I nodi economici dello stalinismo: terza parte

Il punto di partenza della NEP

Illusioni a parte, la guerra civile era riuscita in qualche modo a risolvere i problemi politici della lotta di classe, ma il comunismo di guerra – anche perché non era nei suoi programmi – non risolse alcuna questione economica se non quelle inerenti all’immediato soddisfacimento delle esigenze dell’Armata Rossa e della sopravvivenza del proletariato urbano.

La politica delle requisizioni, male e rimedio estremi alla eccezionalità della situazione, non poteva che essere temporanea. «La guerra e la rovina ci hanno imposto il comunismo di guerra. Esso non era e non poteva essere una politica rispondente ai compiti economici del proletariato. Fu una misura temporanea» (16).

Ciò nonostante, nel breve periodo della sua applicazione, le conseguenze furono gravi. La soppressione del mercato in favore dello scambio “naturale” dei prodotti rimase, come tanti decreti di quel periodo, sulla carta. La pratica del mercato nero si sostituì diffusamente e facilmente ai contenuti dei decreti. Un volume sempre crescente di merci scompariva attraverso i canali di un mercato sempre meno occulto e sempre più praticato da ogni specie di commercianti, speculatori ed avventurieri. Il persistere delle requisizioni nelle campagne aveva indotto i contadini medi, e soprattutto quelli ricchi, ad occultare le scorte in un primo tempo, per poi passare ad una drastica riduzione della produzione agricola.

La NEP, dunque, non fu una invenzione occasionale più o meno brillante, più o meno confacente ai “sacri principi”, ma l’unica via percorribile dopo il periodo del comunismo di guerra. L’imposta in natura, cardine politico-amministrativo di tutta la NEP, non faceva altro che rendere ufficiale la prassi dello scambio di mercato con lo scopo dichiarato di creare le premesse per un rilancio dell’economia agricola pur nelle forme del mercantilismo capitalistico.

In termini concreti l’imposta in natura assicurava allo stato una quota della produzione agricola, rendendo giuridicamente ufficiale, attraverso una misura fiscale, ciò che precedentemente otteneva con la forza delle requisizioni, e, al contempo, favoriva la micro economia dei contadini medi e ricchi, permettendo loro di produrre, oltre che per lo stato, per sé e per il mercato con tutti gli annessi e connessi economici che ne sarebbero derivati non soltanto all’interno del mondo agricolo ma, per riflesso, nel rapporto agricoltura-industria.

Nel muovere i suoi primi passi la NEP doveva tenere presente tre ordini di fattori. In primo luogo dare una soluzione a tutti i problemi ereditati dal comunismo di guerra come condizione necessaria alla ripresa delle forze produttive, il che stava a significare il controllo dello scambio mercantile, un più valido rapporto tra economia industriale e quella agricola e soprattutto, nell’immediato, creare le premesse per la sopravvivenza di milioni di persone, che se non avessero trovato nella politica economica del governo bolscevico un minimo di soddisfacimento alle proprie condizioni di vita, avrebbero finito per mettere in discussione le stesse vittorie politiche della rivoluzione d’ottobre. Non va infatti dimenticato come, nell’autunno del Venti, il malcontento popolare per la politica delle requisizioni, per la militarizzazione del lavoro e la statizzazione dei sindacati, accanto al malessere dovuto alla fame e ad anni di privazioni, avesse già prodotto disordini e scioperi, sia tra i contadini che tra i salariati dell’industria e i disoccupati, aumentati enormemente questi ultimi dopo lo scioglimento dell’Armata Rossa. La rivolta di Kronstadt fu il tragico termometro di quella situazione. Lo stesso Lenin, nel commentare la gravità della situazione, ebbe a dichiarare che gli errori commessi costavano al partito bolscevico più sconfitte di quelle patite sul fronte militare e che era in atto un processo di scollamento tra il potere sovietico e larghi strati della popolazione.

