri, il reddito di un lavoratore è molto più basso del dato nazionale medio. Il salario minimo nel Guangdong, che è il più alto in Cina, è pari ad appena 128 $ al mese. Anche i funzionari del governo cinese ammettono di aver bisogno di una crescita dell’8% solo per impedire alla disoccupazione di crescere oltre i livelli attuali.
L’impatto sulla classe operaia
Crisi globale o no, la vita dei lavoratori cinesi è una lotta disperata per la sopravvivenza e, nella fase di flessione economica, la classe operaia è la prima a soffrire. Nel delta del Fiume delle Perle in Guangdong, il cuore industriale della Cina, le chiusure di fabbriche sono aumentate del 20% quest’anno lasciando i lavoratori, soprattutto migranti, con parecchi mesi di salari non pagati. Per paura di una esplosione della lotta di classe, il governo regionale ha istituito un fondo d’emergenza per il pagamento di salari, ma questo fondo non è illimitato.
A livello nazionale, il governo centrale ha tagliato i tassi d’interesse due volte in ottobre e ha promesso una sostanziosa iniezione di liquidità nella malandata economia nazionale. Il pacchetto annunciato lo scorso mese dal governo prevede una spesa di circa 375 mld di sterline (circa il 15% del pil) a favore di interventi di welfare sociale e di progetti infrastrutturali per i prossimi due anni. Ma, secondo alcune stime, l’economia cinese sta correndo solo al 50% della sua capacità ed è improbabile che le misure del governo possano arginare le chiusure di fabbriche o la spirale deflazionistica dei tagli salariali. Il tasso ufficiale di disoccupazione al 4% è una sottostima grossolana che esclude milioni di lavoratori migranti, che non rientrano in nessun conteggio. E proprio questi lavoratori migranti saranno i primi ad essere colpiti; nella provincia di Hubei le autorità stimano che circa 1 milione di lavoratori sarà licenziato prima del capodanno cinese, a gennaio, e che 100 mila sono già stati licenziati. I lavoratori migranti, come abbiamo già detto, soffrono di due forme di discriminazione. In primo luogo non sono ritenuti appieno cittadini nelle città dove sono migrati. Sono classificati come lavoratori rurali e, fino ad una quindicina d’anni fa, non era loro permesso di spostarsi dal villaggio o area di nascita. Adesso è loro permesso, ma al solo scopo di minare i livelli salariali delle città. Nel settore delle costruzioni il 90% dei lavoratori sono migranti rurali che, letteralmente, non si allontanano dal posto di lavoro neanche per dormire e guadagnano 200 $ al mese. Questi lavoratori hanno anche le maggiori probabilità di essere raggirati o truffati, dato che si spostano da un lavoro all’altro prima di aver ricevuto tutti gli stipendi. Sembra che ogni lavoratore migrante possa lamentare di aver perso almeno sei mesi di paga a questo modo. (2)
Secondo i resoconti delle agenzie di stampa Xinhua e JinYang, fino al 2007 più di 124 mila progetti edilizi completati in Cina dovevano ai lavoratori migranti 175,6 miliardi di yuan (24,8 mld $US) in salari non pagati. Le imprese edili di proprietà statale contano per più di 9,2 mld sul totale, secondo le cifre del Ministero delle Costruzioni [dei Lavori Pubblici? - ndt]. (3)
Una risposta di lotta?
Nelle ultime settimane c’è stata una fiammata di lotta di classe contro il deterioramento delle condizioni in cui i lavoratori si trovano. A Longnan, nella provincia di Gansu, 2000 lavoratori si sono rivoltati contro la chiusura di alcuni uffici governativi che porterebbe ad una disoccupazione ancora più alta. All’aumentare del numero di persone in strada, si sono verificati violenti scontri con la polizia. Ci sono anche stati scioperi a catena in molte città, da parte di tassisti, per la penuria e il costo crescente del carburante e contro la proliferazione di taxi senza licenza (le tariffe delle licenze sono molto alte). Gli episodi sono spesso terminati con l’arresto di tassisti in sciopero che avevano attaccato veicoli abusivi. In Dongguan, sul delta del Fiume delle Perle, 500 operai di una fabbrica di giocattoli si sono rivoltati contro gli indegni sussidi di disoccupazione pagati ai lavoratori messi in esubero. Sembra che la protesta sia stata avviata da un gruppo di 80 lavoratori migranti che hanno mobilitato altri lavoratori migranti e disoccupati per assaltare e distruggere la fabbrica. Ciò è seguito ad una precedente protesta in un’altra fabbrica di giocattoli della stessa città, in ottobre, quando 7000 lavoratori occuparono la fabbrica e le strade circostanti in segno di protesta contro il mancato pagamento di salari, obbligando il governo ad accordare l’appianamento degli arretrati. Infatti, molti lavoratori spesso non vengono pagati per mesi. In molti casi i padroni delle fabbriche sono di Hong Kong o Taiwan; quando le aziende cominciano a incontrare problemi, semplicemente scappano a casa (al di fuori della giurisdizione della Repubblica Popolare) senza pagare i salari dei lavoratori. Altrove, nella Cina nord-occidentale, una rivolta contro gli sfratti è stata dispersa dalla polizia con l’uso di gas lacrimogeni.
È chiaro che le autorità si stanno attrezzando per reprimere violentemente le proteste operaie. Il 20 novembre, un alto funzionario statale una conferenza nazionale ha detto che c’era bisogno del massimo impegno per rafforzare la polizia, per “punire chi mette a rischio la nostra stabilità sociale”. Uno dei problemi dello stato è che non dispone di sindacati credibili con cui negoziare. Il maoismo sarà anche passato, ma i sindacati sono ancora tutti affiliati al Partito Comunista. In teoria, la Cina era “socialista” e quindi si presumeva che i lavoratori possedessero le loro imprese. In pratica, questa non era altro che una delle solite coperture per lo sfruttamento da parte dello stato capitalista. Il ruolo dei sindacati era ridotto alla consegna dei regali di compleanno e all’organizzazione delle celebrazioni delle festività nazionali. Secondo la logica “socialista”, se i lavoratori, in teoria, possedevano le loro imprese, non c’era “bisogno” di scioperare. Nel 1975, Mao aveva inserito il diritto di sciopero nella costituzione, ma nel 1982 è stato rimosso da Deng come parte delle sue “riforme”. Tuttavia, in alcuni recenti scioperi (come quelli dei tassisti), il governo si è trovato a non avere nessuno con cui parlare in qualità di rappresentante dei lavoratori, perciò ha provato a incoraggiarli a formare delle associazioni. Per ogni stato capitalista questo è essenziale, a meno che non voglia promuovere apertamente la guerra di classe. Come hanno dimostrato nei paesi capitalisti avanzati, i sindacati continuano a negoziare con lo stato, a dispetto della rabbia dei lavoratori, per raggiungere un accomodamento favorevole allo stato.
Al momento, le lotte dei lavoratori cinesi sembrano essere sporadiche ed isolate, tuttavia man mano che la crisi si approfondisce, le potenzialità per una azione più unita e coordinata si rafforzano. Ma questo significa che i lavoratori hanno bisogno di organizzazioni veramente indipendenti e rappresentative delle loro richieste, cioè comitati di sciopero responsabili di fronte alle assemblee di massa dei lavoratori, coordinamento degli scioperi tra una fabbrica e l’altra e coordinamento tra tutti i settori della produzione. In Cina, come altrove, i lavoratori devono sviluppare la consapevolezza che la lotta per una vita migliore deve diventare una lotta contro il dominio stesso del capitale. Questo può avvenire solo per mezzo di una lotta politica, non solo contro i capitalisti privati del sud-est della Cina, ma contro l’intero apparato burocratico che controlla il sistema. In definitiva, questo richiede la creazione di un partito politico che possa guidare la lotta, in modo tale che la lotta di questo o quel settore diventi la lotta di tutti i lavoratori. I problemi sono enormi, date le divisioni su cui i capitalisti possono giocare, ad esempio tra lavoratori rurali ed urbani, ma la classe operaia cinese ha una notevole storia di lotta che risale all’insurrezione di Shangai nel 1927 e la crisi attuale non sta affatto per passare ...
PBD(1) Dati della Banca Mondiale, 2007.
(2) Secondo una ricerca della Università di Berkeley, California, come riportato nello New York Times del 14 agosto 2008.
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Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
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