Secondariamente la nuova politica economica aveva anche il compito di incanalare, dopo averli favoriti, i rapporti di produzione capitalistici, in modo tale che l’auspicato sviluppo delle forze produttive rappresentasse, in un momento di ripresa della lotta rivoluzionaria su scala internazionale, un vantaggio sia per la Russia che per le nuove esperienze di classe e non un ostacolo insormontabile. Sulla base di queste considerazioni Lenin credette di individuare nella gestione proletaria del capitalismo di stato il canale adatto, fatte salve tutte le premesse politiche interne ed internazionali.

Infine, individuati i punti di partenza e gli obiettivi di arrivo della nuova politica economica, restava da valutare, nell’ipotesi poi verificatasi di un ritardo della rivoluzione internazionale, sino a che punto lo sviluppo capitalistico sarebbe rimasto sotto il controllo del potere sovietico, o meglio, sino a quando stato e governo rivoluzionari avrebbero potuto resistere alle deterministiche pressioni provenienti dalla base produttiva.

I primi due punti, impostati teoricamente e resi operativi dagli appositi organismi statali, ben si confacevano all’assillante preoccupazione di resistere al potere pur cedendo sul piano economico, il terzo punto, ovvero i tempi di questa resistenza in rapporto agli sviluppi della situazione internazionale non era questione che si potesse risolvere a tavolino né tantomeno al chiuso della sola esperienza russa. O una nuova ondata rivoluzionaria sarebbe giunta a risolvere per tempo la contraddizione eliminando uno dei due termini (quello capitalistico), oppure lo sviluppo delle forze produttive in senso capitalistico si sarebbe a tal punto ingigantito da risultare irreversibile a qualsiasi sollecitazione sia interna che esterna.

Sia l’impellenza dei problemi che il fiducioso atteggiamento (siamo soltanto nel ’21), rispetto alle possibilità di una ripresa rivoluzionaria, fecero in modo di rendere nebuloso il terzo punto.

Nel marzo del ’21 il Politburo diede il la ufficiale alla NEP. Nella fase di presentazione erano messi ben in risalto gli aspetti commerciali e gli incentivi economici della riforma. Ad esempio era prevista una riduzione dell’imposta a quei contadini che avessero aumentato le superfici coltivabili ed aumentato la produttività della terra. Quei pochissimi attrezzi agricoli che lo stato metteva a disposizione, non sarebbero più andati alla parte povera del contadiname ma soltanto a coloro che avessero consegnato spontaneamente allo Stato una quota superiore rispetto a quella prevista dall’imposta.

Allo scambio delle merci, previsto inizialmente solo su base locale, vennero ben presto tolte tutte le limitazioni possibili. Se capitalismo doveva essere bisognava rimuovere tutti gli ostacoli ad un corretto sviluppo dell’economia mercantile.

Il teorema generale, dunque, prevedeva, una volta messo in moto il meccanismo economico della nuova politica, lo sviluppo delle forze produttive sotto il controllo del potere politico rivoluzionario, partendo dal mondo dell’agricoltura per arrivare a quello dell’industria. Nello schema generale era previsto il superamento dell’attività produttiva patriarcale e particellare prima, del capitalismo privato sia agricolo che industriale poi, per arrivare, il più presto possibile, ad organizzare un tipo di produzione centralizzata nelle mani dello Stato, il vero e proprio capitalismo di stato; perché questo tipo di organizzazione e non un altro? Perché, rispondeva Lenin

Il capitalismo di stato economicamente è incomparabilmente superiore alla nostra economia attuale; questo in primo luogo. In secondo luogo, in esso non vi è nulla di spaventoso per il potere sovietico, poiché lo stato sovietico è uno stato in cui è assicurato il potere degli operai e dei contadini poveri (17).

In questa prospettiva, sempre finalizzata al raggiungimento del compito supremo di resistere al potere politico sino all’apertura di nuovi fronti rivoluzionari in Europa, non potevano trovare posto forme di organizzazione e di distribuzione socialista. L’imposta in natura, la riapertura del mercato, lo scambio commerciale tra il settore agricolo e quello industriale, il ristabilimento del rapporto tra capitale e salario, la politica delle concessioni al capitale interno e straniero e infine lo stesso commercio con l’estero, se da un lato esprimevano le uniche forme possibili allo sviluppo delle forze produttive, dall’altro palesavano l’assoluta incompatibilità di una qualsiasi costruzione del socialismo, che del resto non era all’ordine del giorno nelle prospettive della NEP, come non lo era stato nella fase del comunismo di guerra. Anzi la NEP si vide costretta a sbarazzare il campo anche da quelle misure distributive, frutto della statizzazione forzata, che il comunismo di guerra fu indotto a porre in essere, più per necessità contingenti che per scelta politica.

In questa prima fase di vita della NEP, quando si parla di difesa e consolidamento del socialismo, non lo si intende da un punto di vista economico bensì politico, esclusivamente politico.

La NEP nel quinquennio 1921-25

Con la NEP, sia in sede economica che politica (nuovo tipo di alleanza con i contadini), si doveva cominciare da zero, tenere in debito conto le reali situazioni dell’industria e dell’agricoltura, muovere i primi passi dalla seconda situazione per innescare il processo di sviluppo della prima, riponendo le speranze della restaurazione della grande industria per tempi economici più maturi. Il capitalismo di stato era sì il punto di approdo della nuova politica economica, ma il punto di partenza era molto più a valle, era nelle incrostazioni piccolo-borghesi della piccola e media economia contadina.

Decreti ed impostazioni a parte, a sbloccare la situazione ci pensò il buon raccolto del 1922. Una produzione di grano superiore di 800 milioni di pud (un pud = 16,5 kg) rispetto a quella dell’anno precedente, fu sufficiente a rimettere in moto le prime rotelline dell’immobile macchina produttiva dell’intera Russia. La maggiore disponibilità di grano e di altre derrate alimentari, accompagnata dalla possibilità di vendere sul mercato l’eccedenza produttiva, una volta pagata l’imposta allo stato e detratte le quote di consumo personale, si risolveva in un incentivo all’allargamento della base produttiva.

Anche se con la NEP, nel breve periodo, fu la grande industria a doversi adeguare alla produzione ed alla distribuzione della piccola produzione capitalistica, nello spazio di due anni, si sciolsero buona parte dei nodi creati dal comunismo di guerra.

Innanzitutto l’ossigeno del libero commercio e degli incentivi materiali fece in modo di convogliare la produzione nel mercato ufficiale annullando le pratiche speculatrici di quello nero. Per le medesime ragioni i contadini che erano in condizioni più favorevoli aumentavano la semina dei terreni, coltivando aree sempre maggiori, si industriavano per aumentare la produttività delle colture creando le condizioni per un aumento della produzione globale.

Sulla base di questo primo, limitato, ma importante impulso, andava creandosi un nuovo rapporto tra città e campagna. Le necessità del comunismo di guerra avevano distrutto ogni possibile rapporto di scambio tra i centri industriali e la campagna che non fossero legati alla politica delle requisizioni. Con la NEP l’eccedenza produttiva dei contadini ricchi si poneva sul mercato come domanda di prodotti manifatturieri, praticamente scomparsi dall’inizio della guerra imperialistica. Dopo sette anni di assoluta immobilità, l’industria leggera, produttrice di beni di consumo, si trovava di fronte, sul mercato, una domanda in grado di stimolarla. In questo settore le sollecitazioni mercantilistiche si indirizzavano verso le industrie tessili, manifatturiere e del cuoio e tutte quelle aziende private, o addirittura familiari, che fossero in grado, in un modo o nell’altro, di presentarsi sul mercato come offerta di beni industriali capaci di soddisfare le esigenze della domanda.

In questa fase era massima preoccupazione del governo di andare incontro alle piccole aziende rurali che avevano bisogno di modestissimi investimenti ed al contempo non avevano la necessità di accumulare grandi quantità di scorte e non richiedevano l’uso di ingenti stock di materie prime. Il ristabilito scambio mercantile tra un settore dell’economia industriale e quello agricolo, il ripristino delle normali attività di mercato non potevano che essere considerate positivamente. Nei primi mesi della NEP gli scambi commerciali avevano un raggio d’azione limitato, locale. Difficilmente superavano i confini della provincia o del distretto politico a cui appartenevano. Lo scambio inoltre, in conformità ai primi decreti, avveniva in senso “naturale”, riso con cuoio, grano con lino, ecc. senza l’intermediazione della merce denaro. Il perché di questa forma di scambio non risiedeva tanto nella preoccupazione di un ritorno alla forma monetaria tipica del capitalismo, quanto alla impossibilità di basarsi sull’equivalenza del rublo, svalutato ormai al punto da non rappresentare nemmeno il valore delle carta su cui veniva stampato.

Non per niente lo stesso Stato pretendeva il pagamento dell’imposta in natura e non attraverso l’esborso di quintali di cartaccia. Gli operai delle industrie statali non potevano essere nutriti con biglietti di banca ma soltanto con pane, riso e farina.

Nell’industria pesante, quale l’estrattiva, siderurgica, metallurgica e metalmeccanica, ovvero nell’industria di Stato e nei trasporti, le cose marciavano diversamente. Eccezion fatta per l’industria legata all’esportazione ed alla raffinazione del petrolio, che nel ’22 era risalita al 39% rispetto alla produzione del 1912, tutti gli altri settori citati stentavano a superare il livello del 30% sempre rispetto agli indici del 1912.

Le ragioni erano più che evidenti. Nonostante che il Tesoro fosse in flagrante bancarotta, lo Stato si vide costretto, sia per necessità economiche che politiche, ad accollarsi l’onere della gestione delle attività produttive fondamentali, e perché solo così facendo poteva mantenersi alla guida politica dell’intera economia nazionale, e perché in nessun caso si sarebbero trovati capitali privati disposti ad investire in settori nei quali di utili se ne sarebbe parlato soltanto a distanza di anni. Ne conseguiva che il rilancio della grande industria, produttrice di beni strumentali, avrebbe segnato il passo sino a quando i benefici economici della NEP avessero travalicato i limitati confini dell’economia contadina permettendo allo Stato, sempre attraverso l’imposta in natura, di aumentare le entrate e di devolvere verso l’industria pesante quote di capitale finanziario sempre più rilevanti.

Nel frattempo lo Stato, per evitare le pesantissime conseguenze della stagnazione produttiva del settore, e per creare le dorsali del futuro capitalismo di stato, credette di trovare una soluzione parziale nella politica della concentrazione in trust dei vari capitali privati ed in quella delle “concessioni”.

In altri termini, là dove lo Stato non poteva arrivare con la politica delle nazionalizzazioni a gestire direttamente i settori produttivi, favoriva la concentrazione delle singole imprese dello stesso settore in “unioni” al fine di esercitare un miglior controllo anche se indirettamente, di tutte le attività produttive che avessero una rilevanza nazionale. Con un decreto del Narkomprod del 27 ottobre 1921, i 380 trust, diventati 421 alla fine del ’22, comprensivi del settore tessile, metallurgico, chimico ed elettrico venivano divisi in due categorie. La prima che non riceveva più rifornimenti e finanziamenti dallo Stato era libera di vendere la propria produzione sul mercato libero, di stabilire contratti vantaggiosi con la forza lavoro, anche se limitatamente dalle sovvenzioni statali, era autorizzata a vendere sul mercato libero sino al 50% della propria produzione e, comunque, era vincolata a dare la precedenza alla domanda degli enti statali, alle cooperative, ecc.

Con la preparazione del nuovo codice civile dell’autunno del 1922, ad entrambi i trust, definiti ancora “imprese statali e unioni di tali imprese” funzionanti “in regime di direzioni autonoma e non finanziate dal bilancio dello Stato” si conferiva la possibilità di partecipare alle operazioni economiche con veste giuridica autonoma. Ovvero lo Stato consentiva alle imprese organizzate nei trust di stipulare contratti di compravendita, di chiedere investimenti, di esibire come garanzia i propri fatturati, in pratica godevano di tutte le libertà commerciali possibili ad eccezione dello Stato. Per ciò che concerneva la politica delle concessioni il discorso era ancora più esplicito. Sempre nell’Imposta in natura Lenin, prefigurando i passi necessari alla costruzione del capitalismo di stato ne indica il profilo:

Per avvicinarsi alla risoluzione di questo problema, bisogna, innanzitutto, figurarsi nel modo più chiaro possibile che cosa praticamente sarà e potrà essere il capitalismo di stato nell’interno del nostro sistema sovietico, nei limiti del nostro stato sovietico. Il caso più semplice o il più semplice esempio di come il potere sovietico incanala lo sviluppo del capitalismo nell’alveo del capitalismo di stato, come esso pianti il capitalismo di stato è quello delle concessioni (18).

Per la ragione che

Piantando il capitalismo di stato sotto forma di concessioni, il potere sovietico rafforza la grande produzione contro la piccola, la progredita contro l’arretrata, la produzione meccanica contro quella a mano, aumenta nelle proprie mani la quantità di prodotti della grande industria (prelevamento della quota) rafforza le relazioni economiche regolate dallo Stato contro quelle anarchiche piccolo-borghesi (19).

Le concessioni, infatti, dovevano assolvere a più compiti. Dando in gestione attività produttive sia nel settore industriale che agricolo al capitale privato e straniero in cambio di una “quota” che variava dal 10 al 15%, si sperava di centrare tre obiettivi con un solo colpo. Sviluppare la grande industria usufruendo del capitale e della tecnologia straniera in quei settori produttivi nei quali lo Stato non avrebbe avuto modo di inserirsi proficuamente. Reperire attraverso la riscossione della “quota”, valuta pregiata da usare nel commercio con l’estero e/o prodotti industriali ad elevato contenuto tecnologico. Aumentare le entrate dello Stato.

Nel primo quinquennio della NEP i risultati di questa politica furono discreti, rispetto alle aspettative iniziali, ma non raggiunsero mai livelli rilevanti. Meriterebbe invece migliore approfondimento la definizione che Lenin dà del capitalismo di stato organizzato sulla base della concentrazione industriale attraverso i trust e della politica delle concessioni. Lo faremo in seguito. Per il momento ci interessa vedere come i problemi furono posti e come si cercò di dare loro soluzione.

I due termini della contraddizione

La NEP non tradì le attese. La nuova politica economica doveva risolvere l’impasse del comunismo di guerra, e lo fece. Doveva incanalare lo sviluppo delle forze produttive verso la forma del capitalismo di stato, e ne creò le condizioni. Restava da affrontare il problema più delicato: sino a che punto i due termini della nuova contraddizione sarebbero coesistiti sino a quando il potere politico proletario avrebbe resistito senza essere travolto dall’ingigantirsi della forma economica capitalista, sino a che punto era percorribile l’ardua strada del controllo? Nell’affrontare l’importantissimo quesito occorre risistemare i termini dell’impostazione.

La rivoluzione d’ottobre creò le condizioni politiche indispensabili per il passaggio alla fase socialista.

Il comunismo di guerra sconfisse definitivamente le forze della reazione ereditate dallo zarismo e permise l’ulteriore consolidamento del potere rivoluzionario.

In mancanza delle condizioni interne (sufficiente sviluppo delle forze produttive) ed esterne (collegamento con altre esperienze rivoluzionarie), la NEP si presentò come unica via possibile pur nella necessità di ridare fiato al capitalismo. La NEP non fu rispetto al comunismo di guerra un ripiego verso forme capitalistiche, ma la ripresa dello sviluppo delle forze produttive, nelle forme e nei modi, imposti dalla situazione, dopo un periodo di guerra civile che tutto aveva distrutto e stravolto.

Quando si pose la questione di “resistere” si intendeva, nell’impossibilità di iniziare un processo di trasformazione in senso produttivo e distributivo socialista che avesse la pretesa di durare nel tempo un po’ più dello spazio di un mattino, mantenere il potere politico nelle mani della classe operaia, operare per il decollo controllato dell’economia sovietica, in modo che la ripresa della lotta rivoluzionaria su scala internazionale non cogliesse la Russia nelle medesime condizioni economiche ereditate dalla guerra civile e che, soprattutto, non si riproponesse il drammatico problema di un nuovo assalto rivoluzionario, proprio nel paese che per primo era riuscito ad esprimere una soluzione rivoluzionaria vittoriosa.

La gestione dei primi cinque anni di nuova politica economica dà la misura di come interagirono i due termini della contraddizione all’interno della prospettiva di resistere sino alla nuova ondata rivoluzionaria. Il ripristino dello scambio commerciale ossia il ritorno al mercato libero non poteva che significare il ritorno al mercato libero della forza lavoro. Anche in questo caso si iniziò dall’economia agricola. Negli anni iniziali, prima ancora che prendessero piede le forme produttive colcosiane e dei sovchoz, quando prioritario era incentivare l’economia dei contadini ricchi e medi, si fece in modo di creare le condizioni più favorevoli ai nepmen per sfruttare i milioni di contadini poveri che, in questo processo di rilancio produttivo, dovevano occupare il ruolo di donatori di forza lavoro remunerata secondo le leggi del profilo rurale. In questo periodo vennero revocati tutti i decreti emessi nel ’18 che tutelavano i contadini poveri da contratti capestro che, comunque, fossero inerenti al contenimento dello sfruttamento.

A partire dal novembre del ’21 nel settore industriale, compreso quello statale, si passò dalla distribuzione gratuita dei viveri a quella calcolata in base ai prezzi di mercato. Sempre in base a quel decreto, i salari (pagati in quella prima fase in prodotti alimentari) vennero sganciati da ogni impostazione distributiva egualitaria, ma agganciati al nuovo criterio della produttività. Per rimanere nella logica della produttività lo Stato si vide costretto a drastiche misure anti operaie come i licenziamenti. Nel settore ferroviario il numero dei lavoratori scese dal 1921 al ’22 da 1.240 mila a 720 mila. Alcuni trovarono posto in altri settori, altri rimasero a spasso. Secondo una statistica riportata da Carr, i disoccupati in Russia erano 150 mila nel ’21, 175 mila nel ’22, 625 mila nel ’23, 1.240 mila nel gennaio del ’24. Nel frattempo le leggi di mercato, lontane dall’essere controllate, iniziavano a sgretolare gli argini.

Lo stesso Lenin, già alla fine del ’21, lancia il grido di allarme:

Dobbiamo ormai confessarlo se non vogliamo passare per gente che non sa riconoscere le proprie sconfitte, se non abbiamo paura di guardare in faccia il pericolo. Dobbiamo confessare che la nostra ritirata non è bastata, che è indispensabile ritirarci ancora, fare un ulteriore passo indietro, passando dal capitalismo di stato alla regolamentazione statale della compravendita e della circolazione monetaria. Lo scambio di merci non ha funzionato; il mercato privato si è mostrato più forte di noi, anziché sviluppare lo scambio di merci, abbiamo ricreato i normali processi di compravendita, il commercio normale. Vi consiglio di adattarvi a ciò, altrimenti l’elemento della compravendita, della circolazione monetaria, finirà col sommergervi (20).

E siamo nell’autunno del ’21, solo agli inizi!

Mettere in moto una macchina è molto più facile che controllarla. Tra la fine del ’21 e per tutto il ’22 uscirono una serie di decreti a parziale o completa rettifica di quelli precedenti in riferimento al mercato e alla circolazione delle merci. In primo luogo il commercio non era più limitato allo scambio locale, di distretto o di provincia, ma veniva dilatato su tutto il territorio nazionale, secondariamente si fece in modo di eliminare tutti gli ostacoli “per una sana circolazione monetaria”. Man mano che la circolazione delle merci e tutte le altre attività di mercato andavano assumendo il ruolo che loro competeva nell’ambito di una economia rinata agli schemi classici del più schietto capitalismo, sorse spontanea la necessità di corredare il tutto con una adeguata politica monetaria. La raggiunta, anche se relativa, stabilità del rublo indusse lo Stato a pretendere il pagamento dell’imposta non più in “natura” ma in moneta sonante.

Con un ennesimo decreto il Sovnarkom stabiliva che tutte le merci e servizi dello Stato dovevano essere pagati in contanti. L’incompatibilità di un ritorno all’economia monetaria con il pagamento dei salari sotto forma di razioni alimentari era cosa fatta. Anzi i salari monetari diventavano “un fattore fondamentale nello sviluppo dell’industria”. A migliore precisazione il decreto del 10 aprile 1923 in materia di salari, profitti e contabilità commerciale, dava disposizione ai trust statali in materia definendoli giuridicamente ed economicamente come: «imprese industriali statali, cui lo Stato concede indipendenza nello svolgimento delle loro operazioni, in conformità allo statuto stabilito per ciascuno di essi; tali imprese sono gestite in base ai principi della contabilità commerciale e operano con fini di profitto».

Il grido di allarme di Lenin andava ben oltre le velleitarie critiche dei destri e sinistri di turno, che sin dai primi passi della nuova politica economica presero il vezzo di scambiarsi reciprocamente di posto in una sorta di balletto politico ricco di contraddittorie valutazioni quanto di confusione operativa. Era scontato che con la NEP si ripresentassero tutti i meccanismi di produzione e di distribuzione delle merci. Era più che evidente che le leggi del mercato capitalistico, sollecitate dalle irrinunciabili necessità della riorganizzazione e costruzione economica, facessero sentire il loro peso, tanto più opprimente quanto maggiore era lo spazio da esse conquistato.

Lenin, come la parte più tatticamente accorta del partito, non si meravigliava di vedere crescere e potenziarsi le forze del capitalismo dopo averle esorcizzate, né contrabbandava i necessari passi a ritroso come una conquista, o peggio, come un consolidamento del socialismo. La sua massima preoccupazione era quella di garantire alla dittatura del proletariato tutti gli strumenti possibili per consentire il controllo politico della base produttiva. L’allarme, dunque, non si dirigeva alle fauci sempre più voraci del tigrotto fatto uscire dalla gabbia per consentirgli un migliore sviluppo, ma alle possibilità del domatore di arginare e convogliare la sua bestiale voracità.

Ma il controllo dello sviluppo delle forze produttive come la resistenza del potere politico andavano a cozzare contro ostacoli invalicabili se gestiti all’interno della sola Russia senza il minimo appoggio da parte della rivoluzione internazionale. Solo una rivoluzione vittorioso in uno o più paesi altamente industrializzati avrebbe permesso alla Russia dei soviet di organizzare lo sviluppo delle forze produttive in senso socialista senza passare attraverso tutte le forche caudine del capitalismo. Se la rivoluzione proletaria avesse trionfato nell’Europa occidentale sotto l’egida politica della Internazionale, al potere politico sovietico non si sarebbe presentata la necessità di resistere agli attacchi di quel capitalismo che esso stesso aveva partorito.

Il controllo sull’economia, dopo un primo periodo di inevitabile isolamento, si sarebbe potuto trasformare in momento propulsore verso traguardi socialisti, certamente non facili, non privi di difficoltà e contraddizioni, ma sicuramente raggiungibili. Solo con la fornitura gratuita da parte dell’Internazionale di tutto ciò che era vitale all’economia sovietica sia nel campo agricolo (sementi, concimi chimici, trattori, macchine agricole) che in quello industriale (beni strumentali, impianti e tecnologia avanzata) avrebbero creato le condizioni di base per uno sviluppo sociale più coerente e soprattutto non minato dalla contraddittoria situazione di un potere politico rivoluzionario sempre più minacciato da una base produttiva capitalistica.

Mercoledì, December 20, 2017